Una sede, l’Accademia dei Lincei a Roma, è prestigiosa, di
quelle che portano già nel nome l’autorevolezza di secoli di storia. L’altra, nel
contesto della convention Telethon a Riva del Garda, è suggestiva, coronata
dalle montagne che si affacciano sul lago. Due splendidi scenari che hanno visto
negli ultimi giorni nuovi tentativi di dialogare con la politica, i media, ma
anche con il grande pubblico, per spiegare le conseguenze che avrà la direttiva
europea 2010/63 sulla sperimentazione animale, così come è stata applicata in
Italia.
E con lo sguardo preoccupato verso l’iniziativa di Stop Vivisection,
che giocando su questo termine fuorviante, “vivisezione”, il 3 marzo ha
depositato in Europa più di un milione di firme, oltre 600.000 delle quali
raccolte in Italia, per chiedere il bando totale della sperimentazione animale
negli Stati membri.
Ci sono tre mesi perché la Commissione dia una risposta, ma
se fosse un sì, le conseguenze di questa decisione sarebbero catastrofiche,
bloccando gran parte della ricerca biomedica in tutto il continente.
La riflessione all’Accademia dei Lincei
L’Accademia dei Lincei è la più antica accademia scientifica del mondo. Tra i suoi primi soci, addirittura Galileo Galilei. Gli oratori che il 4 marzo si sono succeduti nel grande salone del palazzo romano non raggiungeranno forse la stessa fama, ma certamente sono tra i massimi esperti che oggi, in Italia, possono fare chiarezza su uno dei temi che in questo periodo storico scaldano di più il dibattito tra il mondo della ricerca e il grande pubblico, parte del quale fatica a credere che la sperimentazione animale sia ancora imprescindibile per la ricerca biomedica. «Non solo per verificare la sicurezza di nuovi farmaci, ma prima ancora per capire i meccanismi di base della biologia e quelli all’origine delle malattie, indispensabili per arrivare a ideare possibili nuovi approcci terapeutici» ha precisato Giacomo Rizzolatti, membro del Gruppo 2003, famoso in tutto il mondo per aver scoperto i cosiddetti “neuroni specchio”, che nel corso del convegno ha citato vari esempi di malattie come la miastenia grave, un tempo inesorabilmente mortali, che oggi possono essere curate grazie al bagaglio di informazioni raccolte in questa fase imprescindibile della ricerca, quella detta “di base”.
Un memo importante, nel momento in cui l’”inutilità” dell’uso degli animali per la ricerca è diventato il principale cavallo di battaglia del movimento che continua a definirsi “antivivisezionista”, evocando con questo nome una pratica, la vivisezione, appunto, che desta raccapriccio ma che non rispecchia in nessun modo quel che si fa nei laboratori, dove gli animali non sono “sezionati vivi”, ma utilizzati per esperimenti condotti nel rispetto di tutte le norme riassunte nella formula delle tre R: replacement, cioè sostituire la sperimentazione animale con altri mezzi, quando disponibili; reduction, cioè limitare al massimo il numero degli animali necessari a garantire significatività statistica all’esperimento; refinement, intervenire su tutto ciò che può migliorare le condizioni di vita degli animali e ridurne lo stress e il disagio.
«Troppo spesso ci si ferma alla R di replacement, come se tutto si concentrasse nella ricerca di metodi alternativi alla sperimentazione animale» ha spiegato Augusto Vitale, etologo dell’Istituto Superiore di sanità, nella sessione presieduta dalla senatrice Elena Cattaneo. «Occorre invece pensare anche alle alternative possibili nell’ambito della sperimentazione animale stessa, puntando sulle altre due R, riducendo cioè il numero di animali impiegati e il loro stress, cosa che tra l’altro in molti casi può migliorare il risultato degli esperimenti».
Obiezioni pseudoscientifiche
«Le obiezioni sollevate contro l’uso degli animali nella ricerca sono sempre meno motivate da scrupoli etici, e sempre più da ragioni a cui si vuole dare una valenza scientifica» ha fatto notare Silvio Garattini, dell’Istituto Mario Negri di Milano, un altro dei membri del Gruppo 2003 presenti all’incontro. «Si dice per esempio che gli animali sono diversi dall’uomo, e i risultati ottenuti su un topo non possono essere traslati agli esseri umani. Ma la storia della medicina insegna il contrario: sono moltissime, anzi, la maggior parte, le cure messe a punto sugli animali che hanno cambiato il destino di molti ammalati». All’incontro ai Lincei Garattini ne ha elencate alcune, ricordando come la sperimentazione non serva solo a trovare nuovi farmaci, ma anche a evitare rischi inutili ai pazienti. «Si insiste poi sulla disponibilità dei metodi “cosiddetti alternativi”» ha continuato il farmacologo. «Quando questi sono disponibili ed efficaci, è nell’interesse dei ricercatori utilizzarli: l’insulina, per esempio, veniva un tempo titolata nei conigli. Oggi non occorre più farlo. Anche all’Istituto Mario Negri circa il 70 per cento della ricerca si fa in vitro e solo il 30 per cento in vivo. Ma le due cose non sono in “alternativa”, come erroneamente il termine potrebbe portare a credere: le simulazioni al computer, così come i dati raccolti sulle colture di cellule e tessuti, possono fornire risposte a domande semplici, su singoli elementi del complesso sistema di un essere vivente. Alla fine, prima di poter portare una terapia al letto dell’ammalato, il passaggio preliminare sugli animali resta indispensabile» conclude Garattini. Senza contare che la sperimentazione serve anche per produrre cure per gli stessi animali da compagnia a cui siamo tanto affezionati.
