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Medicane: cosa ci aspetta col cambiamento climatico?

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Immagine Medicane Apollo, che sta interessando le coste orientali di Calabria e Sicilia, da Earth Null School.

Dopo aver provocato già tre vittime, una perturbazione con caratteristiche simili a quelle di un ciclone tropicale sta interessando la costa orientale della Sicilia e della Calabria. Da mezzanotte il lungomare di Catania è chiuso perché sono previste onde fino a 5 metri di altezza e venti fino a 120 chilometri orari.

Eventi di questo tipo vengono chiamati Medicane, da Mediterranean hurricane. «Si tratta di cicloni che possono manifestare caratteristiche differenti in fasi diverse del loro ciclo di vita. Infatti si possono identificare due fasi. La loro genesi è tipica dei cicloni extra-tropicali che si osservano frequentemente alle medie latitudini, ma in certe condizioni possono evolvere in fenomeni simili agli uragani che si sviluppano nelle fasce tropicali degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano», spiega Mario Marcello Miglietta, meteorologo dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR a Padova (uragani è il nome che viene dato ai cicloni tropicali sull’Atlantico).

La genesi è caratterizzata dalla presenza di una forte differenza di temperatura tra gli strati alti dell’atmosfera (più freddi) e quelli bassi e vicini alla superficie terrestre (più caldi). L’evoluzione in ciclone simil-tropicale avviene quando c’è un sufficiente scambio di calore e umidità tra mare e bassa atmosfera in grado di alimentare lo sviluppo di imponenti nubi temporalesche. Questo accade più facilmente nelle zone tropicali dove la temperatura degli oceani può essere molto elevata.

«Negli ultimi anni però si è visto che alcuni degli eventi che venivano considerati Medicane sono dei veri e propri ibridi», spiega Miglietta, «in altre parole durante tutta l’evoluzione della perturbazione coesistono le due dinamiche, quella dei cicloni extra-tropicali caratterizzati da aria fredda ad alta quota e calda a bassa quota e quella dei cicloni tropicali caratterizzati da scambio di calore tra acqua e aria».

L’evento che ha colpito la costa orientale della Sicilia era inizialmente di questo tipo ibrido, «ma nella giornata di giovedì è diventato un ciclone simil-tropicale vero e proprio, come si poteva prevedere già mercoledì guardando le mappe. Purtroppo questa evoluzione ha comportato un’intensificazione dei fenomeni atmosferici» conclude Miglietta.

Fortunatamente questi cicloni simil-tropicali nel Mediterraneo non raggiungono mai le intensità degli uragani di categoria più alta, al massimo hanno venti paragonabili agli uragani di categoria 1, superiori cioè a 110 chilometri orari. Per confronto, i cicloni di categoria 5 hanno venti superiori a 250 chilometri all’ora. In più i Medicane durano meno, da 24 a 36 ore, mentre i cicloni tropicali possono durare anche settimane.

La possibilità di rilevare in modo affidabile i Medicane esiste da quando ci sono i satelliti che osservano l’atmosfera e che possono quindi individuare la struttura tipica di un ciclone tropicale, caratterizzato da un nucleo centrale caldo e movimenti circolari in senso anti orario attorno a esso. Tuttavia, non è facile dire quanti di questi eventi siano stati osservati dal 1979 (anno in cui sono cominciate le osservazioni dell’atmosfera da satellite) a oggi, perché gli scienziati stanno ancora discutendo una definizione condivisa di cosa sia un Medicane.

Diversi studi concordano però nello stimare un’incidenza annua intorno a 1,5 eventi, concentrati nei mesi tra settembre e aprile. Infatti, mentre i cicloni tropicali hanno bisogno di temperature dell’acqua molto elevate, superiori ai 26°C, per i Medicane è determinante la formazione della differenza di temperatura verticale nell’atmosfera che è favorita nella stagione autunnale e invernale dall’arrivo di aria fredda in alta quota dalle zone settentrionali dell’Atlantico.

Una ricerca pubblicata nel 2020 sull’International Journal of Climatology e coordinata da Enrico Scoccimarro climatologo al Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) a Bologna, ha studiato un particolare database elaborato dallo European Centre for Medium-range Weather Forecast (ECMWF) e ha identificato 59 eventi tra il 1979 e il 2017.

L’evento più recente risale però a metà settembre del 2020, quando un Medicane, denominato Ianos, ha colpito la Grecia causando tre vittime e danni stimati sopra i 100 milioni di euro. Secondo uno studio del 2017 firmato da Laura Bakkensen, economista dei disastri naturali alla University of Arizona, l’Italia sarebbe il paese del Mediterraneo che soffre in media i danni più ingenti a causa dei Medicane, 33 milioni di euro all’anno, seguita da Spagna (circa 20) e Grecia (circa 15).

