fbpx Chiralità: quando la materia è di destra o di sinistra | Scienza in rete

Chiralità: quando la materia è di destra o di sinistra

Primary tabs

Tempo di lettura: 10 mins

Nell’anno 1968 Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica, insieme a Mario Farina, suo stretto e valente collaboratore, pubblica – nella collana Biblioteca dell’Est, che la Mondadori dedica alla cultura scientifica – un libro intitolato Stereochimica. Molecole in 3D.
L’opera è insolita, per Natta: ha un carattere divulgativo. Si rivolge a tutti, non solo agli esperti. E inizia con una storia, quella di un giovane dottorando in cristallografia, Louis Pasteur, che, nel 1848, studiando le proprietà ottiche di un composto molto noto agli enologi, l’acido tartarico, e scopre la chiralità
Una proprietà delle molecole organiche che contengono un atomo di carbonio legato a quattro sostituti diversi.
Le immagini speculari di queste molecole chirali – come le mani di un uomo – non sono sovrapponibili.
Il giovane Pasteur scopre che la molecola chirale esiste in due forme che hanno proprietà chimiche (quasi) identiche ma sono diverse tra loro, come la nostra mano destra è diversa dalla sinistra. Queste forme verranno chiamate enantiomeri.

Stereoisomeria: simmetria, asimmetria, chiralità

Con questo studio Luis Pasteur inaugura una nuova disciplina chimica, la stereochimica appunto, che è quella parte della chimica che si occupa della struttura e delle interazioni delle molecole nello spazio. Inizia così lo studio degli stereoisomeri, ovvero delle immagini speculari non sovrapponibili delle molecole.
Non avrebbe mai potuto immaginare, il giovane Pasteur, di quanto sia pervasiva e importante la chiralità in natura. E non avrebbe mai potuto immaginare che proprio alla stereochimica di altri composti, non naturali, come il polipropilene isotattico, Giulio Natta avrebbe dovuto il suo meritato premio Nobel. Né avrebbe potuto pensare che ancora oggi una delle branche più vaste e promettenti della chimica teorica e applicata – come, per esempio, quella dei sensori capaci di distinguere tra enantiomeri – si sarebbe fondata sulla stereochimica. Una disciplina trasversale, che oggi più che mai attraversa tutto il mondo delle molecole, da quello biologico a quello dei materiali avanzati.
In realtà la stereochimica, intesa come studio degli aspetti statici e dinamici  della forma – in 3D, tre dimensioni, appunto – delle molecole, precede di qualche decennio le osservazioni di Pasteur. La sua origine la si può far risalire, infatti, alle ricerche di un altro francese, Auguste Laurent, che nel 1836 discusse la sua tesi di dottorato e propose la “teoria del nucleo”, sostenendo che le molecole non sono semplici insiemi di atomi più o meno affastellati, ma strutture con legami ben ordinati tra gli atomi e, dunque, con una loro definita disposizione nello spazio. Ancor prima, nel 1812, un altro chimico francese, Jean-Baptiste Biot aveva scoperto una proprietà posseduta da alcune sostanze, sia solide sia in soluzione: quella di far ruotare di un certo angolo il piano della luce polarizzata.

La luce, come si sa, è un’onda che si propaga in ogni direzione. E il piano dell’onda assume, normalmente, tutti gli angoli possibili. Mediante alcuni filtri speciali è possibile far passare solo le onde luminose che si propagano lungo un preciso piano, con una precisa inclinazione. Ebbene ci sono sostanze otticamente attive, scopre Biot, capaci di far ruotare il piano della luce polarizzata di un certo angolo. L’angolo di rotazione dipende dalla sostanza.
Alcuni anni dopo, nel 1844, il chimico tedesco Eilhard Mitscherlich si imbatte in una situazione inspiegabile: un composto noto come tartrato di sodio e ammonio, un derivato dell’acido tartarico, e uno come racemato di sodio e ammonio avevano non solo la stessa composizione chimica e identiche proprietà chimiche, ma avevano anche la medesima struttura cristallina. Erano in tutto e per tutto identici. Eppure uno era otticamente attivo (ruotava il piano della luce polarizzata) e l’altro no. Come spiegare questo bizzarro comportamento?
È la domanda che si pone il giovane Pasteur studiando la letteratura esistente sull’acido tartarico. Ed è qui che emerge il genio. Perché Louis Pasteur si accorge che il tartrato e il racemato cristallini non sono del tutto identici. Il primo è composto da cristalli tutti assolutamente uguali, compresa la direzione dell’angolo di rotazione; al contrario, il racemato è composto da cristalli uguali, con il medesimo angolo di rotazione, ma metà ha una direzione dell’angolo di rotazione opposta a quella dell’altra metà. Come viti identiche, ma con verso della filettatura opposto.
È qui che sta il segreto, pensa Pasteur. E, armato di intuizione e pazienza, riesce a dividere le molecole sinistrorse da quelle destrorse del racemato. Le due forme di molecole – che oggi chiamiamo enantiomeri – presenti in egual misura nel racemato annullano l’una l’effetto ottico dell’altra. Per questo, al contrario del tartrato, il racemato è (sembra) privo di attività ottica.  

La natura allo specchio

La scoperta di Pasteur è l’inizio della storia. Nella quale entrano in rapida successione chimici del calibro del russo Aleksandr Buterlov e del tedesco Auguste Kekulé, dell’olandese Jacobus van’t Hoff e del francese Joseph Le Bel, ma anche del palermitano Emanuele Paternò, grande allievo di Stanislao Cannizzaro e che porta, entro la metà degli anni ’70 del XIX secolo, a dimostrare che il carbonio presente nei composti organici ha una struttura tridimensionale tetraedrica, che può essere chirale (due tetraedri, immagine speculare l’uno dell’altro, non sono sovrapponibili) e che la chiralità è causa dell’attività ottica non solo del tartrato, ma anche di una serie enorme di molecole.
Non possiamo continuare con questa storia, anche se appassionante, perché lunghissima. Diciamo solo che da questo momento in poi e fin quasi ai nostri giorni la stereochimica è stata la base per spiegare la struttura e la reattività delle molecole. E che ancora oggi è fondamentale per studiare le funzioni delle molecole biologiche. E già, perché è la forma in 3D, ovvero nello spazio, che assume una molecola biologica a determinare, quasi sempre, l’attività chimica di una molecola. È solo la forma che assume nello spazio che consente a una proteina di diventare un enzima. Proprio la distribuzione nello spazio delle catene di amminoacidi che determina la peculiarità dell’enzima per il proprio substrato.
A ben vedere non è strano che la stereochimica in 3D abbia una notevole importanza in natura. Quello che è invece più inatteso è che la natura compie delle scelte, delle vere e proprie rotture di simmetria: spesso sceglie uno e uno solo dei due enantiomeri possibili. È la cosiddetta asimmetria sterica. Nello spazio teorico della chimica, per esempio, gli amminoacidi esistono in due forme enantiomeriche, L e D. Ma, chissà perché, gli amminoacidi presenti in tutti gli organismi viventi sono solo enantiomeri L. E così le proteine sono formate tutte da amminoacidi L. Anche gli zuccheri sono formati dalla molecole con la medesima chiralità. Di conseguenza anche gli acidi nucleici sono costituiti da basi che hanno la medesima forma enantiomerica.

Dalla plastica ai farmaci, quando la scienza imita la natura

Perché la natura operi (o abbia operato in passato, in un accidente poi congelato) una simile rottura di simmetria non è chiaro. E, forse, non lo sarà mai. Di fatto esiste. Ecco perché è decisivo, per chiunque tenti di imitare la natura – copiando una molecola e modificandola o inventandola ex novo per farne un nuovo materiale o un farmaco – saper creare l’enantiomero giusto e soprattutto tener presente che la biosfera è un ambiente intrinsecamente chirale.
La struttura delle molecole in 3D è importante anche fuori dalla biosfera. Per esempio nel mondo delle molecole artificiali, come insegna la vicenda del polipropilene e il giusto tributo che Giulio Natta e Mario Farina hanno inteso dedicare alla stereochimica. Non è un caso che ancora oggi, a una delle frontiere più avanzate della chimica, quella supramolecolare, la stereochimica si intrecci con la geometria e la topologia nel tentativo di progettare vere e proprie macchine molecolari.
Ma stereochimica e chiralità non sono solo temi affascinanti per chimici puri e curiosity-driven. Entrano di prepotenza nella chimica applicata più avanzata. Per esempio in campo farmaceutico. E, ancora una volta, non è un caso se la Food and Drug Administration (F&DA) degli Stati Uniti chiede che i farmaci siano prodotti in forme enantiomeriche pure o che si mettano a punto test molto rigorosi per assicurare che entrambe le forme enantiomeriche di un farmaco siano sicure.
Di qui l’importanza della chimica analitica in gradi di rilevare ed eventualmente separare gli enantiomeri, proprio come fece Louis Pasteur con i cristalli di racemato. Non sempre è possibile effettuare l’analisi e la separazione al microscopio. Nella maggioranza dei casi occorre che i chimici siano in grado di penetrare nei luoghi più riposti dove la natura opera le sue rotture di simmetria e di individuare gli enantiomeri più isolati.
Come abbiamo detto, il metodo analitico più antico per rilevare la chiralità è quello ottico e in particolare quello che sfrutta le cosiddette proprietà chirottiche, vale a dire la capacità di enantiomeri diversi di ruotare di angoli diversi il piano della luce polarizzata. Oggi esistono metodi più raffinati e precisi, come la risonanza magnetica nucleare (NMR) e la cromatografia chirale.

