A Torino è iniziato, lo scorso 7 aprile, il «processo Eternit». Alla sbarra non ci sono solo lo svizzero Stephan Ernst Schmidheiny, 62 anni, e il barone belga Jean-Louis de Cartier de Marchienne, già proprietari dell'azienda svizzera che controllava gli stabilimenti per la produzione di cemento-amianto di Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli e Rubiera, accusati dal pubblico ministero Raffaele Guariniello di non aver fatto tutto quanto possibile per prevenire l'esposizione mortale alle fibre di asbesto di 2.619 dipendenti e 270 tra familiari e residenti nei pressi degli impianti.
Sotto accusa non c'è solo una fabbrica creata da un chimico, l'austriaco Ludwig Hatschek, che pensò di rinforzare il cemento con fibre di amianto e di metterlo in vendita, a partire dal 1903, con il marchio Eternit.
Alla sbarra - almeno alla sbarra di molti mass media - c'è ancora una volta la "chimica": intesa come una tipologia d'industria che, dopo Seveso (1976) e Bhopal (1984), viene percepita dall'opinione pubblica come intrinsecamente ad alto rischio.
Naturalmente, non tutte le industrie chimiche sono ad alto rischio. E non tutto il rischio industriale ha origine negli impianti chimici. Ma non c'è dubbio che spesso nell'opinione pubblica la parola chimica viene associata alla parola rischio.
Spesso sono le industrie chimiche stesse che alimentano questa percezione con una strategia di comunicazione che genera sospetti. Come è avvenuto tra gli anni '50 e gli anni '70 del secolo scorso a Love Canal, Usa, quando la Hooker Chemical Company negò ogni correlazione tra i rifiuti tossici con cui aveva coperto un canale e le malattie delle persone che su quei rifiuti avevano costruito case e scuole. O come sta avvenendo in questi giorni a Institute, nel West Virginia: dove un'azienda chimica - la Bayer CropScience - si richiama alle leggi per la tutela della sicurezza antiterrorismo per evitare di comunicare ai cittadini il nome e le modalità d'uso di tutte le sostanze chimiche impiegate nell'impianto. Il 28 agosto scorso presso la fabbrica sono morti due operai, a causa di un incidente avvenuto mentre partecipavano a una fase di lavorazione di un pesticida, il methomil.
I cittadini, come spiega la rivista Chemical&Engeneering News in un recente articolo What Should The Public Know? (Cosa dovrebbe sapere la gente?) sospettano che nell'impianto venga utilizzato isocianato di metile (MIC), una sostanza estremamente tossica (quello di Bhopal, per intenderci). E si sono costituiti in un comitato - il People Concerned About MIC - che ha chiamato in causa la Guardia Costiera (l'impianto è sul fiume Some) sia il Chemical Safety & Hazard Investigation Board (CSB).
Non conosciamo cosa ci sia davvero nella fabbrica di Institute né il reale rischio di quelle lavorazioni. Certo è che la strategia di comunicazione Bayer CropScience sembra fatta apposta per alimentare il sospetto. E rinnovare l'immagine della chimica che, a torto o ha ragione, è tra le peggiori nel settore industriale. Anche perché di impianti coperti dalle leggi sulla sicurezza negli Usa ce ne sono almeno 10.000. E il CSB non vorrebbe ritrovarsi con, in piazza, altrettanti comitati di cittadini preoccupati.
Ma non è solo gli esperti del CSB a essere sulle spine. Il guaio è che chimica è una parola usata non solo per una tipologia d'industria, ma anche per una scienza. Non accade così per la fisica o per la biologia o per la matematica: non esiste un'industria fisica; un'industria biologia; un'industria matematica. E ciò genera una certa ansia negli scienziati chimici, perché sentono che non appena (a torto o a ragione) ritorna sui media la cattiva immagine della chimica, questa subito si trasferisce dal settore dell'industria, troppo spesso senza soluzione di continuità e senza fondamento, all'ambito della ricerca in chimica.