I modelli indicano che il cambiamento climatico in corso renderà i Medicane meno frequenti ma più intensi. «Questo è vero in particolare nello scenario di emissioni più pessimistico, e abbiamo capito che accade perché avremo un’atmosfera più stabile e dunque si creeranno meno frequentemente le condizioni necessarie a innescare i Medicane» spiega Scoccimarro «tuttavia, quando si innescheranno, l’aumento di temperatura degli oceani, e del Mediterraneo in particolare, previsto negli scenari ad alte emissioni, favorirà lo scambio di calore tra oceano e atmosfera facilitando la formazione di eventi più intensi.»

In uno studio pubblicato nel 2014 sul Journal of Climate e coordinato da Leone Cavicchia, climatologo anche lui al CMCC, è stato stimato che in uno scenario ad alte emissioni (il cosiddetto scenario A2 dell’IPCC) la frequenza dei Medicane tra il 2080 e il 2100 diminuirà del 60% rispetto al passato (1948-2010). Per quanto riguarda l’intensità, gli autori osservano un aumento sia nel valore medio dei venti di picco che nella percentuale di Medicane con venti di picco superiori a 29 metri al secondo (circa 105 chilometri orari).

Per raggiungere queste conclusioni, Cavicchia e coautori hanno sfruttato dei modelli numerici del sistema Terra, simulando a computer l’evoluzione fino alla fine del secolo di diverse variabili (temperatura, precipitazioni, umidità relativa, ecc.), e dando in pasto al modello il livello di emissioni di gas a effetto serra previsto da qui a fine secolo in uno degli scenari ad alte emissioni elaborato dall’IPCC. Hanno poi individuato i Medicane che si sviluppano in queste simulazioni e ne hanno studiato le caratteristiche, per esempio i valori dei venti di picco di ciascun Medicane. Infine, hanno confrontato le statistiche delle caratteristiche di questi eventi con quelle osservate per gli eventi avvenuti dal 1948 al 2010 e hanno misurato delle differenze significative.

«Questo tipo di analisi è diventata possibile solo recentemente, quando le capacità computazionali a disposizione ci hanno permesso di usare modelli con risoluzione spaziale elevata, per esempio dell’ordine di 25 chilometri nei modelli climatici a scala globale», commenta Scoccimarro e aggiunge «fino a qualche anno fa questi modelli avevano una risoluzione massima di 100 chilometri ed era difficile osservare nelle simulazioni la formazione degli uragani di categoria 1, ancora di più quella dei Medicane. Per lo studio di questi fenomeni ci si avvale di tecniche di downscaling dinamico attraverso modelli climatici regionali a più alta risoluzione, fino a pochi chilometri, ma che coprono zone limitate». I Medicane hanno infatti dimensioni più contenute rispetto ai cicloni tropicali veri e propri. L’estensione della perturbazione raggiunge i 300 chilometri al massimo, mentre i cicloni tropicali possono arrivare a 1000 chilometri. Per poter simulare eventi che coprono una certa area è necessario avere più punti di osservazione all’interno di quell’area. «Dieci anni fa, quando la risoluzione era di 150 chilometri, faticavamo a simulare con i nostri modelli anche gli uragani meno intensi: riuscivamo a tracciare solo tempeste tropicali di bassa intensità.»

Le scienze climatiche sono tra le più dispendiose dal punto di vista computazionale. Per avere un’idea, basti pensare che per produrre le simulazioni per il Sixth Assessment Report dell’IPCC, pubblicato ad agosto di quest’anno, il CMCC ha impiegato più di tre anni usando 1000 processori di ultima generazione del CMCC Supercomputing Center.

L’impatto del cambiamento climatico sui Medicane è simile a quello osservato per i cicloni tropicali, come mostrato in un lavoro coordinato da Silvio Gualdi del CMCC e pubblicato nel 2008 sul Journal of Climate. Il fattore comune ai due fenomeni, Medicane e cicloni tropicali, è infatti la maggiore stabilità dell’atmosfera che è prevista negli scenari con maggiori emissioni di gas a effetto serra.

