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I media e la mistica del DNA

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C’è quello depresso, quello obeso, quello insonne e pure quello brillo. Nelle ultime settimane la genetica ha aggiunto altri identikit all’ormai lunghissima lista di geni sospetti. Ora conosciamo i nomi, ma sarebbe meglio dire i “loci”, dei geni responsabili della depressione, dell’obesità, dell’insonnia e persino di quello che ci rende euforici già al primo drink. A dire il vero, dal Progetto Genoma (1990) in poi siamo ci siamo ormai abituati ad annunci di questo tipo. Che il DNA possa paragonarsi a una sorta di nastro in cui sia avvolta, nucleotide dopo nucleotide, la complessa personalità di ciascuno di noi è oggi opinione comune.

Alcuni anni fa due scienziati attenti agli effetti sociali della comunicazione della ricerca come Dorothy Nelkin e Susan Lindee hanno pubblicato un libro dal titolo molto significativo, "La mistica del DNA. Il gene come icona culturale". Siamo caduti vittime di una vera e propria “genomania”, dicevano i due ricercatori americani, i media ci fanno credere che non ci sia aspetto del nostro carattere, che non ci sia intemperanza o virtù, che non affondi le sue radici in una precisa porzione di DNA. I gloriosi e insindacabili progressi della genetica, avvertivano Nelkin e Lindee, hanno finito per alimentare una pericolosa vulgata neobiologista e innatista, in nome di cui tutto è riducibile al nostro profilo genetico, con tanti saluti per il libero arbitrio e per il concetto stesso di responsabilità. Se sono intelligente non è merito mio, della mia volontà, ma dei miei geni. Lo stesso se sono irascibile, goloso, bevitore, depresso, oppure obeso. Tutto merito o colpa dei geni. A chi attribuire questa pericolosa china riduzionista? Ai giornalisti?

Certo. Ma, a onor del vero, nemmeno noti scienziati hanno saputo sottratti al mistico fascino della doppia elica. Ecco, tanto per fare un esempio, quello che all’indomani dell’avvio del Progetto Genoma affermava uno dei due scopritori della doppia elica, il Nobel James Watson: “Noi eravamo abituati a pensare che il destino dell’uomo fosse scritto nelle stelle. Ora sappiamo che, in larga misura, è scritto nei nostri geni”.

Ora che il Progetto Genoma si è concluso e i geni umani sono stati sequenziati, sappiamo bene che le cose sono molto più complesse. Sappiamo per esempio che l’equazione un gene = un carattere non sta in piedi, che ogni gene contribuisce all’espressione di una funzione solo grazie alla collaborazione di moltissimi altri geni, che i geni di per sé non sono così importanti perché per potersi esprimere hanno bisogno della collaborazione e dello stimolo di moltissime proteine, e inoltre sappiamo che tutto questo intreccio di contingenze va moltiplicato per mille quando piuttosto che il colore dei capelli o l’altezza, si chiamano in causa aspetti della personalità come l’intelligenza, la depressione, la golosità o l’incapacità di reggere l’alcol. Eppure gli annunci continuano. Come mai? Perché la combriccola di quei rozzi scienziati deterministi e di quegli altrettanto rozzi giornalisti faciloni sono così duri a morire? Mondata dagli eccessi mistici, forse che la fiducia nel DNA non è poi così peregrina? Del resto, come insegnava lo stagirita e come continua a dirci il buon senso, la verità sta nel mezzo.

Non sarà vero che un gene possa determinare un aspetto del nostro carattere, ma non sarà neanche vero che il nostro carattere non abbia nulla a che fare con il DNA. Prendete la scoperta fatta da alcuni ricercatori del New York-Presbyterian Hospital sulla “proteina anti-depressione”. In uno studio su topi “depressi” (sia chiaro, la depressione è stata indotta dagli stessi ricercatori!) gli scienziati hanno notato un considerevole miglioramento delle loro condizioni ripristinando l'attività di un gene in una piccola area del loro cervello. Per la precisione la proteina anti-depressione si chiama P11 ed è stata scoperta dal premio Nobel per la Medicina Paul Greengard. La molecola, in pratica, attiva i recettori della serotonina, il neurotrasmettitore "del buon umore", per cui senza P11 i recettori della serotonina non funzionano e il buon umore non "entra in circolo" nel cervello. È stata forse scoperta la molecola della felicità? Ovvio che no, ma certo si è fatto un passo in avanti nella cura della depressione, contro cui ora entra in campo anche una possibile terapia genica.

Non c’è nulla di scandaloso nel fatto che un male dell’anima possa essere curato “anche” per via genetica. Scandaloso sarebbe pensare che debba essere curato “solo” per via genetica o, viceversa, “solo” con psicofarmaci o “solo” per via psicanalitica. E passiamo al “gene brillo”. Sempre in America, in North Carolina, hanno scovato un gene (CYP2E1) che renderebbe alticci in un lampo. Coloro in cui questo gene trovasse una decisa espressione sarebbero, a detta dei ricercatori, meno inclini a diventare alcolisti. Varie ricerche hanno infatti dimostrato che chi è più sensibile agli effetti dell’alcol corre meno rischi di diventarne dipendente. Nella maggior parte delle persone, spiegano i ricercatori, i drink vengono metabolizzati nel fegato, mentre in alcuni questo processo avviene nel cervello attraverso un enzima collegato al gene CYP2E1. Le persone che hanno la versione “brilla” di CYP2E1 risentono, rispetto ai compagni di bevuta, più facilmente degli effetti dell’alcol. È stato forse trovato il gene dell’alcolismo? Ovvio che no. L’alcolismo, come la depressione, è una malattia che ha a che fare innanzitutto con lo spirito. Questo però non toglie di mezzo la genetica. Materia e spirito sono intrecciati, e guardare solo all’uno o solo all’altro è ormai una forma di strabismo che la scienza (e chi la comunica) non può più permettersi.


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