PESCA FUORI CONTROLLO
di Michele Bellone
In inglese si chiama overfishing, termine che anche in Italia è preferito alla sua poco elegante traduzione, sovrapesca. Comunque lo si traduca, rappresenta un serio problema per gli ecosistemi marini, già minacciati anche da urbanizzazione selvaggia delle coste, turismo non sostenibile, cattura accidentale di specie non destinate alla pesca, inquinamento. Un problema che, nel 2010, riguardava il 75% del capitale ittico, un terzo del quale si trovava in quello che Maria Damanaki, commissario responsabile delle politiche della pesca dell’UE, aveva definito uno "stato preoccupante"[1].
Ma cosa si intende, di preciso, con overfishing? Significa che una determinata specie viene pescata più velocemente di quanto riesca a riprodursi. Un eccesso che può generare conseguenze gravi sia dal punto di vista biologico, sia da quello economico. Se il prelievo dei pesci è troppo rapido, la biomassa degli stock ittici non fa in tempo a venir reintegrata grazie alla riproduzione, portando così a una crescita negativa della popolazione. L’impoverimento delle risorse ittiche che ne deriva non solo genera un disequilibrio ecologico, ma influisce anche negativamente sulla redditività delle attività di pesca, mettendo in crisi la sussistenza dei pescatori. Un perfetto esempio di quella che l’ecologo americano Garrett Hardin definì, nel 1962, la “tragedia dei beni comuni” (Tragedy of the Commons ).
Alla base del fenomeno dell’overfishing c’è indubbiamente la smodata pressione esercitata dal mercato, che richiede un continuo e crescente afflusso di pesce. Anzi, di alcuni tipi di pesce, quelli ritenuti più prelibati. Come il tonno pinna blu del Pacifico (Thunnus orientalis), ambitissimo dai migliori ristoranti di sushi giapponesi; a gennaio, un esemplare di questa specie è stato venduto al prezzo record di 3600 $ alla libbra. Un prezzo che fa strabuzzare gli occhi, ma che in fondo non dovrebbe stupire se accostato a un altro numero: 94%. Cioè la più ottimistica delle stime – la peggiore parla del 97,9% – del calo della popolazione di questi tonni da quando l’uomo ha iniziato a pescarli, decenni fa [2].
La prospettiva del guadagno immediato trova purtroppo un’ampia serie di zone grigie, generate dalle tante carenze legislative sul tema, nelle quali hanno proliferato e proliferano tuttora speculazione e pesca illegale. Un problema, quest’ultimo, molto sentito per esempio in Africa, dove l’alternanza di dittature, signori della guerra ed emergenze umanitarie ha lasciato campo libero ai pescatori di frodo. Significativa è la situazione della Somalia, le cui coste sono state luogo, recentemente, di un’esplosione di casi di pirateria che secondo la CNN, sarebbero dovuti proprio al tracollo economico delle comunità di pescatori locali, causato dall’overfishing europeo. C’è poi il caso della Libia; come riferisce la BBC, si sarebbero verificati diversi episodi di pesca illegale del tonno rosso nelle acque libiche, durante i conflitti del 2011. Episodi che portarono addirittura a un’inchiesta da parte della Commissione Europea su possibili patti bilaterali fra Libia e Italia, che avrebbero violato le direttive comunitarie.
La via più efficace per risolvere questo problema sembrerebbe essere quella di una governance condivisa. Un esempio incoraggiante in questo senso viene da comunità locali, organizzazioni ambientaliste e istituzioni di Kenya, Tanzania, Madagascar, Indonesia e Papua Nuova Guinea, che hanno combinato modelli di approccio top-down e bottom-up, sviluppando collaborazioni che hanno consentito di superare la paventata tragedia dei beni comuni. Un successo politico, confermato da uno studio pubblicato su PNAS.
