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Trenta anni di OGM

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Cosa è successo di rilevante nel 1983? Posta così a bruciapelo, questa domanda ci troverebbe forse incapaci di rispondere. Nel 1983 è stato fotografato per la prima volta il virus dell’HIV e Barbara McClintock aveva ottenuto il premio Nobel per il suo pioneristico lavoro sui trasposoni di mais. La tazzina del caffè in Italia costava 17 centesimi e la benzina 50 centesimi al litro, in un Paese che aveva per la prima volta un Governo guidato da un socialista.
Ma Nature celebra con un intero numero speciale una sua pubblicazione, avvenuta appunto 30 anni fa, di un articolo che aveva come primo autore Luis Herrera Estrella del laboratorio “comunitario” di Jeff Shell a Colonia, gemellato con quello di Marc van Montagu a Gent in Belgio. In quell’articolo si descriveva, per la prima volta, la possibilità di esprimere un gene in piante trasformate, aprendo così la strada agli OGM. Trenta anni sono certamente più che sufficienti per valutare una tecnologia che qualcuno giudica ancora giovane ed avventurosa, ma che la maggioranza degli scienziati e dei responsabili della Sanità pubblica ha ritenuto sicura e di grande efficacia.

Di certo è divenuto un caso simbolo della divaricazione e delle problematiche di una disciplina che si è andata affinando, definita Public perception of Science.
Gli inizi erano stati entusiastici e molto promettenti, e gli OGM verdi erano ritenuti molto più accettabili e vincenti rispetto alle stesse tecnologie applicabili ai vertebrati. Ma gli OGM rossi non hanno avuto sorte migliore, se consideriamo la pecora Dolly o il salmone modificato con l’ormone della crescita. Cito questi due esempi così tecnologicamente distanti tra loro (una è un clone di un altro individuo, l’altro è un animale nuovo per avere un gene in più) per dire che le paure diffuse nel pubblico, anche da una stampa alla ricerca di titoloni che facessero vendere più copie, ha finito per generare delle ossessioni nel pubblico, arrivato a rifiutare sia animali geneticamente modificati che animali geneticamente identici (la battuta è di Marco Cattaneo).

Nature: promesse e realtà sugli OGM

Nature ha un atteggiamento cauto come di chi si vuole ergere a giudice, tendendo quindi ad apparire equidistante, ben sapendo quanto ci si possa scottare toccando il tema degli OGM. Esorta a maggiori investimenti pubblici per evitare che gli OGM non siano solo sinonimo di multinazionali, brevetti e guerre commerciali. Ma anche la sola citazione dell’articolo del 1983 è un modo per ricordare a noi tutti come gli OGM siano nati in Europa e che se avessimo investito in questa tecnologia, oggi la gran parte di questa innovazione, la più grande che l’agricoltura abbia mai visto, sarebbe tutta nelle mani europee e forse anche gli Istituti pubblici di ricerca non ne sarebbero stati estromessi (per le vicende riguardanti la scalata di Monsanto e la sua famelica acquisizione dei brevetti generati dai centri di ricerca pubblica internazionale il testo da consultare è "OGM:storia di un dibattito truccato di Anna Meldolesi, 2001 Einaudi"). Nature ha ragione ad invocare un intervento pubblico più deciso, e un buon inizio sarebbe quello di non finanziare innovazioni basate su tecnologie già stabilmente nelle mani delle compagnie.
Inutile continuare a finanziare ricerche basate sull’uso del promotore 35S del CMV, ad esempio, se prima di iniziare non si ottiene una licenza d’uso da parte dell’azienda detentrice del brevetto.

Molti articoli costellano il numero speciale, come quelli sul futuro del Biotech che parlerà sempre più cinese o le ripercussioni sulle popolazioni indifese dell’Asia e dell’Africa in seguito alla diatriba che vede contrapporsi Europei (anti-OGM) agli abitanti delle Americhe, che dal Canada all’Argentina - passando anche per Cuba - hanno tutti abbracciato la tecnologia che consente loro di ridurre significativamente l’uso della chimica in agricoltura. La riduzione riportata da Nature è di 473mila tonnellate di pesticidi in meno per merito degli OGM: un vero salasso per il nostro continente, leader mondiale nella produzione di agrofarmaci con tre aziende che per fatturato occupano i primi tre gradini del podio.
Ma di certo non si può negare che gli scienziati degli OGM abbiano imparato a loro spese che quando dal laboratorio si passa allo scaffale del supermercato non si parla più al cervello dei consumatori, ma al loro stomaco, al cuore, toccando aspetti culturali che affondano le radici nella loro personale memoria storica, nelle tradizioni, senza dimenticare che permane una scarsa consapevolezza di qual è stata l'evoluzione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Questi fattori non sono ingorabili e, anzi, vanno rispettati tanto quanto la più accurata prova scientifica, per non continuare a restare in una sterile contrapposizione figlia di un dialogo tra sordi.