Con la stessa tecnica con cui si analizza l’impatto del cambiamento climatico su Medicane e cicloni tropicali, si può studiare anche cosa succederà ad altri eventi meteorologici. Uno studio del 2015 coordinato da Scoccimarro ha considerato le precipitazioni in Europa, concludendo che c’è una differenza statisticamente significativa nel valore delle precipitazioni medie simulate con i modelli per gli ultimi due decenni del secolo e quelle osservate tra il 1986 e il 2005, se si considera il worst case scenario dal punto di vista delle emissioni di gas a effetto serra (in questo caso gli autori hanno utilizzato lo scenario dell’IPCC chiamato RCP8.5). In particolare, osservano un aumento delle precipitazioni medie nell’Europa settentrionale e una diminuzione in quella meridionale. Tuttavia, guardando alla distribuzione nel volume delle precipitazioni, si vede che gli eventi estremi diventano più estremi (in gergo statistico si dice che il 99esimo percentile della distribuzione dei volumi di pioggia aumenta di valore).

È interessante sottolineare che in questo tipo di analisi, i climatologi confrontano le simulazioni sul futuro ottenute dai modelli non con le osservazioni storiche, bensì con simulazioni dal passato al presente ottenute con gli stessi modelli. I modelli hanno infatti bisogno di essere “stabilizzati” e per farlo si fanno partire le simulazioni in un punto del passato dando al sistema come input i livelli storici di concentrazione dei gas a effetto serra, alcune osservazioni di temperatura, pressione e altre variabili (che hanno necessariamente risoluzione temporale e spaziale più limitata di quella che si ottiene con le simulazioni) e delle condizioni iniziali. Una volta conclusa la simulazione fino al presente, si controllano una serie di parametri, per esempio la temperatura media globale o di volume dell’oceano, per accertarsi che il modello non sviluppi delle tendenze in aumento o in discesa che rischiano di falsare le proiezioni future. Dunque nelle simulazioni dal passato al presente i modelli non saranno in grado di riprodurre esattamente gli eventi osservati nel mondo reale, ma sarà sufficiente che lo facciano in senso statistico. Effettuati questi controlli, la simulazione può proseguire verso il futuro.

È quindi estremamente delicato chiedersi se quello che sta succedendo in queste ore in Sicilia e Calabria sia dovuto al cambiamento climatico. Dal punto di vista scientifico, questa è una domanda scivolosa. Come abbiamo visto l’impatto del cambiamento climatico su frequenza e intensità di questo tipo di eventi meteo si misura in termini statistici, non caso per caso. Tuttavia, da alcuni anni è nato un ramo della scienza del clima che prova a considerare i singoli eventi estremi e collegarli al cambiamento climatico. Si chiama extreme event attribution e stima di quanto è più grande la probabilità che un evento con quelle precise caratteristiche si verifichi in quel preciso punto della Terra col clima attuale rispetto alla probabilità con cui quello stesso specifico evento si sarebbe verificato in un clima “più freddo”, cioè con temperatura media globale inferiore a quella attuale. Per fare queste stime è necessario produrre molte più simulazioni del sistema Terra perché si vogliono osservare eventi meteo ben precisi e stimarne la frequenza nei due scenari climatici.

Per il Medicane in corso in Sicilia è ancora troppo presto per rispondere a questa domanda, ma vale comunque quanto i climatologi trovano a livello statistico: cicloni simil-tropicali nel Mediterraneo diventeranno meno frequenti ma più intensi se continueremo a emettere gas serra in atmosfera. Recentemente uno studio di extreme event attribution è stato fatto per le alluvioni che hanno colpito a luglio le regioni centro-occidentali della Germania causando oltre duecento morti. Il gruppo World Weather Attribution ha stimato che «la probabilità che un tale evento si verifichi oggi rispetto a un clima più freddo di 1,2 °C è di un fattore tra 1,2 e 9 più grande».

Tutte queste analisi riguardano gli effetti del cambiamento climatico sui determinanti meteorologici di questi eventi, ma anche il loro impatto sul territorio e sui suoi abitanti può esserne influenzato. «Periodi prolungati di siccità seguiti da precipitazioni estreme possono aggravarne gli impatti perché il terreno secco perde capacità di assorbire acqua. Allo stesso modo il cambiamento nell’utilizzo di suolo può limitare o aggravare gli impatti». Per questo è fondamentale pianificare sia strategie di mitigazione del cambiamento climatico che interventi di adattamento. «Da un punto di vista dell’adattamento, oltre al controllo dell’urbanizzazione è importante migliorare le capacità di previsione degli eventi estremi sia con orizzonte temporale meteo che stagionale, in modo da attuare misure di protezione della popolazione e del territorio sufficientemente tempestive» conclude Scoccimarro.


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