Incoraggiante, in questo senso, è la recente votazione del Parlamento Europeo che, con 502 voti a favore e 137 contro, ha approvato il Regolamento Base della Riforma Comune della pesca, che sulla carta dovrebbe contribuire a ricostituire gli stock ittici, creare nuovi posti di lavoro e gettare delle basi solide per una pesca sostenibile all’interno dell’Unione Europea [3].
UN GUAZZABUGLIO STATISTICO
di Viola Bachini
Quanti pesci ci sono nel mare? La domanda non è affatto banale, come dimostra la copertina che Naturededica a questo problema nel numero del 21 febbraio e che rimanda a un articolo dove vengono messe a confronto due posizioni diametralmente opposte sull’opportunità di usare la quantità di pesce pescato come parametro per valutare gli stock ittici. Considerando gli scenari attuali e futuri di intenso sfruttamento della risorsa ittica, dare delle risposte a questa domanda è necessario.
Secondo l’ultimo rapporto della FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations), ogni anno la produzione totale di pesce ammonta a 148,5 milioni di tonnellate. Il maggior produttore mondiale è la Cina, seguita da India e Vietnam, ma ben il 38% del pesce viene esportato, e l’Europa, da sola, rappresenta il 40% delle importazioni mondiali. Nel 2009 il consumo globale pro capite è stato stimato pari a 18,4 Kg. Con queste premesse appare chiara l’esigenza di capire quale sia il livello superato il quale lo sfruttamento della risorsa ittica non può più essere considerata accettabile per l’intero ecosistema.
Il primo passo da compiere in questa direzione è la comprensione dell’ecosistema. Per studiare quantitativamente gli stock di pesci, gli esperti hanno elaborato modelli matematico-statistici.
Il modello MSY (maximum sustainable yeld) fu teorizzato negli anni ’30 nel New Jersey, e stima il quantitativo massimo che può essere pescato in un certo stock per un dato periodo di tempo. Utilizzato a lungo, questo approccio è stato oggetto nell’ultimo decennio di critiche. Il modello MSY, infatti, è di tipo matematico ma poco applicabile nella pratica perché si focalizza unicamente su una specie e ignora alcuni fattori fondamentali nella logica degli ecosistemi. Come l’età e la taglia dei pesci pescati e il loro momento riproduttivo. I risultati di una gestione della pesca basata su questo approccio sono sotto gli occhi di tutti: il declino delle catture della pesca (come denunciato dalla FAO nel 2000), l’esaurimento e il sovra sfruttamento degli stock ittici mondiali.
Un altro importante effetto delle politiche della pesca degli ultimi decenni è stato studiato alla fine degli anni ‘90 da Pauly che ha condotto un’analisi a livello mondiale sulle serie storiche di sbarcato nelle ultime decadi. Lo scienziato è riuscito a dimostrare che vengono pescate quantità sempre minori di specie che stanno in cima alla piramide trofica, a favore di quelle che si trovano alla base. In altre parole, se inizialmente venivano pescati i predatori adesso vengono pescate le loro prede. Così i pesci che stavano in cima alla catena alimentare, come il tonno o il merluzzo, hanno subìto una drastica riduzione , anche fino al 90% secondo Pauly. Tale fenomeno, denominato "fishing down the marine food webs" (FDFW), si verifica perché le specie di taglia maggiore hanno cicli vitali più lunghi e quindi si esauriscono in fretta.
Ultimamente gli scienziati stanno utilizzando anche modelli che prendono in considerazione più specie contemporaneamente e le loro reciproche interazioni. I modelli EBM (ecosystem based management) partono dal presupposto che all’interno di un ecosistema si trovano componenti appartenenti a scale di grandezza diversa ma che sono in qualche modo collegate tra loro e in continua evoluzione.
Come li contiamo: intervista a Simone Libralato
Ricercatore all’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste, Simone Libralato si occupa da più di dieci anni dello sviluppo di modelli matematici di tipo ecosistemico per il Mar Adriatico (Ecopath).
Molti esperti della pesca sostengono che per sapere quanti pesci compongono uno stock andrebbero prima pescati tutti e poi contati..