Alcune delle tecnologie proposte servono solo ad aggirare il problema degli OGM propriamente detti, con modifiche genetiche che non prevedono l’arrivo di un vero gene estraneo: l’editing del genoma vegetale, ad esempio, che porta a una sequenza identica a quella di un transgene. Veri e propri artifici semantici, questi, che si pensa possano evitare lo scontro in cui il grande pubblico è stato coinvolto e che tiene in scacco sostanzialmente un paio di tipologie di geni: le tossine di Bacillus turingensis - che conferiscono la resistenza della pianta ai parassiti - e i geni di tolleranza all’erbicida glifosate. Per quanto questa tattica possa apparire illusoria, si deve ricordare che le barricate contro gli OGM riguardano solo circa il 5% della soia o del mais OGM, ossia la quota destinata all’alimentazione umana diretta. Circa il 90% di soia e mais OGM finiscono, invece, nei mangimi. In questo caso si sollevano poche voci critiche, ma in realtà nessuno se ne preoccupa davvero (tranne gli imprenditori agricoli italiani che non li possono coltivare ma li vedono importare a milioni di tonnellate). Eppure, una vacca italiana mangia oggi circa due chilogrammi di soia OGM al giorno e da sedici litri del suo latte si fa un chilo di formaggio a pasta dura, senza che questo generi alcun allarme sanitario da ormai 17 anni.
Nature ricorda che oggi l’11% di tutte le coltivazioni mondiali deriva da OGM: i problemi derivano quindi da un successo senza paragoni per impatto e per una chiara accettazione delle più importanti industrie agricole mondiali.

trent'anni, tre casi emblematici

Per cercare di far avvalorare la sua posizione neutrale, Nature sentenzia su tre casi complessi in particolare, in merito al dibattito sugli OGM: le erbe infestanti, i suicidi dei contadini indiani e la presunta contaminazione del mais messicano. Per le erbe infestanti la sentenza è contro gli OGM, anche se viene ben spiegato che tutti gli altri erbicidi hanno selezionato erbe infestanti, nonostante non esistano piante OGM resistenti a quegli spicifici erbicidi. In realtà, solo il 5% circa delle piante resistenti ad erbicidi lo sono contro il glifosate, utilizzato anche per l'agricoltura priva di OGM. Al contrario, la sentenza è pro-OGM nel caso dei suicidi di contadini indiani che avrebbero preso questa decisione oberati dai debiti e dalla scarsa produzione del cotone Bt. Nature riprende dati noti da anni, che dimostrano come non c'è stato alcun aumento dei suicidi. Grazie al cotone Bt questi sono, invece, diminuiti e il reddito degli agricoltori è molto aumentato. Sarebbe bello se qualcuno costringesse la profetessa indiana che strumentalizza a fini progandistici i suicidi dei suoi compaesani a fornire dati, fonti e statistiche, oppure a vergognarsi e a scusarsi pubblicamente.
Il terzo caso si conclude con una parità e non si può essere certi né che vi sia stato né che non vi sia stata una certa percentuale di mescolamento di semi OGM in una delle vere patrie mondiali del mais: il Messico. In questa sentenza di parità, Nature non sfugge dal citare le proprie colpe personali che spinsero il prestigioso giornale a pubblicare nel 2001 un articolo di Chapela e Quist che avvalorava la tesi della contaminazione del mais messicano con mais Bt. Sotto la pressione degli scienziati internazionali, l’editore di Nature fu costretto a ritirare e sconfessare l’articolo, ammettendo che, per le evidenti carenze tecniche, quell’articolo non avrebbe mai dovuto essere pubblicato. Forse allora Nature cedette all’istinto dello scoop giornalistico, salvo poi pentirsene citando correttamente quel passaggio nel numero speciale sugli OGM pubblicato nell'occasione dell'anniversario.

In questi anni sono successe molte cose nel campo degli OGM, sia dal punto di vista scientifico che, soprattutto, per quanto riguarda il rapporto tra scienza e società.
In quel 1983 l’entusiasmo lasciava però spazio anche a una certa leggerezza e ironia.
Max Gottesmann, uno dei più grandi studiosi del fago lambda, durante un seminario all’Istituto Pasteur di Parigi illustrò le grandi potenzialità dell’ingegneria genetica con il fiorire di nuove imprese che avevano quasi tutte il termine “gene” nel loro nome (una per tutte la californiana Calgene).
Max sosteneva che l’entusiasmo attorno a questa nuova tecnologia si stava diffondendo ovunque, tanto che anche in Vaticano si stava pensando di fondare una company per ingegnerizzare organismi. Avevano già pronto il nome: Genuflex.

Abbiamo imparato molto in trent’anni, ma forse la vicenda è diventata un po’ troppo seriosa. Sarebbe meglio oggi ritrovare quella visione pionieristica ed entusiasmante delle origini. 


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