Oltre l’Europa, il baratro
Non ci guadagnano gli animali nemmeno da uno degli elementi
introdotti dalla normativa italiana rispetto a quella europea: il divieto cioè
di allevare cani, gatti e primati sul territorio italiano a scopo di ricerca. «La necessità di
importarli dall’estero non ha solo un impatto economico» ha spiegato Gianluca Grignaschi, dell’Istituto
Mario Negri di Milano alla tavola rotonda organizzata il 9 marzo nell’ambito
della convention Telethon, «ma
incide sul loro benessere, costringendoli a lunghi trasporti che li espongono a
rischi e stress».
Grignaschi ha elencato anche altri punti che discostano la
legge italiana dalla normativa europea, in contrasto con l’articolo 2 della
direttiva stessa che esplicitamente ne vieta ai Paesi membri un’applicazione
più restrittiva. Molti ricercatori italiani sono così incastrati in una
situazione paradossale: da un lato cercano di accedere ai finanziamenti europei
per ottenere i fondi che in patria scarseggiano, dall’altro non possono
ottenerli proprio a causa di una legge italiana, nata per applicare una
direttiva comunitaria, ma che da questa si è poi distaccata. E la stessa
incertezza condiziona anche le richieste di grant ad altri finanziatori.
Due clausole del decreto, in particolare, destano
preoccupazione, perché potrebbero bloccare completamente alcuni importanti
filoni di ricerca: quelli che utilizzano xenotrapianti e quelli che si occupano
delle sostanze d’abuso. Il 31 dicembre 2016 cadrà infatti la moratoria che ha
sospeso il divieto di utilizzare animali da esperimento in questi settori.
La parola xenotrapianti, detta così, è comprensibile che faccia inorridire. Fa pensare a esperimenti alla Frankestein, con organi di animali trapiantati in corpi umani. In realtà con questo termine si intende, per esempio, uno dei principali metodi per studiare i tumori umani, innestandoli in animali da esperimento. Impedirli significava bloccare la ricerca oncologica italiana, all’avanguardia nel mondo. La precisazione, aggiunta nel corso dell’iter legislativo, che il divieto impedisce trapianti “d’organo” dagli animali, escludendo, per quanto implicitamente, cellule e tessuti, sembra aver sventato questo pericolo. E anche, probabilmente, quello di compromettere la possibilità di curare migliaia di pazienti ai quali ogni anno vengono sostituite valvole cardiache biologiche, di origine bovina e suina. «Ma restano esclusi altri settori in cui gli xenotrapianti sono essenziali per la ricerca» ha spiegato Emanuele Cozzi, Responsabile dell'Unità Operativa di Immunologia dei Trapianti dell'Azienda ospedaliera di Padova nonché ex presidente della International Xenotransplantation Association. «Circa la metà dei pazienti che hanno ricevuto un trapianto d’organo entro 15 anni lo perde, con meccanismi che probabilmente dipendono dalla formazione di anticorpi, esattamente come si verifica quando si trapianta un organo da una specie all’altra. Impedirci di studiare questi modelli significa privare di una speranza i molti pazienti costretti a ricevere un trapianto in giovane età».
L’altro campo inspiegabilmente penalizzato dalla normativa italiana è quello della ricerca sulle sostanze d’abuso, per la quale viene negata la possibilità di ricorrere agli animali. «Ma il nostro lavoro è inevitabilmente basato su animali addestrati ad autosomministrarsi sostanze» spiega Gaetano Di Chiara, neurofarmacologo dell’Università di Cagliari e vicepresidente del Gruppo 2003. «Nessun modello informatico o in vitro può sostituirsi a un sistema complesso in cui un ruolo fondamentale è svolto dalla volontà». L’Italia quindi rischia di trovarsi disarmata davanti all’invasione delle nuove droghe, che ogni giorno compaiono in rete e di cui non sarà più possibile studiare la pericolosità.
Una nuova iniziativa: Research4life
«Nel
resto d’Europa, negli ultimi anni, le proteste contro i laboratori si sono
praticamente azzerate» ha riferito a Riva del Garda Kirk Leech, dell’European
Animal Research Association. «Merito anche di iniziative di comunicazione e
trasparenza».
La
legge italiana rischia però di diventare l’anello debole della catena, da
sfruttare per creare un effetto domino in Europa. Per evitare questo, ma anche
per facilitare il dialogo su altri temi rilevanti per il confronto tra la
scienza e parte dell’opinione pubblica, Telethon ha presentato alla convention
un nuovo sito, Research4life, sostenuto da molti istituti di ricerca e aziende
farmaceutiche. «Telethon è l’unica
charity che si è impegnata in questo progetto» ha dichiarato Francesca
Pasinelli, direttore scientifico della Fondazione. «Siamo consapevoli che in
questo modo rischiamo di perdere consenso e sostegno economico, ma la posta in
gioco per i pazienti che aspettano le cure è troppo alta».
«E lo è
anche per i ricercatori» ha concluso la senatrice a vita Elena Cattaneo. «È
giunto il momento di alzare la voce e trovare il coraggio di farsi sentire».