Premessa
Vorrei richiamare in un breve excursus alcuni
modelli di uno sguardo mitografico alla Luna e al cosmo nella tradizione
scientifica e letteraria moderna e contemporanea, tenendo per fermo il punto di
partenza della rivoluzione copernicana e concludendo sulle possibili presenze
attuali di una mitografia “visiva” che tenga conto delle recenti scoperte
cosmologiche e astrofisiche.
L’assunto di fondo è costituito dalla concezione
calviniana della narrazione come mitopoiesi all’altezza del nostro tempo,
insieme cosmica e comica. Esso si può condensare nella domanda: “È possibile
una nuova mitopoiesi cosmica?” La cultura visiva della scienza è divenuta ormai
decisiva non soltanto per la sua divulgazione, ma per la stessa comprensione
delle leggi scientifiche. Le immagini scientifiche sono registrazioni di
fenomeni naturali che consentono di elaborare mappe visive dello scibile, su
piani lontani dalla nostra percezione comune (infinitamente piccolo o grande).
In ciò è stato decisivo l’apporto dei pc, connesso all’uso dei più potenti
strumenti di osservazione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente
piccolo.
John D. Barrow, in Le immagini della
scienza, ha così descritto così la rivoluzione attuale della scienza
simulante: «Siamo stati testimoni di una rivoluzione
nella storia della scienza… prodotta da nuovi strumenti, modi diversi di vedere
e maniere originali di comprendere. … il ruolo essenziale che esse (immagini)
hanno svolto facilitando la formazione di immagini mentali e influenzando il
modo in cui scienza e matematica hanno accresciuto la nostra comprensione della
natura e delle sue leggi»; «La rivoluzione dei pc ha consentito alla scienza un
carattere più visivo e immediato. Ha accresciuto la capacità della mente umana
di apprezzare intuitivamente il comportamento evolutivo di configurazioni
complesse osservabili, creando filmati di esperienze immaginarie di mondi
matematici».
Propongo qui una prima, parziale, risposta alla domanda,
articolata insieme in una prospettiva storica e in un focus sulla
letteratura italiana contemporanea e divisa in due parti: la prima sulla
mitopoiesi cosmica espressa in un sogno scientifico e in un sogno poetico
(Keplero e Leopardi); la seconda in una traccia di mitopoiesi cosmica presente
nella letteratura italiana del Novecento (Pirandello e Calvino).
Mitopoiesi come Sogno: sogno scientifico e sogno poetico (Keplero e Leopardi)
Un sogno cosmico di Keplero
Il
Somnium sive opus postumum de astronòmia lunari scritto da Johannes
Kepler nel 1609 (lo stesso anno in cui l’astronomo tedesco pubblicò la sua
principale opera astronomia l’Astronomia Nova, contenente due delle sue
famose leggi), chiosato con ampie note fino alla morte (1630) e pubblicato
postumo da un figlio nel 1634, è un breve racconto di fantascienza, forse il
primo racconto moderno di fantascienza, che unisce la fantasia narrativa al
trattato scientifico e che intende convincere gli scettici dell’esistenza del
moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole. Il libro pare fosse stato,
nella sua diffusione sotterranea, il motivo principale dell'istruzione del
processo per stregoneria nei confronti della madre, che Keplero stesso difese
con impegno. Esso si presenta – come recita il sottotitolo – come un’Astronomia lunare, che descrive uno
sguardo sul cosmo dal punto di vista di presunti abitanti della Luna. Il libro
si presenta subito con una doppia natura: quella del trattato, integrato da un’Appendice geografica, o meglio
selenografica; quella dello scritto narrativo, integrato dal testo di Plutarco Il volto della Luna, tradotto in latino
dallo stesso Keplero, che lo considera un archetipo del suo scritto: «Per me è
un piacere grandissimo ritrovare, oggi, parole quasi identiche nel libro di
Plutarco» (nota 81: richiamo le note perchè rinviano espressamente alla cultura
scientifica di Keplero). La dimensione narrativa è valorizzata dal richiamo a
un altro scritto fantastico antico, la Storia
vera di Luciano di Samosata. In anni di poco successivi fiorirà una vera e
propria letteratura fantascientifica e lunare, che circola postuma o comunque
in forma anonima: il Discorso su un mondo
nuovo di John Wilkins (1638), L’uomo
sulla Luna di Francis Godwin (1638), L’altro
mondo ovvero Stati e imperi della Luna di Savinien Cyrano de Bergerac
(1657).
La
cornice del racconto è assai indicativa: l’autore descrive un sogno che ha
avuto dopo essersi addormentato «dopo aver contemplato la Luna e le stelle»
(Anna Maria Lombardi), un sogno che si presenta come un’immaginaria lettura di
un libro acquistato alla Fiera di Francoforte nel 1608, dove l’anno successivo
Keplero porterà le prime copie della sua Astronomia
Nova. Si sogna la lettura di un libro, denso di scienza e di magia, che
verrà dissolta, alla fine della descrizione, insieme al sonno stesso, dal
levarsi del vento (immagine anch’essa archetipica della presenza arcana di
poteri naturali occulti). Si tratta di un sogno «che svela una verità in forma
enigmatica», come è da intendersi la parola latina somnium e come risalta nel noto Somnium
Scipionis posto nell’ultima parte del De
re publica di Cicerone. In essa l'autore immagina di sognare un giovinetto
islandese, Duracoto – nel quale sono palesi i riferimenti autobiografici – che,
dopo varie vicende che lo iniziano alla conoscenza scientifica, viene erudito
da un demone sulle caratteristiche del mondo lunare, sui suoi abitanti e sulla
particolarità del loro sguardo sul mondo, se confrontato con quello dei
terrestri.
L’ambiguità
voluta che presenta lo scritto propone un confronto tra la scienza e le
opinioni popolari, tra l’astronomia, l’astrologia e la stregoneria. Il giovane
protagonista, un po’ come lo stesso Keplero, è figlio di una strega e diviene
apprendista di Tycho Brahe. E la connessione tra pratiche astronomiche e
astrologia materna è testimoniata nella formazione del giovane «Mi erano
straordinariamente gradite le pratiche astronomiche. Infatti sia i suoi
assistenti sia lo stesso Brahe osservavano per intere notti la Luna e le stelle
con mirabili compagni, e ciò mi ricordava mia madre, perché anche lei era
solita discorrere assiduamente con la Luna». E non casualmente nella nota 28
l’autore cita un bel verso virgiliano – «Gli incantesimi possono anche far
cadere la Luna dal cielo» – e richiama la lettura dello scritto di Martin Del
Rio Le disquisizioni magiche,
inserendola in un alone insieme letterario e scientifico: «spesso, in Islanda,
la Luna non è visibile nemmeno quando ad altri popoli si mostra piena» e tale oscurità,
unita alla lunghezza delle notti favorisce l’«amore per la scienza», come è
testimoniato da viaggiatori ed esploratori. Il demone che illumina Duracoto
sulle conoscenze dei Lunari testimonia il primato dell’astrazione intellettuale
sui sensi e richiama la stessa presenza di «spiriti più sapienti» che assistono
lui e gli altri Lunari. Per evitare fraintendimenti, ma mantenendo sempre la
medesima ambiguità, Keplero spiega nella nota 34 che «Questi spiriti non sono
altro che le scienze, nel cui ambito vengono scoperte le cause dei fenomeni» E
si azzarda in una falsa etimologia, sostenendo che daemon «deriva dal greco daìein,
cioè “conoscere”, che vale quasi daémon»,
mentre la parola rinvia a “colui che dà” e in ogni caso è assimilabile in
ambito cristiano con quella di “diavolo”, contribuendo a far credere che la
madre di Keplero parlasse con entità diaboliche.
La
prospettiva copernicana del Somnium
traspare subito dalla descrizione della visione che orienta gli abitanti di
Levania (la Luna, presentata con un nome di derivazione ebraica, più insolito e
quindi «da raccomandarsi nelle arti occulte», nota 42), sottolineata dallo
stesso Keplero come «la tesi dell’intero Somnium»:
«Ai suoi abitanti Levania non pare meno immobile, mentre gli astri corrono in cielo,
di quanto a noi uomini sembri immobile la Terra. Una notte e un giorno insieme
equivalgono a uno dei nostri mesi: infatti, quando il Sole sorge alla mattina,
compare in cielo quasi un intero segno dello Zodiaco in più rispetto al giorno
precedente». Rilevante ancora la connessione tra dimensione astronomica e
astrologica, proposta nella collocazione della Luna e del Sole («Si era ormai
in primavera e la Luna, crescente nei corni, non appena il Sole affondava sotto
l’orizzonte incominciava a risplendere in congiunzione con il pianeta Saturno
nel segno del Toro») e giustificata nella nota corrispondente, la 43, che tra
l’altro richiama Plutarco.
E
simmetricamente la visione della Terra, chiamata Volva, appunto per la sua
perenne rotazione, «appare quanto vi è di più piacevole su Levania» e la
descrizione di tale astro appeso a un chiodo in cielo assume un tono quasi
lirico («La loro Volva sta quindi immobile come fosse appesa a un chiodo nel
cielo. Le altre stelle e persino il Sole transitano al di sopra di essa da
oriente a occidente»). Anche in questo caso la nota 135 contribuisce a segnare
il carattere scientificamente cruciale della descrizione: «Ecco qui la
trattazione della tesi principale nel bel mezzo del discorso. Noi terrestri
riteniamo senza dubbio che il suolo sul quale ci troviamo e, con esso, le sfere
delle torri campanarie, se ne stia perfettamente immobile mentre sarebbero le
stelle ad attraversare il cielo sopra quelle sfere, muovendo da oriente verso
occidente. Ma questa percezione nulla toglie e nulla aggiunge alla verità delle
cose. Allo stesso modo i lunari pensano che il loro suolo e la sfera della
Volva che gli sta sospesa sopra, in alto, siano immobili, quando invece noi
sappiamo con certezza che la Luna è uno dei corpi celesti in movimento».
Qualche
nota più avanti emerge con tutta la sua forza il «piacevole spirito di
polemica» che appare «lo scopo più nascosto di questo racconto», ovvero la
derisione dell’errore dei contemporanei nel credere che la Terra stia immobile
nel cosmo («gli abitanti della Luna …. Devono essere persuasi della rotazione
della Volva…»). Un errore legato, come dirà nella nota 149, soltanto ai limiti
della nostra vista e dei nostri sensi. Particolarmente attraente appare anche
l’immaginaria visione delle diverse zone terrestri da parte dei Lunari,
sorretta da un impianto fortemente “antropomorfico”, quasi che i Lunari simili
ai Terrestri vedessero sulla Terra forme viventi e umane come avviene nella
direzione opposta. Le due metà della Volva dividono l’emisfero settentrionale e
quello meridionale e in entrambe non mancano macchie e zone più chiare che
vengono assimilate a figure umane o animali.
In
conclusione il Somnium descrive
abitudini e modi di vita degli abitanti di Levania, siano essi esseri “umani”
che “animali inferiori”, con uno sforzo di immaginazione che va ascritto alle
più belle pagine di narrazione fantascientifica. Molte delle asserzioni
prodotte in tale contesto sono giustificate da argomentazioni scientifiche,
come nel caso dell’esistenza di vapore acqueo o di venti lunari, o del
carattere poroso e traforato di caverne e grotte della sua superficie, o anche
dell’esistenza di esseri viventi che respirano nei fondali profondi, stavolta
garantita da una storia fantastica, che come in altri casi viene assunta con
valore di prova. Sul tema tanto dibattuto dell’esistenza di un atmosfera lunare
Keplero fornisce un’ampia discussione nell’ultima nota del volume, la 223,
dedicata alla ricostruzione delle diverse prove che sosterrebbero l’asserzione
positiva. Peraltro tale attenzione all’attendibilità scientifica dei
particolari descrittivi è ironicamente motivata con la preoccupazione di «non
essere colto in fallo da qualche fresco spettatore di questi fenomeni, disceso
dalla Luna» (nota 188).
Anche
nelle note, che prospettano un quadro complessivamente rigoroso e scientifico,
non manca la dimensione astrologica e lo spazio per le credenze magiche. Nella
nota 55, ad esempio, si cerca di fornire una spiegazione astrologica alla
«credenza che le eclissi di Sole e di Luna portino tante disgrazie». Così pure,
per spiegare l’apprezzamento che il demone di Levania esprime per «quelle
vecchiette rinsecchite per le quali è normale sin dalla fanciullezza cavalcare
caproni notturni, o forconi, o mantelli consunti e spostarsi attraverso
territori immensi», in funzione del viaggio rapido che può portare a Levania
Keplero non si perita di riportare la credenza nei viaggi aerei delle streghe
(nota 60), fornendo però anche una spiegazione “scientifica” sul possibile
trasporto di un corpo dalla Terra alla Luna alla luce della sua teoria
dell’attrazione magnetica che avvicina i due corpi celesti (nota 66) e
richiamando una serie di auctoritates
tra le quali non manca anche il Plutarco del Volto della Luna. Nell’apparato di note si ritrovano anche luoghi
che intendono sciogliere le singole frasi narrative in allegorie svelate dallo
stesso autore in chiave razionale e scientifica. È il caso della frase
«L’occasione si presenta in modo così fuggevole che prendiamo con noi come compagni
di viaggio pochi tra gli esseri umani, e non altri se non chi ci è più leale»,
che intende tali compagni leali come i filosofi e più specificamente coloro che
tra di loro si intendono di astronomia, o di quella di poco successiva «Là ci
ritiriamo in fretta in caverne e luoghi tenebrosi», che viene risolta in un’allegoria
dell’osservazione delle eclissi».
Un sogno “lunare” di Leopardi
È
accertato che Leopardi conoscesse il Somnium
di Keplero. Così si esprime nella Storia
della Astronomia: «Luigi Keplero, figlio di questo matematico, pubblicò
un’opera di suo padre intitolata Somnium Lunarisve astronomia, che
comparve a Francfort nel 1634, e nella quale il nostro astronomo sostiene che
la terra, ed il sole sono ambedue animati ed hanno delle sensazioni». Non pare
che nel Somnium vi sia traccia di
tale dimensione sensibile della Terra e del Sole, mentre è evidente la teoria
dell’esistenza di esseri viventi sulla Luna. Ciò potrebbe condurre a ritenere
sommaria e indiretta la lettura del Somnium.
In
ogni caso è ben noto come Leopardi abbia scritto un frammento poetico, il
XXXVII (Odi, Melisso), espressamente incentrato sul sogno della caduta
della Luna. In questo frammento Leopardi mette in scena il pastore Alceta che
racconta al compagno Melisso un sogno spaventoso e lunare, «uno dei più umani e
commoventi, sgorgati dalla sua magica penna» (Giovanni Crocioni).
La
descrizione del sogno di Alceta è del tutto priva di ancoraggio al sapere
cosmico, sia esso astronomico o astrologico, e si orienta piuttosto nel campo
delle credenze popolari, così efficacemente ‘classificate’ nel Capo quinto del Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi intitolato Dei sogni. Qui
Leopardi riprova il pregiudizio degli antichi di considerare i sogni come
premonitori.
Di grande efficacia narrativa, e di pari rilievo come
testimonianza dell’attenzione al mondo primitivo, appare la descrizione della
scena del risveglio del primitivo, «oppresso dall’ignoranza, sempre inquieto
sulla sua sorte, circondato da pericoli, in mezzo a una natura che non
conosceva, ansioso di esaminar tutto, e incapace per la molteplicità degli
oggetti di soddisfarsi, atterrito dal ruggire delle belve e dal quieto muoversi
delle frondi nella foresta», che, assalito dai pericoli che lo circondano e
turbato dalla natura ostile e incognita, attribuisce con un pregiudizio «degno
di scusa» il suo sogno recente a una causa soprannaturale: «Turbato di nuovo e
intimorito, se in quel momento, ricordandosi dell’Ente Supremo, egli
attribuisce il suo sogno ad una causa soprannaturale, se lo riguarda come
nunzio del futuro, egli che sa solo confusamente che il futuro non può esser
preveduto, è degno certamente d’ogni scusa». Al di là di tale motivazione della
premonizione dei sogni, originata dalla condizione “primitiva”, Leopardi
stigmatizza illuministicamente il trasformarsi del sogno in una cosa divina
«patrimonio degli auguri famelici».
Segue quindi – come d’uso nel Saggio – una gran messe di testimonianze
letterarie classiche, più o meno note, spesso accompagnate da citazioni, dalla
letteratura greca (Euripide, Omero, Senofonte, Pseudo-Didimo, Eliodoro,
Apollonio di Rodi, Elio Aristide, Luciano, Teocrito, Mosco, Aristofane,
Artemidoro di Daldi, Plutarco, Licofrone, Strabone, Apollonio Discolo,
Dioscoride, Sofocle, Euripide, Clementa Alessandrino, Aristotele), latina
(Macrobio, Stazio, Virgilio, Lattanzio, Orazio, Ovidio, Silio Italico, Persio,
Giovenale, Tibullo, Apuleio, Servio, Plauto, Cicerone, Tertulliano, Plinio il
Vecchio, Properzio), bizantina (Nicoforo Gregoro, Eustazio di Tessalonica,
Niceforo, Leone I di Bisanzio). A questa nutritissima serie di citazioni dotte
si aggiunge una presentazione dell’arte di interpretare i sogni,
l’onirocritica, «divenuta – aggiunge ironicamente Leopardi – quasi meritevole
di entrare nel numero delle scienze esatte», unita a un lungo elenco di dotti
che «si presentarono in folla per rendere questo importante servigio alla
umanità», scrivendo manuali sui sogni («Le loro opere si conservano con
rispetto nelle nostre Biblioteche, senza che alcuno ardisca toccarle»).
Indiscutibile la condanna leopardiana per questa presunta scienza, che
testimonia invece la cecità dei saggi antichi, parzialmente redenta dai pochi
che la smentirono («fra tanti sognanti vi fu chi vegliò, e vide assai chiaro
per conoscere la follia dei suoi contemporanei»), scelti tra i poeti come
Virgilio, Tibullo, Lucano, Teocrito, o tra i filosofi come Epicuro, Cicerone e
Aristotele, che emerge e fa testo, in conclusione, per l’argomentazione
riportata dal suo libro sui sogni. Conclude il capitolo una citazione di Leone
I di Bisanzio che indica con l’esempio di Scipione l’Africano quanto la
credulità nei sogni premonitori sia da ostacolo per la saggezza politica.
Il
capitolo del Saggio non presenta, in
definitiva, un apprezzamento per la considerazione dei sogni nel mondo antico e
soprattutto critica ogni valutazione dei sogni come premonitori della
conoscenza futura. La presa di distanze del giovane Leopardi dalla onirocritica
verrà mantenuta anche in età matura, come mostra il frammento Odi, Melisso,
che se esalta la fantasia onirica non ne trae nessuna conclusione sulla
comprensione dell’ordine umano e cosmico.
Il
racconto di Alceta possiede l’aura della narrazione poetica, fin dall’abbrivio,
da quel momento di vaghezza contemplativa, che avvia la dinamica onirica: «Io
me ne stava / Alla finestra che risponde al prato, / Guardando in alto».
La contemplazione si risolve nello stupore dell’improvviso distacco della luna
che rapidamente si consuma nella caduta «in mezzo al prato».
La prossimità con
il corpo celeste dissolve l’aura contemplativa e limita l’osservazione a un
corpo ardente, non più grande di una secchia che si spegne fumando, annerendosi
e perdendo il suo candore. Dinanzi al materiale sconforto prodotto da un corpo
così piccolo e limitato, privo di tutta la sua grandezza cosmica si staglia
l’angoscioso, agghiacciante sguardo al cielo che perde ora un punto forte di
riferimento, un luogo familiare appare vuoto, divelto, violato nella sua
perenne compiutezza («Allor mirando in ciel, vidi rimaso / Come un barlume, o
un'orma, anzi una nicchia, /Ond'ella fosse svelta»). Il dialogo che si avvia
dopo la descrizione onirica vede in Melisso un pastore raziocinante e
“illuminato” che nega ogni possibilità della caduta della Luna con un
ragionamento non trascurabile per la sua “pochezza”. Melisso rassicura Alceta,
che aveva paragonato la caduta della luna a quella, ben nota, delle
stelle («non veggiam noi spesso di state / Cader le stelle?»),
distinguendo la gran quantità di queste dall’unicità della natura, quasi che
l’esistenza di molte stelle rendesse di per sé più probabile, e insomma poco
dannosa, la loro caduta («Egli ci ha tante stelle, / Che picciol
danno è cader l'una o l'altra / Di loro, e mille rimaner. Ma sola / Ha questa
luna in ciel, che da nessuno / Cader fu vista mai se non in sogno.»). Si tratta
di una riflessione risibile, in quanto non si dà alcuna consequenzialità tra la
grandezza della quantità delle stelle e la loro caduta, come è risibile la
conclusiva constatazione sperimentale, quasi che il fatto che nessuno abbia mai
visto cadere la luna possa condurre a inferire che essa non cadrà mai in
futuro.
Il
sogno poetico di Leopardi esalta la dimensione immaginativa e fantastica a
scapito di ogni delimitazione razionale dell’esperienza cosmica, con procedure
che ritroviamo nell’ampio spazio riservato nei Canti alla visione poetica del cosmo, e della Luna in specie,
sempre estraneo a una riduzione conoscitiva e astronomica.
Naturalmente,
una ricostruzione della narrazione letteraria e poetica della visione
astronomica leopardiana richiederebbe un ampio saggio, e dovrebbe soffermarsi,
oltre che all’esame di molti Canti,
anche su Operette come Il Copernico, il Dialogo della Terra e della Luna, la Scommessa di Prometeo, il Frammento
apocrifo di Stratone di Lampsaco, e altre ancora. E non potrebbero essere
trascurati, agli antipodi della sua produzione, da un lato il Saggio sopra gli errori popolari degli
Antichi, dall’altro i Paralipomeni
della Batracomiomachia con il viaggio di Dedalo.
Mitopoiesi cosmica nella letteratura italiana del Novecento
Il “male di luna” in Pirandello
In
una nota a una pagina di un suo saggio su Arte
e scienza, Pirandello richiama una riflessione di un critico letterario
siciliano, Giovanni Alfredo Cesareo, sull’efficacia mitopoietica della
descrizione manzoniana dell’alba in un celebre passo dei Promessi Sposi: «Cento, mille, diecimila persone si levano di
buon’ora e guardano un’alba in Lombardia. Tutti gli altri si contentano d’esclamare:
Bell’alba! Alessandro Manzoni scrive: “Il cielo prometteva una bella giornata”
col rimanente della mirabile descrizione che si ritrova nel cap. XVII dei Promessi
Sposi. In che differiscono le due espressioni? Ecco: i primi hanno
percepito quell’alba come uno spettacolo estraneo alla loro coscienza, come
qualcosa che venisse di fuori, e dicendo: “Bell’alba!” hanno creduto di non far
altro che esprimere una realtà oggettiva, la quale sembra la stessa per tutti.
Il Manzoni invece diede dell’alba un’espressione nuova, perché tutta impregnata
delle sua coscienza individuale; le sue sensazioni, le sue immagini, le sue
determinazioni egli sa bene che non esistevan già nel fenomeno, ma sono un
prodotto della sua attività fantastica: tanto vero che niun altro le avrebbe
trovate; egli in somma non ha rappresentato la realtà oggettiva, ma ne ha dato
una sua interpretazione soggettiva e caratteristica». Tale apprezzamento
dell'immagine manzoniana dell'alba prelude a una riflessione articolata e a una
messa in opera di figure mitopoietiche.
Nel
saggio Sull’umorismo Pirandello
tematizza espressamente l’aspetto “comico” della rivoluzione copernicana, con
un chiaro riferimento all’operetta omonima di Leopardi: «Uno dei più grandi
umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina
dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta.
Si legga quel
dialogo del Leopardi che s’intitola apponto dal canonico polacco. / Ci diede il
colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra macchinetta infernale, che
può fare il pajo con quella che volle regalarci la natura. Ma questa l’abbiamo
inventata noi, per non esser da meno. Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla
lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto
farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla
lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che
subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze. / Fortuna che è
proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrari;
il quale, in questo caso, dice: – Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come
il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire
l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita
grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo? / Ma è anche
vero che se poi egli si sente grande e un umorista viene a saperlo, gli può
capitare come a Gulliver, gigante a Lilliput e balocco tra le mani dei giganti
di Brobdingnag».
Passando
dalla riflessione teorica alla pratica di scrittura, a mio avviso il risultato
lirico più elevato della mitopoiesi cosmica di Pirandello è racchiuso in due
famose pagine che descrivono lo stupore e la magia del rapporto con la luna in Male di luna e in Ciàula scopre la Luna, due delle Novelle per un anno.
Richiamo
due passaggi “lunari” di Male di luna, particolarmente evocativi.
Innanzitutto quello che rievoca l'incantamento di Batà, il licantropo della
novella: «E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio
adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe,
dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto
alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria,
mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna,
dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva “incantato”. L’incanto
però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era
risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva.
Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se
ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire
e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la
moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o
lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa
andasse giù alla roba, a tenerle compagnia». Quindi il momento finale, nel
quale Saro che si rifiuta di accondiscendere alla “vendetta” dalla moglie sul
povero Batò, ovvero al suo tradimento, ritrovando la Luna che rideva «beata e
dispettosa»: «E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch’egli dalla grata della
finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male
al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta
della moglie».
Ricordo
ora il celebre passaggio di Ciàula, che scopre, infine, la Luna, nel segno di
affrancamento dalla sua condizione di “schiavo”: «Restò – appena sbucato
all’aperto – sbalordito il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le
braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. / Grande, placida, come
in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. / Sì,
egli sapeva, sapeva che cos’era: ma come tante cose si sanno, a cui non si è
dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la
Luna? / Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli
la scopriva. / Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca.
Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! / E Ciàula si mise a
piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande
dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la
Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che
rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva
più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».
Nelle due Novelle traspare bene il valore “attivo”, antropomorfo, che Pirandello riconosce alla Luna come movente, nel bene e nel male, delle azioni umane, quasi a smentire umoristicamente la sua osservazione su Copernico che smonta «l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta».