È assolutamente vero. Quando abbiamo a che fare con i sistemi naturali il livello di complessità è elevatissimo. Nel mare poi, a differenza della terraferma a cui noi siamo abituati, i pesci possono spostarsi all’interno di un dominio tridimensionale e questo aumenta le variabili in gioco. E, oltre che nello spazio, gli stock devono essere studiati anche nel tempo perché con il passare degli anni i pesci vanno incontro ai processi di riproduzione e di predazione.
Come si fa allora a fare una stima quantitativa dei pesci presenti nei nostri mari?
Ci sono due metodi. Il primo è l’Ecosurvey: è un metodo diretto, che sfrutta le onde sonore. Gli studi finora compiuti sembrano indicare che non arreca disturbo all’ecosistema ma è molto costoso perché prevede l’utilizzo di navi che devono monitorare tutto il dominio. I costi tropo alti ne limitano l’utilizzo, per esempio nel Mar Adriatico questo tipo di monitoraggio viene compiuto solo una volta all’anno, in genere in estate o all’inizio dell’autunno.
E il secondo metodo?
Consiste in modelli matematici che riescono a ricostruire anno per anno l’abbondanza degli individui. Questi modelli non sempre riescono a fare stime precise, perché spesso mancano dati accurati.
I dati mancano anche perché la materia di studio è relativamente nuova?
Direi di no. Anche se il problema dell’overfishing ne ha intensificato l’utilizzo, i primi modelli sono stati elaborati nel Nord Europa negli anni ‘40. L’informazione che abbiamo a disposizione è sempre parziale perché le variabili sono molte e collegate tra loro. Prendiamo ad esempio il tasso di riproduzione: è influenzato da salinità e temperatura, che a loro volta potrebbero essere influenzate dal livello di inquinamento. E anche il dato di mortalità da pesca, che non fa certo parte delle variabili naturali del sistema, non può essere stimato con precisione. Purtroppo, infatti, non tutto ciò che viene pescato viene anche dichiarato.
Un gran “guazzabuglio” statistico.. quanto sono affidabili, allora, questi modelli?
Un modello è uno strumento, oserei dire il migliore, per dare una forma quantitativa alle conoscenze generali. E' chiaro che se uso dati poco accurati avrò risultati poco accurati dai modelli. Per questo la sperimentazione e le misure sono importanti: permettono di acquisire informazioni di base che miglioreranno le nostre conoscenze e quindi anche i nostri modelli e i nostri output. Però è anche giusto allertare sull’inevitabile incertezza del modello e delle misure, soprattutto chi fa gestione e chi la subisce. Perché a volte sono proprio loro a dimenticarsi che il sistema naturale è complesso, sempre aperto e variabile.
Ci sono modelli che tengono in considerazione queste complessità, magari presupponendo anche un’interazione tra le varie specie?
Ultimamente vengono studiati dei modelli cosiddetti ecosistemici, che, a differenza di quelli tradizionali, tengono in considerazione che tra i pesci esistono interazioni, e non solo a livello trofico ma anche di spazio. In generale sono ancora strumenti di analisi e non di gestione, ma vengono utilizzati sempre di più per fare previsioni.
Qual è, allora, il metodo migliore per capire quanti sono i pesci che popolano le nostre acque?
In realtà non esiste un metodo migliore di altri. Dipende dalla situazione, dalla complessità del modello, dai dati disponibili, dall’obiettivo finale. Solitamente si utilizzano i dati dell’Ecosurvey per calibrare i modelli matematici, scegliendo di volta in volta il modello più adatto al caso in analisi. Se da una parte i modelli ecosistemici sono più moderni e tengono in considerazione la variabilità dell’ambiente naturale, è anche vero che richiedono una grande quantità di dati che non sempre sono disponibili e in tempi brevi.
SPECIE SU, SPECIE GIÙ
di Micaela Ranieri
“Il più grande problema legato all'overfishing è che i pesci non si possono vedere né contare”, affermaMarco Costantini, esperto di pesca del WWF Italia. Come scrisse David H.Cushing nel 1970, “per sapere quanti pesci compongono uno stock andrebbero pescati tutti e poi contati”. Poiché questo è ovviamente impossibile, per i pesci non si parla di estinzione ma di “collasso”, che avviene quando la pesca di una specie diminuisce fino ad arrestarsi. Ciò che si stima, cioè, non è il numero di esemplari viventi, ma quelli pescati.
Il caso più celebre di collasso si registrò nel 1992 quando la pesca di Gadus morhua, meglio conosciuto come merluzzo, si esaurì in Canada ed ebbe un brusco tracollo in tutto il mondo a causa della pesca selvaggia degli anni ’70 e ’80. Il governo canadese decretò per due anni la chiusura della pesca del merluzzo e più di 40.000 persone persero il lavoro. Una situazione analoga si verificò qualche anno fa, quando il merluzzo del Mediterraneo era prossimo al collasso. Adesso, sembra che grazie alle restrizioni sulla pesca e alle campagne di sensibilizzazione mediatica la popolazione del merluzzo sia in leggera ripresa: i dati della FAO (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura) attestano che nel 2010 sono state pescate 950.950 tonnellate di Gadus morhua, a fronte delle 769.316 del 2008. Questo lieve miglioramento non scongiura però il collasso. Anche se onnipresente sulle nostre tavole, dai bastoncini surgelati al baccalà natalizio, il merluzzo è considerato dall’Unione Mondiale per la Conservazione (IUCN) una specie “vulnerabile”, ovvero con “un alto rischio di estinzione in natura nel futuro a medio termine”.
Un'altra specie ittica immancabilmente presente nelle nostre dispense più che nel mare è il tonno. Ne esistono molte varietà caratterizzate da dimensioni e colori diversi, ma anche da diversi livelli di rischio. IlThunnus atlanticus e il Thunnus orientalis sono considerati dall'IUCN“a rischio minimo, con popolazioni stabili o addirittura in aumento. Ma le altre specie non sono così fortunate. Il Thunnus albacares (pinna gialla) e il Thunnus alalunga sono “quasi a rischio, cioè non sono a rischio immediato ma potranno esserlo nel prossimo futuro poiché stanno rapidamente diminuendo. Il Thunnus thynnus (tonno rosso) e il Thunnus maccoyii corrono, invece, un rischio altissimo di estinzione rispettivamente nel prossimo (specie “minacciata) e nell’immediato futuro “gravemente minacciata). Di questi, è il tonno rosso il più pregiato, usato soprattutto in Giappone per preparare sushi e sashimi e venduto, per la sua rarità e prelibatezza, a più di un milione di euro per esemplare. Non vi sono prove però che la pesca di tonni abbia subito un reale ridimensionamento, nonostante il pericolo collasso. Secondo il rapporto del 21 dicembre 2012 dell' ISC(International Scientific Committe for Tuna and Tuna-like Species in the North Pacific Ocean) la popolazione di tonni rossi è diminuita del 96,4% nel corso dei secoli a causa della pesca. Inoltre, almeno il 90% dei tonni catturati oggi non ha ancora raggiunto l'età riproduttiva.
Esistono numerose altre specie a rischio, secondo la catalogazione IUCN. Ad esempio, l’anguilla europea è “gravemente minacciata”, la balenottera azzurra e il pagro sono “minacciati” e alcuni tipi di cernia e l’orata dorata sono “vulnerabili”. Per molte altre specie, poi, i dati sono insufficienti per le valutazioni.
È presto, però, per dare l'addio definitivo al pesce. Ci sono molte popolazioni ittiche che non sono a rischio, come la trota, la sogliola (definita “abbondante” dall’IUCN), le acciughe (che hanno un tasso di riproduzione elevatissimo), le spigole, e persino, grazie alle restrizioni legislative applicate alla pesca, il pesce spada e lo storione. La biodiversità marina, difatti, pur intaccata dalla pesca, dall'inquinamento e dai cambiamenti climatici, è elevatissima e ci permette, quindi, di poter scegliere cosa mangiare e pescare.
