Quattro anni fa, il 16 aprile del 2011, ci lasciava Enrico
Bellone. Storico e filosofo della scienza di valore, serio e impegnato
divulgatore, intellettuale militante, Enrico Bellone è stato ed è un punto di
riferimento per tutti coloro che hanno a cuore la scienza e il futuro del
nostro Paese. Per ricordare Enrico Bellone a quattro anni dalla scomparsa è
stato organizzato il 30 maggio prossimo dalla Fondazione Luigi Longo a Tortona,
la città dove Bellone è nato e dove ha concluso i suoi giorni, un incontro dal
titolo “Scettici e curiosi. I cittadini nella società della conoscenza”.
Molti
sono stati gli interventi e gli incontri, da quell’aprile 2011, che hanno
ricostruito la sua biografia, i suoi contributi scientifici e il suo impegno
nella politica culturale italiana. Eppure, nelle pieghe delle sue molteplici
attività, rimangono ancora regioni poco ricordate e non per questo meno
significative. Qui ne rievochiamo una in particolare.
Su Le Scienze, la
rivista da lui diretta dopo Felice Ippolito fino al 2008, aveva tenuto negli
ultimi anni della sua vita una rubrica, “Scienza e società”, finita con lui. Le
ragioni del titolo della rubrica e la scelta degli argomenti in essa trattati
sono particolarmente attuali, e sono ben espressi nella relazione che Bellone
tenne al Congresso della SIF a Palermo nel 2000 dal titolo “Storia delle
scienze e cultura”. La relazione iniziava osservando che in Italia si stava
manifestando un preoccupante calo di iscrizioni ai corsi di laurea scientifici,
in particolar modo a quelli più impegnativi. Questo dato, osservava Bellone,
non riguardava solo l’Italia, ma in Italia rivestiva aspetti particolarmente
preoccupanti a causa di alcune peculiarità. Una di queste peculiarità era
rappresentata da un diffuso analfabetismo scientifico (nel 2000 l’allora
Ministro Tullio De Mauro parlava di più del 60% della popolazione). Questa
peculiarità tuttavia era solo un dato contingente, frutto di scelte le cui
radici risalivano ad almeno trent’anni prima.
Bellone, infatti, evidenziava
come “in anni decisivi per il Paese, fu imboccata la via cieca della
modernizzazione senza innovazione: cieca in quanto basata sull’ipotesi che
fosse possibile modernizzare l’Italia senza far leva sulla ricerca fondamentale
e sulle tecnologie di frontiera”. È implicita, in questa affermazione,
l’importanza attribuita alla storia della scienza intesa anche come strumento
ineliminabile per comprendere le dinamiche sociali ed economiche del passato e
per promuovere un loro riorientamento nel futuro.
Sono queste alcune delle
ragioni che giustificano il titolo della rubrica “Scienza e società” e il fatto
che gli argomenti in essa trattati venissero spesso proposti alla luce di una
rilettura storica. Per quanto sinteticamente espressa, l’idea di “una
modernizzazione senza innovazione” si basava su un’accurata analisi svolta da
Bellone sui rapporti in Italia tra scienza, tecnica e società, a partire da
Galileo ma con particolare attenzione alle vicente post unitarie.
Dall’Unità d’Italia, infatti, e fino ai primi decenni del Novecento i
gruppi di potere non avevano potuto trascurare la presenza degli scienziati,
che costituivano un segmento fondamentale della classe dirigente. In seguito,
la prima guerra mondiale, il fascismo e un’altra devastante guerra mondiale
interrompono questo connubio. Sembra che venga a mancare ogni presupposto per
riavviare nel dopoguerra il confronto tra scienza e società, tra una società
italiana alle prese con la sopravvivenza e una scienza depauperata dalle leggi
razziali e colpita nella sua dignità dall’acquiescenza verso il fascismo.
Invece, alla fine degli anni 1950, il paese vive un’inaspettata primavera con
un dialogo tra scienza e società che, arricchito da innovative dinamiche
industriali, permette al Paese di acquistare una posizione forte in settori
strategici. Sono gli anni di Adriano Olivetti e Mario Tchou, di Domenico
Marotta, di Enrico Mattei e Felice Ippolito, di Giulio Natta, ma anche gli anni
del Centro informazioni studi esperienze (CISE) fondato da Giuseppe
Bolla, Carlo Salvetti, Giorgio Salvini, Mario Silvestri (cui aderirono nel
tempo diverse industrie italiane, come FIAT, Montecatini, SADE - Società
adriatica di elettricità, Pirelli e Falck).
