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Dallo gnomone alla Big Science

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Il più semplice (e antico) strumento scientifico è sicuramente lo gnomone: un bastone diritto infilato verticalmente in un terreno piano ed esposto alla luce del Sole. Anassimandro già lo conosceva; se l’avesse inventato lui o piuttosto l’avesse semplicemente importato a Sparta dalla Mesopotamia, è questione per gli storici. È comunque assai probabile che osservazioni del variare delle ombre proiettate al suolo dal Sole al passare dei giorni e delle stagioni siano ben più antiche e risalgano addirittura al periodo neolitico. La quantità di informazioni che si possono estrarre dallo studio sistematico dell’ombra che lo gnomone proietta è notevole, soprattutto in considerazione dell’estrema semplicità dello strumento. Quando, nell’arco della giornata, l’ombra è più corta, è mezzogiorno. In quel momento la linea d’ombra è allineata a un meridiano e indica quindi la direzione nord-sud (puntando verso il nord geografico se si è nell’emisfero boreale). Nell’arco dell’anno, la lunghezza dell’ombra misurata a mezzogiorno varia, mostrando un massimo e un minimo che identificano rispettivamente i solstizi d’inverno e d’estate. Conoscendo la lunghezza dello gnomone e quella delle ombre ai solstizi a mezzogiorno si possono ricavare l’inclinazione dell’asse terrestre e la latitudine del posto.
Lo gnomone, che poi nel tempo ha assunto forme diverse, in particolare nelle meridiane o orologi solari, ha permesso di registrare le posizioni del Sole e di misurarne i cicli, e di costruire così i calendari – di grande importanza per le attività agricole, religiose e sociali. Ecco dunque che con le osservazioni diurne del Sole, e notturne della Luna e degli astri, gli astronomi s’impadronirono fin dall’antichità delle periodicità della natura, anche quelle più complesse come le eclissi di Sole e di Luna, diventando i signori del tempo.

Lo gnomone, con lo studio dei calendari, è forse l’esempio estremo di small science e l’astronomia è l’esempio di una scienza che è stata, per secoli, facilmente accessibile a singoli individui che potevano avvalersi, per le loro ricerche, di una strumentazione relativamente semplice che essi stessi si costruivano o che potevano acquisire da chi era in grado di costruirla. Il cielo è ad accesso libero, l’occhio umano una dotazione naturale, e sestanti, quadranti, sfere armillari, astrolabi, abachi, carta e matita erano alla portata di chi, per estrazione sociale e culturale, poteva e voleva cimentarsi con la scienza. È stato così anche per le altre discipline nate in epoche successive, come la medicina, la fisica, la chimica e altre ancora. Tanti splendidi esempi di quella small science che ha caratterizzato per secoli la ricerca scientifica e che anco- ra dominava nel XIX secolo e all’inizio del XX. Small per i tempi e per le risorse di cui necessitava, certamente non per i risultati. Basti pensare a Galileo, Galvani, Volta e anche a Franklin, Marconi e persino Rutherford, che in laboratori poco più che casalinghi, in solitudine o aiutati da uno o due assistenti, hanno dato contributi importantissimi alla scienza.

I vantaggi della small science consistono nei tempi brevi che separano la formulazione di un’idea dalla sua realizzazione; nella libertà di iniziative che rimangono soprattutto individuali o di piccoli gruppi, e quindi più facilmente organizzabili e gestibili; nella possibilità di ottenere da fonti diverse (istituti, agenzie, mecenati, investitori) quei finanziamenti necessari che, non essendo esorbitanti, permettono di dare spazio alla creatività delle menti più brillanti anche quando esprimono idee non convenzionali o controcorrente. Questo favorisce la concorrenza intellettuale – è possibile che gruppi diversi affrontino con strumentazione diversa lo stesso problema – e velocizza quella conferma indipendente dei risultati che è una delle condizioni richieste dal metodo scientifico.

A un certo punto, tuttavia, la necessità di costruire apparecchiature sempre più grandi e raffinate, e strumenti di indagine più potenti, e di affrontare problemi particolarmente complessi, ha portato a radicali cambiamenti nella gestione della ricerca e alla nascita di quella che viene generalmente chiamata Big Science. La Big Science è caratterizzata soprattutto dal grande numero di persone coinvolte in un particolare progetto e dai costi talmente elevati, da essere sostenibili solamente con l’intervento più o meno diretto dei governi nazionali o di agenzie sovranazionali. Sebbene l’astronomia fornisca qualche esempio di grandi strutture finanziate direttamente dai governi in tempi precedenti (ad esempio, l’Osservatorio di Uraniborg del 1576), tutti convengono che l’inizio della Big Science risalga al periodo della Seconda Guerra Mondiale e al Progetto Manhattan che vide oltre 100.000 persone coinvolte (soprattutto in servizi e infrastrutture) per un budget complessivo che in valuta attuale ammonterebbe a circa 20 miliardi di euro.