Calvino: cosmicomiche e nuova mitopoiesi
Ben più approfondita e varia appare, come ho ricordato all’inizio, la concezione mitopoietica di Calvino. L’idea del carattere originario del mito, anche come elemento propulsore della conoscenza scientifica, orienterà il progetto calviniano di letteratura cosmica, dopo l’agnizione favorita dalla scoperta della concezione della storia della scienza di Giorgio de Santillana, punto di partenza per le Cosmicomiche. Mito e cosmologia arcaica si intrecciano in narrazioni piene di fascino, che aprono a Calvino una visione unitaria dell’universo e pongono la questione cruciale di una letteratura scientifica, quella di come far nascere il mito dalla razionalità, l’«idea di raccontare l’universo come una grande macchina scientifico-cosmologica», rovesciando la direttrice individuata da de Santillana, in una sfida che Massimo Bucciantini così sintetizza: «È possibile fare narrazione a partire dai risultati acquisiti dal mondo della scienza? Questa è la sfida che Calvino lancia a se stesso e da cui nasce il nuovo progetto […]. Ed è, a pensarci bene, l’esatto rovesciamento del progetto perseguito da Santillana, che era appunto quello di mostrare come nasce la razionalità dal mito, anzi, che la razionalità è forma del mito».
Tale
progetto di letteratura cosmica trae nuova linfa dall’avvicinamento alle teorie
della complessità, che divengono cultura diffusa a partire dal 1980 con il noto
volume di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers La nuova alleanza, recensito tempestivamente e con favore da
Calvino (e tradotto l’anno successivo da Einaudi). Calvino vi ravvisa una nuova
dimensione di scrittura scientifica: da un lato riconosce la possibile “poeticità”
del discorso scientifico e dall'altro consente di concepire una scrittura che
possa «pensare l’universo». In questo contesto Calvino evidenzia anche il
carattere ‘artistico’ dell’esperimento: «L’esperimento è “arte”, interrogatorio
capzioso della natura, messa in scena (fino all’esperimento che avviene
soltanto nel pensiero, come i treni e gli ascensori dei ragionamenti di
Einstein). Galileo, che esclude dai suoi interessi i perché di Aristotele per concentrare la sua ricerca sul come, vuole raggiungere la verità
globale della natura, scritta in linguaggio matematico, unico per tutti i
fenomeni e prova d’una omogeneità del tutto». La visione della complessità
dissolve il rapporto biunivoco osservatore-osservato e mette in gioco una nuova
concezione dell’enciclopedia, intesa come «vortice di frammenti e di frantumi»:
«In altre epoche “enciclopedia” ha significato la fiducia in un sistema globale
che includesse in un unico discorso tutti i generi del sapere. Oggi invece non
c’è sistema che tenga; al posto del “cerchio” a cui l’etimologia del vocabolo
“enciclopedia” rimanda c’è un vortice di frammenti e di frantumi. L’ostinazione
enciclopedica corrisponde al bisogno di tener insieme, in un equilibrio
continuamente messo in forse, le acquisizioni eterogenee e centrifughe che
costituiscono tutto il tesoro della nostra dubitosa sapienza». «Il tesoro
della nostra dubitosa sapienza» conferma per Calvino il valore della ricerca
scientifica nella molteplicità aperta delle interpretazioni, che diventano in
tal modo una
fonte privilegiata per l’immaginazione.
Ne emerge un equilibrio instabile, tipico del rapporto tra scrittura letteraria
e mondo, e ben espresso nella commistione tra dimensione artistico-letteraria e
sperimentazione scientifica rintracciata nell’opera “letteraria” di Leonardo da
Vinci, quale Calvino la vede in un intervento durante le riunioni editoriali
della Einaudi: «Io se fossi professore di letteratura italiana magari
parlerei delle varianti degli scritti di Leonardo che cercava di dire delle cose
senza possedere una lingua, lottando con le parole, inventandole. La
letteratura italiana è questo caso di letteratura senza lingua ed è
significativa appunto in questi casi di tensione per fabbricarsela». L’osservazione,
ricavata dai Verbali delle riunioni
editoriali dell’Archivio Einaudi, è posta da Bucciantini in esergo al suo Italo Calvino e la scienza.
Su
Leonardo “letterato” e “linguista” Calvino torna nella lezione sull’esattezza:
«L’esempio più significativo d’una battaglia con la lingua per catturare
qualcosa che ancora sfugge all’espressione è Leonardo da Vinci: i codici
leonardeschi sono un documento straordinario d’una battaglia con la lingua, una
lingua ispida e nodosa, alla ricerca dell’espressione più ricca e sottile e
precisa». Bellissimo poi – sempre nella lezione sull’esattezza – l’esempio
della favola del fuoco di Leonardo: «Leonardo, “omo sanza lettere” come si
definiva, aveva un rapporto difficile con la parola scritta. La sua sapienza
non aveva uguali al mondo, ma l’ignoranza del latino e della grammatica gli
impediva di comunicare per scritto con i dotti del suo tempo. certo molta della
sua scienza egli sentiva di poterla fissare nel disegno meglio che nella
parola. (“O scrittore, con quali lettere scriverai tu con tal perfezione la intera
figurazione qual fa qui il disegno?” annotava nei suoi quaderni di anatomia). E
non solo la scienza, ma anche la filosofia egli era sicuro di comunicarla
meglio con la pittura e il disegno. Ma c’era in lui anche un incessante bisogno
di scrittura, d’usare la scrittura per indagare il mondo nelle sue
manifestazioni multiformi e nei suoi segreti e anche per dare forma alle sue
fantasie, alle sue emozioni, ai suoi rancori».
Ma
va ribadito che non si tratta – come era avvenuto, per esempio, in Primo Levi –
di stabilire un incrocio ibrido tra scienza e letteratura, quanto piuttosto di
individuare all’interno della letteratura una dimensione empirica e scientifica
che le è consustanziale e che la conduce a ricercare spiegazioni cosmologiche
complessive.
La
letteratura cosmica prodotta da Calvino, dalle Cosmicomiche a Palomar,
intende essere una risposta alla sfida lanciata dal labirinto-mondo, sorretta
dal “pathos della distanza” del quale partecipa la visione telescopica e
affonda le sue motivazioni “tecnologiche” nella stessa nascita dell’era
spaziale. Non è un caso se a proposito del lancio dello Sputnik, il 31 gennaio
1958, Calvino esprime – in uno scritto poco noto, Dialogo sul satellite, pubblicato su «Città Aperta» nel marzo 1958
– la propria testimonianza e i propri dilemmi dinanzi alla nuova era che stava
sorgendo con le prime scoperte spaziali con un’esortazione a che l’esplorazione
dello spazio «dia più spazio ai pensieri umani», «faccia operare sulla terra» e
«possa dare all’uomo la dimensione dello spazio». Quasi vent’anni dopo (1976),
osservando le foto di Marte trasmesse dalla sonda Viking 1, Calvino collega
l’espansione delle conoscenze spaziali con le fulgida fonte galileiana: «Ma
intanto i miei interessi “vitali” si sono spostati su un oggetto più degno: i
satelliti di Giove. Sono composti, a leggere gli studi più recenti, d’acqua,
ghiaccio e roccia. Hanno dietro di sé non una storia di illusioni ottiche e di
letteratura di second’ordine, ma le limpide pagine del Sidereus Nuncius di Galileo Galilei».