Questo periodo si concluse abbastanza rapidamente intorno al
1970 per diverse ragioni, ma certamente anche per l’arretratezza della classe
dirigente, nella quale l’acculturazione scientifica e tecnologica era, e rimane
oggi, carente. Da allora il divario tra scienza, da un lato, e politica e
imprenditoria dall’altro si è acuito. Il tessuto imprenditoriale italiano,
fatto in maggioranza di piccole e medie imprese, ha progressivamente perso
terreno nei settori della ricerca e dello sviluppo.
Tra le ragioni di questa situazione,
tutta italiana, Bellone individuava la persistenza di “immagini della scienza”
troppo spesso “fabbricate senza che i loro fabbricanti abbiano una minima idea
di che cosa sia la ricerca quotidiana” e, aggiungo io, di cosa sia la
formazione alla ricerca. Come sosteneva Bellone a Palermo, queste immagini
convergono tutte in una tesi: “la scienza è potenzialmente dannosa, ma può
essere utile se controllata sotto l’egida della politica”.
Alla popolarità di
questa tesi hanno concorso gruppi di orientamento diverso, e per certi versi in
conflitto tra loro, ma capaci di influenzare ampi strati dell’opinione
pubblica.
Enrico Bellone individuava nel suo intervento quattro visioni
ideologicamente distanti e pur convergenti su un’immagine falsata della scienza,
del suo farsi e divenire. Per influenti settori della
sinistra la scienza non è neutrale ai bisogni sociali, e quindi la ricerca può
produrre risultati utili solo se governata da decisioni politiche legate ai
bisogni socialmente rilevanti: ma stabilire un nesso rigido tra ricerca e
soddisfacimento di bisogni socialmente utili ha risvolti preoccupanti per il
progresso della conoscenza scientifica, per sua natura libera e prima di tutto
animata dalla curiosità.
In area cattolica si è sottolineato che la prassi
scientifica e tecnologica è una sorgente di concezioni materialistiche che
possono indebolire il primato della persona: anche qui la necessità di un
controllo politico extrascientifico sulla scienza per evitare i rischi di un
disprezzo dell’uomo. Per molti degli intellettuali di matrice conservatrice, la
scienza viene vista come un pericoloso strumento rivoluzionario nelle mani
delle masse, e anche qui si è ribadita la necessità del primato della politica
sulle scelte dei programmi di ricerca. Infine nell’ambito del cosiddetto
pensiero “laico” è ancora presente in varie forme la credenza che il mondo
occidentale si stia disumanizzando sotto le spinte di una tecno-scienza che
sarebbe “vuota di pensiero”. Insomma, quattro visioni ideologiche tra loro
distanti hanno generato una specifica convergenza di opinioni sulla ricerca
scientifica, e quindi sulla politica nazionale della scienza. Questa immagine
dominante della scienza si accompagna a una radicale critica della razionalità
e della tecnica: la paura del cittadino diventa elemento unificante nella
formazione del consenso.
Certo, e
Bellone ne era consapevole, alcune linee strategiche di politica della ricerca
non possono non essere appannaggio della classe dirigente, politica e
imprenditoriale, ma questa dovrebbe essere ben attrezzata per capire che la
ricerca fondamentale non può essere mortificata, come invece avviene sempre di
più in Italia. E la formazione a ogni livello deve essere per forza
generalista: ancorarla infatti alle esigenze contingenti del mercato, alle mode
più o meno solide, è un vulnus che il Paese pagherà a caro prezzo negli anni a
venire.
La “buona scuola” è in questo senso un ulteriore segnale preoccupante,
in particolare quando parla dell’alternanza scuola-lavoro. Sono passati quindici anni da
quell’intervento a Palermo. Alcuni dei segnali positivi che Bellone notava
nella chiusa del suo articolo, come la crescita di testate rivolte alla
divulgazione della scienza, o la ripresa di progetti (citava la Domus
Galileiana di Pisa) finalizzati alla preparazione di storici della scienza, si
sono in larga parte spenti. Ma altri, come la crescita della domanda diffusa di
conoscenza scientifica e di storia della scienza, si sono consolidati.
Molto resta da fare, specialmente
per risolvere pericolose contraddizioni. Una di queste è particolarmente
emblematica. La comunità scientifica italiana, infatti, da un lato è sempre più
consapevole del ruolo della divulgazione scientifica e della storia della
scienza, come strumenti utili anche a ricostruire il consenso sull’impresa
scientifica, essenziale nelle relazioni con la sfera politica, ma dall’altro
ancora mortifica l’impegno nella divulgazione scientifica e fa sparire, di
fatto, la storia della scienza e della tecnica dal nostro Paese.
Su questa strada,
che Bellone ha contribuito ad aprire insieme a fisici come Edoardo Amaldi,
Giovanni Polvani, Guido Tagliaferri, e filosofi e storici del pensiero
scientifico come Ludovico Geymonat, Eugenio Garin, Paolo Rossi, sarebbe
importante muoversi oggi con determinazione.