fbpx I numeri del Covid-19 in Italia: maneggiare con cura | Scienza in rete

I numeri del Covid-19 in Italia: maneggiare con cura

Primary tabs

I dati forniti sui numeri di Covid-19 in Italia non sono di semplice interpretazione: ad esempio, il numero dei contagiati fornito quotidianamente dalla Protezione Civile non corrisponde al numero reale dei nuovi infetti, ma rispecchia quelli identificati dal SSN; inoltre, il periodo d'incubazione, seguito da quello necessario per i test e il passaggio del risultato a chi lo comunica fa sì che ci sia per forza un certo ritardo. Con queste premesse, proviamo qui a rispondere ad alcune delle domande sull'epidemia: la situazione italiana è peggiore di quella di altri Paesi? Le misure di contenimento funzionano, e quando vedremo il risultato? Cosa succederà alla fine dell'epidemia?
Crediti immagine: HubertPhotographer/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Tempo di lettura: 5 mins

In merito ai dati cui verosimilmente il pubblico italiano può accedere agevoin modo agevole andando oltre le fonti puramente giornalistiche sono ad esempio i bollettini dell’Istituto superiore di Sanità (ISS), aggiornati ogni tre giorni, e, a un livello più elevato, i dati dettagliati messi a disposizione dalla Protezione Civile ogni sera. Questi numeri includono il numero aggiornato di contagiati, guariti, deceduti e altro.

Fatta questa premessa, i motivi che rendono difficili da interpretare i dati sull’attuale diffusione di Covid-19 sono molteplici e un po' complicati. Ecco alcuni esempi.

Il numero dei "contagiati" di oggi non corrisponde agli "infettati" di oggi

Il termine "contagiati" usato da molte fonti per informare dell'andamento dell'epidemia vuol dire "infettati", ed è vero che questo sarebbe la misura dell'andamento dell'epidemia, sia per quanto riguarda la cosiddetta incidenza, cioè i nuovi casi ogni giorno, sia la prevalenza, cioè quanti sono attualmente infetti, poiché l'infezione dura un certo periodo dopo averla contratta. I numeri che vengono riportati ogni giorno però non rispecchiano il vero numero di nuovi infetti, nè di quelli presenti, ma solo quelli che sono stati identificati dal sistema sanitario, cioè abbastanza sintomatici da venire testati e poi notificati, o “confermati” oppure perché contatti stretti di casi confermati. Questo vuol dire che il loro numero riportato è inferiore al vero numero, perché non tutti hanno sintomi abbastanza gravi da venire testati.

Inoltre, il conteggio quotidiano è necessariamente in ritardo rispetto alla "vera" situazione odierna, perché, dal momento che una persona si espone al contagio, passa prima un periodo d'incubazione fino all’infezione e all'insorgenza dei sintomi, poi un altro prima del test e poi un ulteriore periodo prima della notifica ufficiale del risultato positivo, fino al momento in cui l’informazione arriva a chi la comunica.

Purtroppo, non sappiamo qual è il rapporto tra i numeri ufficiali e i veri numeri, né come proporzione, né come ritardo.

L'aumento dei numero dei "contagiati" non riflette necessariamente un aumento degli infettati

Come detto sopra, i contagiati notificati sono, nella migliore della ipotesi, una versione parziale e ritardata dell'andamento dell'infezione. Quindi, per esempio, avremo informazione di una diminuzione dei nuovi infetti solo con un certo ritardo. Questo vuol dire che, per un certo tempo, si vedrà un continuo aumento dei numeri ufficiali di "contagiati", mentre forse in realtà stanno gia' diminuendo i nuovi infettati. 

Proviamo adesso a rispondere – dando elementi di valutazione qualitativa e non risposte quantitative certe - ad alcune delle domande che premono di più al pubblico.

Le cose vanno peggio in Italia rispetto ad altri Paesi? Esiste un “caso italiano”, come molti ritengono?