Più
in generale, Calvino si interroga – con un’evidente reminiscenza leopardiana – su che cosa pensano del satellite «i
pastori dell’Asia centrale» e ricerca in questo nuovo orizzonte cosmico lo
spazio per estendere i limiti dell’immaginario letterario: «Io vorrei servirmi
del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini
dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla
nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò
che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una
dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte
d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata».
Tale
sguardo cosmico non viene ospitato soltanto nelle scelte letterarie dell’ultimo
periodo, ma traspare in annotazioni e osservazioni svolte a proposito di altre
scritture; è il caso dell’individuazione di uno “stoicismo cosmico” in Montale
(1981), che peraltro rievoca l’«universo inospite e avaro» di Leopardi: «Non
c’è messaggio di consolazione o d’incoraggiamento in Montale se non si accetta
la consapevolezza dell’universo inospite e avaro; è su questa via ardua che il
suo discorso continua quello di Leopardi, anche se le loro voci suonano quanto
mai diverse. Così come, confrontato con quello di Leopardi, l’ateismo di
Montale è più problematico, percorso da tentazioni continue d’un soprannaturale
subito corroso dallo scetticismo di fondo. Se Leopardi dissolve le consolazioni
della filosofia dei Lumi, le proposte di consolazione che vengono offerte a
Montale sono quelle degli irrazionalismi contemporanei che egli via via valuta
e lascia cadere con una scrollata di spalle, riducendo sempre la superficie
della roccia su cui poggiano i suoi piedi, lo scoglio cui s’attacca la sua ostinazione di naufrago».
Sguardo
cosmico e dislocazione non antropocentrica sono connessi nella cruciale «sfida
al labirinto» (1962), che tocca un punto metodologico centrale, evidenziato in
un articolo che prende spunto dal libro Nel
labirinto di Alain Robbe-Grillet: «Lo spazio non antropocentrico che
Robbe-Grillet configura, ci appare come un labirinto spaziale di oggetti al
quale si sovrappone il labirinto temporale dei dati d’una storia umana. Questa
forma del labirinto è oggi quasi l’archetipo delle immagini letterarie del
mondo, anche se dall’esperienza di Robbe-Grillet, isolata nel suo ascetismo
espressivo, passiamo a una configurazione su molti piani ispirata alla
molteplicità e complessità di rappresentazioni del mondo che la cultura
contemporanea ci offre. / Anche qui è la forma del labirinto che domina: il
labirinto della conoscenza fenomenologica del mondo in Butor, il labirinto
della concrezione e stratificazione linguistica in Gadda, il labirinto delle
immagini culturali di una cosmogonia più labirintica ancora, in Borges. Ho dato
tre esempi che corrispondono ad altrettanti filoni della letteratura
contemporanea, tendenti tutti a una summa
dei modi conoscitivi ed espressivi, e che possono presentarsi variamente
mescolati e intrecciati […]». Dinanzi al labirinto della realtà la letteratura
pone una sfida: «Quel che la letteratura può fare è
definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa
via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare,
è una letteratura della sfida al
labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».
La
«sfida al labirinto» avvicina metodologicamente la scienza alla letteratura.
Come scriverà in un articolo di cinque anni dopo, Filosofia e letteratura (1967): «La scienza si trova di fronte a
problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del
mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e
deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie
convenzioni linguistiche. Una cultura all’altezza della situazione ci sarà
soltanto quando la problematica della scienza, quella della filosofia e quella
della letteratura si metteranno continuamente in crisi a vicenda».
Il
progetto di “letteratura cosmica” prende corpo concretamente nel 1963 e
impegnerà Calvino fino alla morte. Si è trattato di un programma lungamente
meditato sul piano metodologico ed epistemologico, ma la sua concretizzazione
ha richiesto anche letture e approfondimenti relativi alla letteratura
astronomica; non sembra gratuita l’affermazione contenuta in una lettera a
Domenico Rea del 1964: «Da un po’ di
tempo in qua leggo solo libri di astronomia». La tradizione configurata da
Ariosto, Galileo e Leopardi costituisce l’orizzonte canonico nel quale Calvino
inserisce – a partire dal 1963 – il suo programma. Ecco che appaiono le prime Cosmicomiche,
che uniscono letteratura e cosmologia, mettendo in questione ogni
antropocentrismo: «il libro più illuminista che abbia mai scritto, il cui
significato antropologico si traduce nella ricerca di uno spazio antropomorfo
situato “al limite delle possibilità d’immaginazione”» (Massimo Bucciantini).
In una nota alle prime quattro Cosmicomiche pubblicate su «Il Caffè» nel novembre 1964 Calvino propone la sua
genealogia artistica, nella quale non manca Leopardi: «Le Cosmicomiche hanno
dietro di sé soprattutto Leopardi, i comics di Popeye (Braccio di
Ferro), Samuel Beckett, Giordano Bruno, Lewis Carroll, la pittura di Matta e in
certi casi Landolfi, Immanuel Kant, Borges, le incisioni di Grandville».
Su
questa direttrice si colloca anche Ti con
zero, presentato, in un comunicato stampa della Einaudi redatto con ogni
probabilità dallo stesso Calvino, come un nuovo passo avanti nella medesima
direzione finalizzato a «impegnare un’immaginazione e un
linguaggio siderali, col distacco dell’astronomia»: «Calvino è andato avanti, alla ricerca di un approccio
nuovo, più preciso, più rigoroso col mondo: negli ultimi racconti ha cercato,
come dice lui stesso, di “impegnare un’immaginazione e un linguaggio siderali,
col distacco dell’astronomia”, per raccontare situazioni tipicamente umane,
situazioni drammatiche e angosciose, e risolverle con procedimenti
d’astrazione, come se si trattasse di problemi matematici. Questo è stato il
suo programma stilistico. E forse non solo stilistico».