LA POLITICA DELLA PESCA IN EUROPA
di Giacomo Destro
“Il 75% delle specie pescate è sovrasfruttata e, senza tempestivi rimedi, 128 specie su 136 saranno in grave pericolo”: con queste parole, nel luglio 2011, la Commissaria europea alla pesca Maria Damanakipresentava la sua riforma della politica comune della pesca (CFP), che è stata votata a grande maggioranza dal Parlamento europeo il 6 febbraio scorso. La riforma, considerata da molti come una delle politiche all'avanguardia in tema di pesca, affonda però le sue radici in decenni di errori e forti negligenze in quello che è uno dei settori tradizionali del Vecchio Continente.
Di una politica comune della pesca si parlava già nei trattati che istituirono le Comunità Europee (Trattati di Roma, 1957), ma si è dovuto aspettare gli anni '70 perchè le previsioni fossero messe in pratica. In realtà le politiche di questo periodo erano più indirizzate alla creazione di un'area economica di libero scambio, considerando il pesce come merce pura (e non come risorsa vivente) da inserire nel quadro più generale della libera circolazione di merci e persone. Dalla metà degli anni '80, invece, si è cercato di capire lo “stato dell'arte” della pesca: il rapporto, presentato nel 1992, ha delineato una situazione critica, in cui vi erano sovrainvestimenti nel settore tecnologico a fronte di una rapida diminuizione degli stock ittici. Per prima cosa, quindi, nel 1994 è stato creato un fondo a sostegno di queste politiche, il cosiddetto “Strumento finanziario della pesca”, a cui sono seguite varie direttive che irrigidivano i controlli e le regole.
Nel 2002, a dieci anni dalla prima verifica, la situazione è risultata ancora più allarmante: il 75% degli stock ittici dei mari europei era sfruttato in maniera eccessiva. Nonostante questo intenso sfruttamento, la pesca, da un punto di vista economico, è un settore marginale per l'Unione (meno dell'1% del PIL), ma rappresenta l'impiego principale in molte delle zone poco sviluppate dell'Europa (pensiamo all'importanza che riveste in molte zone costiere del nostro Meridione): per questo, con il trattato di Lisbona del 2009 la pesca è diventata un settore di competenza esclusiva comunitaria (art.38-43). Nello stesso anno è stato anche pubblicato una Green Paper sulla pesca, che emanava nuove linee guida. Da questo momento la questione della crisi del settore economico e della drammatica perdita di biodiversità dei mari europei si è imposta come una delle principali voci nell'agenda europea [4] [5].
Dopo un lunga serie di colloqui con esperti, sindacati dei pescatori e ambientalisti si è giunti finalmente a redigere il progetto di riforma, che è stato votato pochi giorni fa dal Parlamento Europeo. La nuova riforma, ritenuta da molti come una tra le politiche più avanzate al mondo in fatto di pesca, si basa su cinque punti:
Divieto di rigetto in mare. Le direttive del 2002 vietavano la commercializzazione di pesci troppo piccoli per obbligare i pescatori a catturare solo pesci adulti, che si erano quindi riprodotti almeno una volta. Tuttavia era emersa quasi subito la pratica di pescare tutti i tipi di pesci e poi selezionarli in base alla lunghezza legale, buttando in mare i pesci troppo piccoli (ma che ormai erano già morti): in questo modo si vanificava l'obiettivo del divieto. La riforma prevede una modernizzazione dell'industria della pesca, sia sotto un profilo materiale, premiando chi rinnoverà con apparecchiature della pesca in grado di selezionare i pesci (ad esempio, reti con maglie larghe per far sì che i più piccoli possano sfuggire), sia sotto un profilo culturale (si incentiverà un controllo diretto tra pescatori e i rapporti tra pescatori e comunità scientifica).