Ma la risposte della tecnologia sono sempre un passo indietro alle domande dei chimici. Cosicché oggi per raggiungere livelli di analisi e di controllo più capillari si cercano nuovi strumenti, come la messa a punto di “elettrodi intelligenti” in grado di discriminare nelle soluzioni e negli ambienti chirali tra i vari enantiomeri. Si tratta di molecole chirali che sanno muoversi nel loro ambiente e di intessere specifiche relazioni di tipo diastereometrico (rapporti che hanno a che fare con la posizione nello spazio dei rispettivi atomi e gruppi di atomi). Un altro filone analitico, peraltro l’unico già utilizzato nella pratica analitica, è quello dei biosensori, che altro non sono che sistemi compositi formati da molecole biologiche chirali, in genere enzimi. Tutti strumenti che, come l’occhio che resta colpito dallo strabismo di Venere, ci consentono di scoprire la bellezza e l’utilità dell’asimmetria in natura.

Oligomeri chirali per far crescere i neuroni
di Francesco Aiello 
“Deve assolutamente venire nei miei laboratori, solo chi vede i nostri polimeri e la loro distribuzione spaziale può capire la 'bellezza' della nostra ricerca e i molteplici campi in cui applicarla”, mi spiega telefonicamente Francesco Sannicolò dell’Università Statale di Milano premiato, lo scorso anno, con la prestigiosa medaglia d’oro Raffaele Piria dalla Società Chimica Italiana.
Sannicolò ha appena concluso un progetto triennale di ricerca, finanziato da Fondazione Cariplo, per studiare e sviluppare nuovi polimeri organici in grado di essere poi utilizzati nel campo della sensoristica, della biomedicina e del fotovoltaico. “Siamo partiti da monomeri composti da carbonio, idrogeno e zolfo fino a ottenere polimeri in possesso di proprietà chirali. Andando avanti negli studi ci siamo accorti che non avevamo realizzato polimeri, bensì oligomeri con chiralità intrinseca, in cui la chiralità non deriva da stereocentri aggiunti, ma ha origine da una torsione controllata dell'intero sistema. Qui non ci sono centri chirali, le proprietà del polimero è dovuta alla presenza dei gruppi funzionali. Tali superfici hanno perfetta specularità e altissimo potere ottico rotatorio; la loro chiralità appare modulabile reversibilmente e finemente in base al grado di carica del polimero (breathing chirality)”, afferma Sannicolò.
Il grande vantaggio di aver realizzato degli oligomeri sta nel fatto, poi, che a differenza dei polimeri non si ha a che fare con una miscela disordinata e infinita di monomeri ma con un composto di cui si conosce perfettamente la composizione e le proprietà. Questi oligomeri, inoltre, sono degli anelli: non hanno terminali, e questo determina una difficile degradazione.
A cosa possono servire questi oligomeri? Sono in fase di realizzazione dall’équipe di Sannicolò membrane altamente selettive da poter applicare in farmacologia e chimica. Queste membrane sfrutteranno l'intelligenza particolare proveniente dal possesso della chiralità per riconoscere e distinguere le molecole. A seconda dell'enantiomero che interagisce col polimero, questo modificherà forma e comportamento elettrochimico. Queste membrane sono quindi impiegabili nella costruzione di sensori per il riconoscimento e la separazione di molecole destre e sinistre e anche per preparare molecole solo destre o solo sinistre in reazioni elettrochimiche utilizzando come reagente la corrente trasmessa dai polimeri stessi. “Pensiamo di sviluppare anche supporti su cui far crescere i neuroni. Una delle caratteristiche degli oligomeri è di condurre elettricità: il nostro supporto potrebbe 'collegare' due neuroni e ristabilire le connessioni che sono state danneggiate. Gli oligomeri sono anche fotoattivi: riescono cioè ad assorbire la luce e a convertirla in energia elettrica. Questa proprietà potrebbe essere utilizzata per mettere a punto pannelli solari ad alta efficienza energetica”, spiega Sannicolò.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Intelligenza artificiale ed educazione: la ricerca di un incontro

Formazione ed educazione devono oggi fare i conti con l'IA, soprattutto con le intelligenze artificiali generative, algoritmi in grado di creare autonomamente testi, immagini e suoni, le cui implicazioni per la didattica sono immense. Ne parliamo con Paolo Bonafede, ricercatore in filosofia dell’educazione presso l’Università di Trento.

Crediti immagine: Kenny Eliason/Unsplash

Se ne parla forse troppo poco, almeno rispetto ad altri ambiti applicativi dell’intelligenza artificiale. Eppure, quello del rapporto fra AI ed educazione è forse il tema più trasversale all’intera società: non solo nell’apprendimento scolastico ma in ogni ambito, la formazione delle persone deve fare i conti con le possibilità aperte dall’IA.