Le Cosmicomiche e Ti con zero, proseguono intenzionalmente il grande progetto mitopoietico avviato da Ovidio nelle Metamorfosi, proponendo una raccolta di miti moderni in sintonia con le più aggiornate teorie cosmologiche; e al riferimento ovidiano si aggiungono anche Lucrezio e Raymond Queneau: «Il progetto delle Cosmicomiche (e della sua continuazione, Ti con zero) era ispirato simultaneamente a Lucrezio e a Ovidio. O, a seconda delle preferenze da un lato alla Piccola cosmogonia portatile di Queneau (il De rerum natura del nostro secolo), dall’altro a certi repertori etnografici di miti cosmogonici primitivi». Particolare interesse presenta la motivazione linguistica che – a detta dello stesso Calvino – soggiace alla scelta del termine “cosmicomiche”, esplicitata in un’intervista. del 1965: «Combinando in una sola parola i termini “cosmico” e “comico” ho cercato di mettere insieme varie cose che mi stanno a cuore. / Nell’elemento “cosmico” per me non entra tanto il richiamo all’attualità spaziale quanto il tentativo di rimettermi in rapporto con qualcosa di molto più antico. Nell’uomo primitivo e nei classici il senso del cosmico era l’atteggiamento naturale; noi invece per affrontare le cose troppo grosse abbiamo bisogno di uno schermo, di un filtro, e questa è la funzione del “comico”». Il testo è ricavato da un’intervista a Giorgio Montefoschi pubblicata su «Il Corriere Mercantile» del 13 giugno 1966 e riportata da Marco Antonio Bazzocchi ne L’immaginazione mitologica. Di rilievo per una ricostruzione delle scelte linguistiche di Calvino anche l’osservazione di Andrea Battistini relativa alla scelta del nome di Qfwfq: «Per un verso egli crea un personaggio quale Qfwfq, dal nome palindromo, che non è nemmeno un uomo ma, ancora, una “potenzialità”, per altro verso riconosce, con un brivido d’impotenza, perfettamente comprensibile in chi attribuiva alla scienza un “fondamento tragico”, che “la superficie delle cose è inesauribile”».
Insieme al cosmico, elemento di una tradizione letteraria moderna e “alta” oggi va aggiunto – sostiene Calvino – e non è superfluo rilevare un’eco pirandelliana – il comico, garanzia di distacco e filtro per ridurre la propensione antropomorfica. Lo stesso comico che Calvino rintraccia in un articolo del 1967 in una lunga serie di autori e testi, tacendo – forse volutamente – quello che forse gli è più congeniale, le Operette morali: «Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa e solo quella; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è moto più complicato e vasto e contraddittorio. L’ironia ariostesca, il comico shakespeariano, il picaresco cervantino, lo humor sterniano, la fumisteria di Lewis Carrol, di Edgar Lear, di Jarry, di Queneau valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge questa specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto. / E non è da dire che questo sia risultato a cui giungono soltanto i grandi. È piuttosto un metodo, un tipo di rapporto col mondo, che può informare di sé manifestazioni svariate e quotidiane d’una civiltà. Si pensi a quanto il sense of humour abbia contato nella civiltà inglese, non solo, ma quanto abbia contato nell’arricchire l’ironia letteraria di dimensioni fondamentali, sconosciute al mondo classico: e non mi riferisco tanto al fondo di melanconica simpatia verso il mondo, quanto alla prima virtù d’ogni vero «umorista»: coinvolgere nella propria ironia anche se stesso».
La
centralità di Leopardi, e in esso delle Operette
morali, rinvia a mio avviso proprio alla coniugazione dell’aspetto comico
con quello cosmico, che costituisce la cifra dell’ultima produzione letteraria
di Calvino. A questo proposito non si può trascurare l’indicazione della
dimensione “umoristica” del copernicanesimo già ritrovata in Pirandello,
proprio a partire dalla comicità leopardiana e dall’operetta Il Copernico,
in una direzione risolutamente anti-antropocentrica.
Come
annota Bazzocchi, la prospettiva cosmica assume un valore strategico in
contrasto con l’antropocentrismo. In tale prospettiva di letteratura cosmica
Battistini ritrova a sua volta «un capovolgimento di prospettiva» che, grazie
alla letteratura, «orienta verso la complessità ciò che nella scienza è
indirizzato alla semplicità».
La riflessione di Calvino sulla letteratura come filosofia naturale e sulla sua dimensione cosmologica trova una sua “consistenza” – come ho ribadito – nell’intera serie delle Cosmicomiche, che si estende dal 1965 al 1980 (Le cosmicomiche, 1965; Ti con zero, 1967; Altre storie cosmicomiche, 1968; Cosmicomiche nuove, 1984 e Una cosmicomica trasformata, 1980).
Mi pare opportuno, in questa sede, render brevemente conto della struttura cosmologica dei racconti segnalandone qualche passaggio, richiamando soprattutto le Cosmicomiche più propriamente dette, pubblicate tra il 1964 e il 1968. Mi riferisco ai racconti inseriti nel libro del 1965 – La distanza della Luna (novembre 1964), Sul far del giorno (novembre 1964), Un segno nello spazio (novembre 1964), Tutto in un punto (novembre 1964), Senza colori (aprile 1965), Giochi senza fine (settembre-ottobre 1964), La forma dello spazio (14 novembre 1965), Gli anni-luce (novembre 1965) –, a quello incorporato in Ti con zero – La molle Luna (ottobre 1967) –, a quelli raccolti nelle Altre storie cosmicomiche (1968) – La Luna come un fungo (16 maggio 1965), Le figlie della Luna (maggio 1968), I meteoriti (31 ottobre 1965), Il cielo di pietra (novembre 1968), Fino a che dura il Sole (11 aprile 1965), Tempesta solare (novembre 1968) – e ai due proposti nelle Cosmicomiche nuove (Il niente e il poco [settembre 1984] e L’implosione [settembre 1984]). Tutti questi racconti sono mossi da uno sguardo cosmologico e fanno riferimento a teorie astronomiche e cosmologiche. In alcuni di essi sono addensati squarci di poeticità “lunare” degni del confronto con le pagine galileiane e con le liriche leopardiane; qui davvero Calvino ha pensato «la luna in un modo nuovo» (come egli stesso scriveva nel ricordato articolo del 1967), sviluppando un visione fantastica all’altezza del sapere scientifico del nostro tempo, con modalità simili a quelle proposte nelle pagine “lunari” di Galileo e di Leopardi.
A mo’ di esemplificazione richiamo alcuni passi. Nella chiusa della Distanza dalla Luna, la prima delle Cosmicomiche, che muove dalla teoria della fissione (1828, George Howard Darwin), il vecchio Qfwfq così ricorda la scomparsa della signora Vhd Vhd: «Era il dolce ritorno, la patria ritrovata, ma il mio pensiero era solo di dolore per lei perduta, e i miei occhi s’appuntavan sulla Luna per sempre irraggiungibile, cercandola. E la vidi. Era là dove l’avevo lasciata, coricata su una spiaggia proprio sovrastante alle nostre teste, e non diceva nulla. Era del colore della Luna; teneva l’arpa al suo fianco, e muoveva una mano in arpeggi lenti e radi. Si distingueva bene la forma del petto, delle braccia, dei fianchi, così come ancora la ricordo, così come anche ora che la Luna è diventata quel cerchietto piatto e lontano, sempre con lo sguardo vado cercando lei appena nel cielo si mostra il primo spicchio, e più cresce più m’immagino di vederla, lei o qualcosa di lei ma nient’altro che lei, in cento in mille viste diverse, lei che rende Luna la Luna e che ogni plenilunio spinge i cani tutta la notte a ululare e io con loro. / Secondo la teoria della fissione la Luna si sarebbe staccata, circa 4,5 miliardi di anni fa, dalla Terra primordiale a causa della sua elevata velocità di rotazione e della sua fluidità».