Un ottimo esempio contemporaneo di Big Science è il Large Hadron Collider (LHC), il più complesso strumento attualmente a disposizione della comunità scientifica. Questo acceleratore di particelle si dispiega lungo un anello di 27 km di circonferenza situato a circa 100 m di profondità, in prossimità di Ginevra, e in diverse sale che ospitano l’enorme strumentazione scientifica. È in grado di accelerare due fasci di protoni sino a energie di 7 TeV e di farli collidere tra loro riproducendo le condizioni che caratterizzavano l’universo pochi attimi dopo il Big Bang. Il costo del solo acceleratore (senza gli strumenti di rivelazione e i computer) è stato di circa 3 miliardi di euro. Servono diverse centinaia di persone per renderlo operativo e sono migliaia gli scienziati che lavorano con i dati prodotti. Non esiste oggi al mondo un altro acceleratore in grado di riprodurre i risultati di LHC. In campo astronomico il Very Large Telescope (VLT, operativo da oltre un decennio, v. “le Stelle” n. 93), l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA, nelle fasi finali di costruzione e già parzialmente operativo, costo finale circa 1,3 miliardi di dollari, v. “le Stelle” n. 64 e “le Stelle” n. 93), l’European Extremely Large Telescope (E-ELT, previsto in fase operativa già all’inizio del prossimo decennio per un costo stimato in circa 1,2 miliardi di euro, v. “le Stelle” n. 110), lo Square Kilometer Array (SKA, un progetto che prevede la costruzione di alcune migliaia di radiotelescopi istallati in due continenti, Africa e Oceania, da utilizzare come un unico grande strumento dall’area collettrice di un chilometro quadrato, costo previsto oltre 1,5 miliardi di euro, v. “le Stelle” n. 64) sono alcuni esempi di Big Science, così come l’Hubble Space Telescope (HST), il James Webb Space Telescope (JWST, in costruzione, v. “le Stelle” n. 109) e praticamente tutti i grandi Osservatori nello spazio. Una collana di successi che ha permesso di estendere significativamente gli orizzonti delle nostre conoscenze.

Ma la Big Science non è fatta solo di successi: una vittima illustre è stata ad esempio il Superconducting SuperCollider (SSC), un progetto statunitense per la realizzazione di un acceleratore di particelle che avrebbe potuto raggiungere energie 3-4 volte superiori a quelle a cui lavora LHC. Concepito nel 1983, SSC vide nel 1988 la selezione del sito ove scavare il tunnel sotterraneo di 87 km di circonferenza e nel 1991 l’inizio degli scavi. Quando nell’ottobre del 1993 il Congresso americano cancellò il progetto, erano già stati scavati 23 km di tunnel e spesi 2 miliardi di dollari. In quel momento la stima dei finanziamenti necessari per completare l’opera era di almeno 12 miliardi di dollari (contro una previsione iniziale di meno di 5 miliardi). In ultima analisi, SSC fu cancellato perché costava molto (troppo) più del previsto, in un periodo in cui altri grandi progetti richiedevano finanziamenti analoghi (la Stazione Spaziale Internazionale, ad esempio) e quando l’opinione pubblica americana, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, era meno sensibile agli argomenti connessi con la necessità di mantenere la “supremazia americana” nelle scienze come in altri campi. Più recentemente, anche il James Webb Space Telescope ha rischiato di essere cancellato, sempre per questioni relative al lievitare dei costi (la stima attuale è di 9 miliardi di dollari, mentre nel 2006 era di 2,5 miliardi). È stato (per ora) salvato imponendo tagli su altri programmi (v. “le Stelle” n. 95). Non è stato invece salvato il più piccolo GEMS (Gravity and Extreme Magnetism Small Explorer), un osservatorio spaziale dedicato allo studio dei buchi neri e delle stelle di neutroni, che la NASA ha cancellato nel giugno 2012.

Il perdurare della crisi economica, la necessità di contenere la spesa pubblica e la crescente insofferenza dell’opinione pubblica nei confronti dei tagli alla spesa sociale, rendono sempre più difficile reperire le risorse per continuare ad alimentare la Big Science, anche perché i progetti sono sempre più ambiziosi e nuovi settori scientifici si sono affacciati sulla scena (vedi lo Human Genome Project). Inoltre, non tutti sono entusiasti dei profondi mutamenti indotti dalla Big Science nel “modo” di fare scienza e di scegliere quale scienza fare. Il tempo che intercorre tra quando uno strumento viene proposto e quando effettivamente diventa operativo (se effettivamente viene costruito) tende a dilatarsi notevolmente (trent’anni nel caso di SKA). Questo, sia per la crescente complessità dei progetti sia per la necessità che ciascuno di essi arrivi a compimento prima di poter finanziare il successivo. Gli enormi finanziamenti governativi, e quindi pubblici, richiedono il consenso dell’opinione pubblica e una buona dose di consociativismo della comunità scientifica, con il rischio di finanziare solo l’ortodossia e di rendere difficile, se non impossibile, la competizione e il confronto. La preoccupazione è che si perda dunque rapidità, spontaneità, indipendenza. Ecco perché alcuni pensano che la più illustre vittima della Big Science possa essere la scienza stessa. 

Tratto da: Le Stelle - n°112, novembre 2012


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