Il rendimento massimo sostenibile (Maximum Sustainable Yield, MSY): questo è un punto centrale della riforma. La pesca in Europa sta collassando: il pesce è ormai scarso e questo espone i piccoli pescatori alla forte concorrenza da parte delle grandi compagnie di pesca globali, che hanno flotte modernissime e in grado di catturare il poco pesce rimasto laddove i piccoli pescatori non riescono. Questi ultimi, quindi, sono costretti a prelevare ancora più pesce (e quindi andando ad aggravare la pratica dei rigetti in mare), accellerando la distruzione degli stock. Per interrompere questo circolo vizioso, la nuova riforma introduce il criterio del rendimento massimo sostenibile, che indica la quantità massima di pesce che si può catturare in un periodo indefinito di tempo senza danneggiare lo stock. In sostanza, si cercherà di far spostare la pesca verso i tipi di pesce che sono abbondanti e fuori pericolo: nel mentre gli stock in pericolo avranno il tempo di ristabilirsi. Il criterio dell'MSY era già stato introdotto dalla Convenzione di Montego Bay (1982), il trattato internazionale di diritto del mare, ma applicato solo a pochissimi stock ittici. Attraverso un'applicazione rigorosa degli MSY già undici stock di pesci sono pescati in modo assolutamaente sostenibile e, anzi, persino economicamente migliore per quanto riguarda i pescatori.
Regionalizzazione: è l'attuazione del cosiddetto principio di sussidiarietà, ovvero un principio cardine dell'Unione che può essere riassunto in “più l'iniziativa è locale, meglio è”. In termini più tecnici, si può dire che la nuova CFP è incentrata sulla cooperazione a livello regionale tra pescatori, comunità scientifica e autorità di vigilanza locali, supervisionate dagli organi comunitari.
La dimensione sociale: Sebbene in nessun paese i pescatori rappresentino più del 10% della forza lavoro complessiva, la pesca rappresenta il settore vitale per molte aree economicamente depresse dell'Europa. Insomma, se un giorno per mancanza di pesce dovesse finire questa attività intere zone si troverebbero senza la fonte principale di sostentamento, provocando una crisi sociale non trascurabile. Tutti i nuovi strumenti messi in atto con la riforma (principalemente le MSY e le concessioni di pesca trasferibili) sono concepiti per bloccare il calo di occupazione del settore, favorendo anche un rafforzamento di una pratica, come l'acquacoltura, che viene vista dall'Unione Europea come uno dei settori chiave di sviluppo futuro (ma diverse organizzazioni per la conservazione della biodiversità hanno espresso pareri contrari sul punto [6] [7]).
Concessioni di pesca trasferibili (Transferable Fishing Concessions, TFC). Le concessioni di pesca trasferibili conferiscono a chi li possiede la facoltà di utilizzo degli stock per un tempo limitato e ben definito. Alla scadenza di tale periodo, la concessione torna allo Stato membro, che è libero di assegnarla nuovamente usando gli stessi criteri di attribuzione o modificandoli. Inoltre, le concessioni possono essere vendute, date in affitto ad altri o scambiate (queste opzioni sono minuziosamente regolate). Gli Stati membri possono anche ritirare le concessioni di pesca trasferibili in caso di violazioni gravi da parte dei pescatori. Infine, essi devono avere quote e concessioni di pesca trasferibili di riserva per nuovi pescatori che intendano iniziare ad operare in un determinato settore di pesca che vada ad incidere su stock non in pericolo o poco sfruttati.
Referenze
[1] Valentina Pop, "New EU policy aims to reduce overfishing by 2015", EuObserver.com (2011 )
[2] Brian Walsh, "The pacific blufin Tuna is foin, going" , Science Time (2013)
[3] Daniel Cressey, "European parliament backs major fisheries reform" , NatureBlog (2013)
[4] The impact of the Lisbon treatery on the EU fisheries policy - an environmental prospective, Client Heart
[5] The common fisheries policy: origins and development
[6] Marine problems: aquaculture, WWF global
[7] Aquaculture, Greenpeace International