Non si può dire che la lezione di Chernobyl non sia servita ai giapponesi. Per quanto anche il governo nipponico sia stato accusato di una certa reticenza nell’informazione, ha comunque ordinato l’evacuazione di chi abitava nei pressi della centrale nel giro di poche ore dall’inizio dell’emergenza, estendendo la zona protetta a 20 chilometri il giorno successivo; ha distribuito 250.000 compresse allo iodio; ha bandito la vendita di prodotti alimentari e in particolare di latte provenienti dalle zone a rischio. E ciò, nonostante il fatto che la gravità dell’incidente e la quantità di radiazioni liberate nell’ambiente a Fukushima al momento appare molto inferiore rispetto alla nube prodotta il 26 aprile del 1986.
Un articolo pubblicato ieri su Nature auspica però che la nuova attenzione suscitata dalla tragedia giapponese possa viceversa riportare i riflettori (e i finanziamenti) sulla centrale posta sul confine tra Ucraina e Bielorussia. Per quanto ormai in disuso, l’impianto non è ancora in completa sicurezza: il sarcofago in cui il reattore è stato sepolto dà già segni di cedimento, per cui è previsto un nuovo progetto che dovrebbe rendere del tutto sicura l’area per il 2065. Ma all’International Chernobyl Shelter Fund che dovrebbe provvedere alla bonifica con 1,4 miliardi di dollari manca ancora metà del denaro. Con la conferenza che si terrà a Kiev dal 20 al 22 aprile, anche grazie alla rinnovata sensibilizzazione da parte dell’opinione pubblica, si spera di raccogliere i fondi necessari non solo per i lavori necessari, ma anche per gli studi epidemiologici che possano definire in maniera più chiara di quanto è stato detto in questo giorni quali siano i rischi effettivi per la salute dell’esposizione alle radiazioni, nel tempo e in relazione alle dosi assorbite.