Nella Molle Luna si immaginano – con un movimento che è parso trasformare «la lieta meraviglia delle osservazioni seleniche registrate nel Sidereus Nuncius» con l’«affascinato disgusto» dello sguardo al telescopio di Qfwfq – gli effetti prodotti sulla Terra dalla cattura gravitazionale della Luna e dalla caduta di frammenti di Luna, che avrebbero prodotto i continenti terrestri, secondo la teoria di H. Gerstenkorn, sviluppata dal fisico svedese Hannes Olof Gösta Alfvén, che elaborò una teoria nebulare di formazione del sistema solare, spiegando come la materia espulsa dal vento solare, sotto l'azione di campi elettromagnetici, avrebbe trasferito il momento angolare del sole alla nebulosa protoplanetaria: «Io non ascoltavo la sua spiegazione: la Luna, ingrandita dal telescopio, m’appariva in tutti i particolari, ossia me ne apparivano molti particolari insieme, così mescolati che più la osservavo meno ero sicuro di com’era fatta, e solo potevo testimoniare l’effetto che questa vista provocava in me, un effetto d’affascinato disgusto. Per prima cosa potrei dire delle venature verdi che la percorrevano, più fitte in certe zone, come un reticolo, ma questo a dire il vero era il particolare più insignificante, meno vistoso, perché quelle che erano, diciamo, le sue proprietà generali sfuggivano a una presa dello sguardo, forse per il luccichio un po’ viscido che trasudava da una miriade di pori, si sarebbe detto, o opercoli, e anche in certi punti da estese tumefazioni della superficie, come bubboni oppure ventose». Efficace anche, più avanti, la descrizione della caduta di molli frammenti lunari sulla terra: «Fu allora che udimmo il primo schiocco di meteorite lunare che cadeva sulla Terra: uno “splash!” fortissimo, un frastuono assordante e nello stesso tempo disgustosamente molle, che non restò isolato ma fu seguito da una serie come di spiaccichii esplosivi, di frustate caramellose che stavano cadendo da tutte le parti. Prima che gli occhi s’abituassero a percepire quel che cadeva, passò un po’ di tempo: a dire la verità, fui io che tardai perché m’aspettavo che i pezzi della Luna fossero anche loro luminosi […]».
Nella chiusa di La Luna come un fungo, che mette in scena il distacco della Luna dalla Terra in seguito a una marea solare, sempre alla luce della teoria di George H. Darwin, Calvino propone un desolato sguardo lunare: «Alle volte alzo lo sguardo alla Luna e penso a tutto il deserto, il freddo, il vuoto che pesano sull’altro piatto della bilancia, e sostengono questo nostro povero sfarzo. Se sono saltato in tempo da questa parte è stato un caso. So che sono debitore alla Luna di quanto ho sulla Terra, a quello che non c’è di quel che c’è».
E infine in Le figlie della Luna appaiono le oscillazioni imprevedibili di una Luna «malata» e «smarrita»: «Antiche espressioni come lunapiena mezzaluna ultimo quarto continuavano a essere usate ma erano soltanto modi di dire: come la si poteva chiamare ‘piena’ quella forma tutta crepe e brecce che pareva sempre sul punto di franare in una pioggia di calcinacci sulle nostre teste? E non parliamo di quando era tempo di luna calante! Si riduceva a una specie di crosta di formaggio mordicchiata, e spariva sempre prima del previsto. A lunanuova, ci domandavamo ogni colta se non sarebbe più tornata a mostrarsi (speravamo che sparisse così?) e quando rispuntava, sempre più somigliante a un pettine che sta perdendo i denti, distoglievamo gli occhi con un brivido»;
«La Luna pareva smarrita; abbandonato il solco della sua orbita non sapeva più dove andare; si lasciava trasportare come una foglia secca. Ora sembrava calare a picco verso la Terra, ora avvitarsi in una spirale, ora andare alla deriva. Perdeva quota, questo è certo: per un momento sembrò che andasse a sbattere contro l’Hotel Plaza, invece prese d’infilata il corridoio tra due grattacieli, sparì alla nostra vista verso lo Hudson. Riapparve poco dopo, dalla parte opposta, spuntando da dietro una nuvola, inondando d’una luce calcinosa Harem e l’East River, e come per l’alzarsi d’un colpo di vento rotolava verso il Bronx».
In tutti questi passi lo sguardo “lunare” è il risultato di una mitopoiesi perturbante e deviante rispetto a una visione tradizionale della luna, proprio perché è motivato da teorie selenologiche che mettono in crisi il nostro comune modo di “vedere” la Luna. Ne risulta accentuato un senso di mutevolezza e di imperfezione che contrasta con la presenza persistente e improbabile di figure “umane” o viventi; la procedura straniante e comica appare come una versione capovolta della prospettiva anti-antropocentrica leopardiana: mentre in Leopardi lo sguardo sul cosmo si risolve in uno “spettacolo senza spettatore”, in Calvino la presenza dello spettatore, spesso “troppo umano” per essere vero, rende inverosimile lo sguardo stesso mascherando la prospettiva cosmica con una veste comica.
Un eccesso di umanità che ben si riconosce se si guarda – nell’occasione di un’eclissi – alla grande pietra sospesa, come propone Roberto Casati nella sua Scoperta dell’ombra: «Per la prima volta ho visto la Luna per quello che è veramente […]. La Luna è un sasso tenebroso piuttosto cospicuo che se ne sta a una certa distanza sopra la mia testa e stranamente non mi cade addosso. Naturalmente conoscevo le leggi che la tengono ben salda in orbita, ma i miei occhi, non abituati a vedere pietre sospese nel cielo, non volevano sentire ragioni. Come del resto era sfuggita ai miei occhi l’idea, peraltro a me perfettamente nota, che la Luna sia un grosso sasso scuro: di solito la luce diafana della superficie lunare regala allo sguardo l’illusione di una lanterna delicata e leggera. Durante l’eclisse la Luna perde la sua natura di semidea, si separa dalla corte degli altri oggetti celesti visibili, tutti brillanti. […] L’ombra della Terra rivela la vera natura della Luna».
La pietra sospesa che l’Alcesti leopardiano sogna di veder cadere nel prato: piccola cosa materiale imparagonabile con la grande Luna immaginaria e poetica.
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che ha affascinato le grandi menti dell’umanità, Mondadori, Milano 2000
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Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Giunti,
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Michel Serres, Variations sur le corps, Le Pommier-Fayard,
Paris 1999
Michel Serres, Paysages
des sciences, Le Pommier, Paris 1999.
Nota:
Gaspare Polizzi ha tenuto una conferenza dal titolo “Mitopoiesi moderne: Keplero, Leopardi, Pirandello e Calvino dinanzi alla luna, con un'appendice astrofisica" durante il progetto culturale “Pagine di scienza ” .