Difficile che esista un caso italiano “epidemiologicamente speciale”, per il quale saremo ricordati negli anni a venire. Molti Paesi europei si stanno rapidamente allineando (al 20 marzo sono già 20.000 in casi confermati in Germania). Quindi alcune delle differenze osservate nel “numero minore” di casi confermati in altri Paesi rispetto all’Italia sono dovute puramente a differenze nei tempi di avvio delle epidemie, nel grado di attenzione del sistema alle prime avvisaglie e quindi dallo sforzo fatto per “cercare” infetti (ad esempio in Veneto), e così via.

È però vero che Paesi diversi subiranno effetti diversi a seconda delle misure di mitigazione prese e dalla disponibilità di infrastrutture per rendere tali misure efficaci. Un punto certamente rilevante a questo proposito riguarda i dati sulla mortalità per Covid-19 e i confronti tra l'Italia e altri Paesi, in particolare la Cina, dove è iniziata la diffusione. La risposta qui è piuttosto articolata a causa di molti fattori non che possono causare differenze importanti nel dato che poi appare al pubblico: 

Distribuzione di età nel Paese. Sembra ormai chiaro che sia la gravità dei sintomi che il rischio di morire aumentino con l'età della persona infettata e con la presenza di altre malattie croniche, fatto spesso correlato con l'età. Questo vuol dire che un Paese che ha proporzionalmente più persone di età avanzata nella sua popolazione e dunque, probabilmente, una proporzione più alta di anziani tra gli infetti, avrà più morti sia in numero assoluto rispetto alla popolazione, che rispetto al numero di infetti, e anche rispetto al numero ufficiale di "contagiati".

Il denominatore della letalità. La letalità viene spesso presentata come numero di morti diviso per numero di contagiati. Se quest'ultimo è minore del vero numero di infetti, il quoziente sarà più grande. Non dimentichiamo inoltre che il numero di contagiati notificati è distorto dalle differenze tra strategie di test in regioni differenti e da cambiamenti di questi protocolli nel tempo.

Il numeratore della letalità. Anche la stima del numero di morti è problematica da interpretare. Anche se sapessimo esattamente quanti infetti ci sono stati finora (il denominatore), il numero di decessi riportati alla stessa data sarebbe ridotto, perché per le infezioni recenti non avrebbero ancora avuto il tempo di sviluppare il decorso clinico. Però il numero di decessi potrebbe anche essere sovrastimato, in quanto bisogna distinguere i "morti PER Covid-19" dai "morti CON Covid-19", tenendo conto che per alcuni deceduti l’accertamento dell’infezione è avvenuto dopo la morte e la causa di morte presumibilmente è una altra malattia.

Quale sarà il successo delle misure di contenimento?

E quando lo vedremo anche dai dati? Quando arriverà il tanto atteso picco? Quando finirà l’epidemia? Le misure di contenimento prese in Italia sono state sinora meno stringenti di quelle prese in Cina o Corea del Sud. Inoltre non sappiamo molto sull'adesione a queste misure in Italia, anche se sembra buona. A causa del ritardo tra il calcolo dei veri nuovi infetti e quelli notificati, ci aspettiamo che i casi notificati in questi giorni continuino a provenire da persone infettate prima dell'inizio della quarantena. Se il tempo medio tra il momento dell'infezione e l'inclusione nei dati ufficiali è di, diciamo, 15 giorni, bisognerebbe aspettare circa quindici i giorni dall'inizio della quarantena per vedere la diminuzione dei casi notificati. Dunque ci vuole pazienza. Bisogna attendere, prima di valutare l'efficacia delle contromisure. I 15 giorni menzionati sopra sono una stima ragionevole, ma approssimativa, su stime apparse in letteratura tra la data del vero picco dell'epidemia e i dati notificati.

Cosa succederà “dopo”?

Facciamo uno scenario ragionevole: le misure avranno effetto, l’epidemia rallenterà, raggiungerà il suo picco, e poi si concluderà (quasi...). A quel punto sarà stata vinta una battaglia, ma non la guerra, perché la gran parte della popolazione sarà ancora suscettibile al virus e quindi a rischio di future reintroduzioni. In quel caso bisognerà mantenere ancora una sorveglianza efficace per identificare i casi e fermare le ulteriori catene di trasmissione, e studiare e mettere in campo altre contromisure.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione?