AIDS Quilt di fronte alla Casa Bianca - Credits: photo by Scott Chacon - Flickr - Licenza: CC BY-SA 2.0.
Lo ricordo bene il bollettino Morbidity and Mortality Weekly Report del 5 giugno 1981, come se lo avessi in mano. Un fascicoletto di poche pagine in bianco e nero di uno strano formato ridotto, che arrivava in Europa, e quindi anche nella redazione di Tempo Medico, con un mese e più di ritardo.
Avevo appena deciso di lasciare la carriera di medico ospedaliero per dedicarmi a quella di giornalista scientifico, ero a caccia di notizie e quel grappolo di cinque giovani omosessuali di Los Angeles colpiti da una rarissima forma di polmonite mi sembrava promettere l’inizio di una storia. Scrissi un pezzo, forse il primo pubblicato in Italia, e pochi mesi dopo, mentre le notizie dal mondo medico e scientifico si accavallavano, proposi una nuova rubrica mensile al direttore di TM: AIDS Story.
Ricordo solo vagamente invece, nel luglio del 1985, l’annuncio sulla malattia e l’omosessualità di Rock Hudson, anche se evidentemente ne lessi. All’epoca al Corriere della Sera coprivo le notizie medico-scientifiche, e questo genere di comunicati era appannaggio della cronaca.
Ma giustamente una giornalista e divulgatrice come Cristiana Pulcinelli in un suo libro appena uscito (Cristiana Pulcinelli, AIDS - Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo, Carrocci & Città della scienza, 2017, pagg. 212, 16 €) ricorda che anche per i medici l’annuncio di Hudson è stato “il più importante evento nella storia dell’epidemia”, perché ha sdoganato l’AIDS come una questione rispetto cui nessuno poteva più voltare la testa dall’altra parte: ci riguardava tutti.
La storia dell’umanità è un susseguirsi di epidemie, e tutte in un modo o nell’altro lasciano il mondo diverso da come era. Forse mai come per l’AIDS però il cambiamento si è sviluppato attraverso una concatenazione serrata tra medicina, scienza, politica, cultura e società. Neppure con la peste raccontata da Boccaccio, Manzoni, Camus.
E’ una storia di storie intrecciate il libro di Pulcinelli, “breve” ma denso e ricco di spunti da cui potrebbero nascere anche nuovi libri, e che talvolta si distende nel piacere di raccontare vicende individuali o collettive, come quella del famoso Quilt, la coperta patchwork con i nomi dei defunti arrivata alla lunghezza di 3 chilometri e ora esplosa in decine di migliaia di “coperte” virtuali on line.
Mi sono fermato particolarmente sul penultimo capitolo dedicato alla comunicazione, perché mi ha colpito nella premessa l’affermazione che il virus HIV, “ha permesso la nascita di nuove forme di comunicazione”, oltre ad aver modificato comportamenti e costumi, fatto progredire il pensiero etico, influenzato il modo di condurre la ricerca clinica (grazie all’evoluzione dell’attivismo), mobilitato risorse di partecipazione e solidarietà prima sconosciute, ma anche le peggiori reazioni di rifiuto e stigma.
Le campagne di informazione sono state per molti anni il perno degli sforzi per frenare l’epidemia, dalla fine degli anni Ottanta, quando la promessa di una soluzione vaccinale imminente (dopo il successo immediato nell’isolamento del virus), si allontanava in una prospettiva sempre più remota, e fino alla svolta del 1996, quando combinazioni di farmaci finalmente efficaci hanno trasformato l’infezione da HIV da malattia rapidamente mortale a condizione cronica con cui si può convivere per decenni.
“AIDS, se lo conosci lo eviti” è la sintesi di un percorso lineare che dall’informazione conduce alla conoscenza, da questa ai comportamenti e arriva alla prevenzione. Questo teorema è stato affermato, rifiutato, abbandonato, modificato e ripreso più volte (come pure quello parallelo che anziché dall’informazione prende le mosse dalle emozioni, in particolare la paura).
Il teorema e le sue confutazioni sono stati applicati, oltre che all’AIDS, a tutte le epidemie e più in generale alle questioni scottanti di sanità pubblica, dalle tossicodipendenze alle vaccinazioni, ma ancora non è chiaro quanto e come i mezzi di comunicazione di massa possano essere utili per le emergenze di salute, e il quadro si è ancor più complicato con l’emergere dei social media, che frammentano la sfera dell’opinione pubblica in un’esplosione di incomunicabilità.
Sta di fatto che l’informazione resta un dovere di chi ha la conoscenza e un diritto della collettività, e questo come giornalista mi è sempre bastato per sapere che cosa fare. E altrettanto vale per raccontare la storia e le storie di ciò che è accaduto, come fa Cristiana Pulcinelli.