Installazione di Alicia Martin al Palacio de Linares, Madrid, 2005.
Il virus SARS-CoV-2 e la malattia che produce, COVID-19, sono come uno tsunami sta travolgendo il anche il modo “normale” della comunicazione della scienza tra gli esperti, sulle riviste specializzate. Anche sulle riviste scientifiche, proprio come sui media tradizionalisti, prevalgono di gran lunga i commenti e le analisi qualitative invece che i report quantitativi che hanno superato il processo di peer review.
Il Policy Research Programme Reviews del National Institute for Health Research (UK)* analizza in termini quantitativi con aggiornamenti settimanali gli articoli pubblicati su riviste scientifiche riguardanti SARS-CoV-2 e COVID-19 usciti in questi mesi.
Si è scritto molto: fino al 14 aprile questi articoli ammontavano a 4.448. L’epidemia è nata prima, ma è diventata di pubblico dominio solo nei primi giorni di gennaio. Sono passati, quindi, meno di 100 giorni da quando l’epidemia è diventato oggetto di analisi pubbliche da parte di scienziati. Da allora il numero di queste analisi è diventato esplosivo: sono stati pubblicati, infatti, all’incirca 50 articoli al giorno.
Il gruppo dell’Istituto nazionale per la ricerca sulla salute ha ripartito questi articoli in diverse categorie: trasmissione/rischio/prevalenza, diagnosi, impatti sulla salute, sviluppo dei vaccini, sviluppo dei trattamenti, genetica e biologia, rapporti su pazienti, casi studio, organizzazione sociale e impatti economici, salute mentale, altri virus (SARS, MERS etc.), senza dati primari.
Gli articoli con dati quantitativi si sono distribuiti in queste categorie in percentuali non molto diverse, pur essendo più rappresentati i rapporti di casistica su pazienti (7%), gli articoli su trasmissione e rischio e sull'impatto sulla salute (6%), mentre ancora non ci sono articoli sullo sviluppo del vaccino.
E però la parte del leone la fa il raggruppamento degli articoli senza dati, di commento, riflessione, dialettica e scambio, che ammontano al 63% del totale.
Questo era prevedibile nelle prime fasi dell’epidemia, quando i dati mancavano e in ogni caso mancava il tempo per analisi quantitative approfondite. Ma il dato interessante è che la percentuale degli articoli “senza dati” è andata crescendo nel tempo: siamo passati infatti dal 52% fino al 4 marzo al 70% tra il 5 marzo e il 14 aprile.
La crescente disponibilità di dati sembra aver accelerato e non frenato la propensione al commento. Perché?
Non è facile rispondere. L’andamento esplosivo delle pubblicazioni in casi di grande interesse sociale e, dunque, con grande visibilità mediatica è tipico - nella attuale fase - del modo di lavorare degli scienziati, una fase che il fisico ed esperto di sociologia della scienza John Ziman ha definito post-accademica. In questa relativamente nuova fase del modo di lavorare degli scienziati (è iniziata in occidente dopo la Seconda guerra mondiale) a concorrere allo sviluppo delle attività di ricerca non sono solo i membri dei “collegi invisibili”, le comunità scientifiche, ma anche le istituzioni pubbliche, le imprese private, l’opinione pubblica.
Una chiara differenza nell’approccio alla comunicazione tra la fase precedente della scienza (la scienza accademica, nella definizione di Ziman) e quella post-accademica è data dalla ricostruzione della vicenda Polywater che il chimico Felix Franks ha proposto in un libro pubblicato in italiano, molto tempo fa, con il titolo Poliacqua. Si trattava di un errore collettivo intorno alla possibilità che l’acqua in opportune condizioni potesse polimerizzare. L’evento, iniziato in URSS alla fine degli anni ’60, raggiunse l’occidente in tempi brevi. Allora il modo di lavorare degli scienziati in URSS era ancora di tipo accademico, mentre in occidente era già di tipo post-accademico. In breve gli articoli pubblicati nel mondo comunista seguirono un andamento dolce: crescita contenuta ma costante, decrescita altrettanto lenta tutto nell’arco di una dozzina di anni. Negli Stati Uniti e anche in Europa l’andamento fu di tipo epidemico. Rapidissima crescita delle pubblicazioni, che in dodici mesi superarono quelle sovietiche e poi rapidissima decrescita: lo tsunami durò appena due anni o poco più.
Il motivo è chiaro: nell’ambito della scienza post-accademica gli scienziati hanno bisogno del consenso sociale e tendono a interessarsi dei problemi considerati rilevanti dagli stati, dalle imprese e dall’opinione pubblica. Così il “publish or perish” tipico anche dalla scienza accademica si focalizza su alcuni temi di interesse anche extra-scientifico, così la corsa a pubblicare segue curve di tipo epidemico. Un andamento “epidemico” che assume connotati di esasperazione in epoca di pandemia.
Questo spiega, però, solo perché in meno di cento giorni siano stati pubblicati 4.448 articoli sul nuovo coronavirus e sulla malattia che causa. Non spiega, però, perché oltre i due terzi delle pubblicazioni non rispondano ai canoni della letteratura formale (articoli con dati quantitativi con referaggio) ma siano non molto diversi, come tipologia, dalle pubblicazioni sui media laici: analisi qualitative, commenti, ipotesi.
Non che il sistema di peer review sia esente da critiche né che garantisca l’assoluta affidabilità di un report. Tuttavia pur con tutti i suoi limiti, il normale iter di pubblicazione su riviste scientifiche garantisce un processo abbastanza solido di salvaguarda del rigore.
Nel caso dell’attuale pandemia, come sembrano dimostrare i dati dell’EPPI-Centre di Londra, questo processo sembra saltato. Forse perché a muovere gli scienziati non ci sono solo il tentativo di ottenere un consenso razionale di opinione da parte della comunità scientifica e, come è ormai normale nella scienza post-accademica, il tentativo di ottenere il consenso delle istituzioni, delle imprese e dell’opinione pubblica. Sembra esserci altro. Un obiettivo da raggiungere a scala locale (con i media generalisti) come a scala globale, con la presenza sui grandi media scientifici. Un obiettivo che serve per accreditarsi qui e ora, in tempo reale, e che non consente di aspettare i tempi ancora piuttosto lunghi delle pubblicazioni con dati quantitativi e con peer review. D’altra parte lo vediamo: gli scienziati più accreditati presso le istituzioni (governi, regioni) e presso l’opinione pubblica sono molto (troppo) spesso quelli presenti in televisione o sui social, diventando esperti (si veda Covid sfida la scienza ad aprirsi alla società e alla complessità).
Ecco, dunque, che per aumentare la visibilità immediata si ricorre anche a pubblicazioni sui grandi giornali scientifici di tipo non quantitativo, ma a dotte analisi qualitative e a commenti. Insomma, senza negare l’importanza anche sul dibattito e la riflessione: le pubblicazioni da parte degli scienziati tendono a costituire “un mondo di carta”. Ma ricordiamoci dell’ammonimento di Galileo: «i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta».
I commenti sono utili. Ma dagli scienziati anche nei tempi caotici di un’emergenza dobbiamo attenderci discorsi (quantitativi) introno al mondo sensibile.
*Una iniziativa a cui partecipano il Centro EPPI, che ha sede presso il Dipartimento di Scienze sociali, University College London, Institute of Education (ha l’obiettivo di informare la politica e la pratica professionale con prove concrete mediante revisioni sistematiche e lo studio sull’uso della ricerca, University College di Londra, l’University College London, la London School of Hygiene and Tropical Medicine, l’Università di York.