fbpx La lunga rincorsa di Hayabusa 2 | Scienza in rete

La lunga rincorsa di Hayabusa 2

Primary tabs

Read time: 7 mins

All’immagine pittorica della sonda Hayabusa 2 è stata sovrapposta una panoramica di Ryugu, catturata lo scorso giugno, in cui sono già ben visibili molte caratteristiche superficiali (crateri, grossi macigni,…) dell’asteroide. L’insolita forma e la rapida rotazione del corpo celeste, completata in 7 ore e 38 minuti, lo rendono ancora più interessante per i planetologi. Crediti: Go Miyazaki – JAXA

Spinta per tre anni e mezzo dai suoi quattro motori a ioni di Xeno, la sonda giapponese ha percorso oltre tre miliardi di chilometri e alla fine non ha mancato il suo bersaglio: a partire da metà giugno Hayabusa 2 ci ha finalmente svelato il vero – e curioso – aspetto dell’asteroide Ryugu. Caratterizzato da composizione carboniosa e con dimensioni di circa un chilometro, Ryugu appartiene alla classe dei NEA, gli asteroidi che percorrono orbite che li conducono, periodicamente, ad avvicinarsi al nostro pianeta e attraversarne il cammino celeste. Già si comincia a fantasticare, però, su ciò che la missione Hayabusa 2 ci riserverà per l’autunno: quattro lander a zonzo sulla superficie di Ryugu e la sonda che per tre volte si abbasserà fino a raccoglie campioni di suolo da riportare a Terra. Provando insomma a rimediare quanto non era riuscito alla prima missione Hayabusa.

Non solo panorami

Benché siano ormai una dozzina gli asteroidi visitati da un veicolo spaziale (ai quali possiamo aggiungere anche nove nuclei cometari), ogni volta che una sonda ci permette di vedere i dettagli di questi corpi celesti è sempre un’emozione. Ormai ci abbiamo quasi fatto l’abitudine, ma la prima immagine di un asteroide risale solamente all’ottobre 1991, catturata dalla sonda Galileo mentre era in rotta verso Giove e transitò a 1.600 chilometri dall’asteroide Gaspra (18 x 10 x 9 km). Neppure un paio d’anni più tardi sarebbe stata ancora la stessa sonda a rivelarci che anche un asteroide può avere una luna, immortalando Ida (60 x 25 x 18 km) e il suo piccolo satellite Dactyl (1,4 km).

Per ovvi motivi, gli asteroidi che ci interessano più da vicino sono i cosiddetti NEA (Near-Earth Asteroid), cioè quelli che, di tanto in tanto, hanno incontri più o meno ravvicinati con il nostro pianeta. Anche di alcuni di essi abbiamo immagini dettagliate raccolte da sonde spaziali: è il caso per esempio di Eros (34 x 11 x 11 km), obiettivo della missione NEAR-Shoemaker  conclusasi nel febbraio 2001 con un atterraggio morbido sulla superficie dell’asteroide; oppure di Itokawa, il piccolo NEA (535 x 294 x 209 m) raggiunto nel 2005 dalla sonda giapponese Hayabusa  nel corso di una missione davvero ambiziosa, progettata per portare nei laboratori terrestri campioni di suolo prelevati con una audace manovra dalla superficie dell’asteroide. Non è stata certo casuale la scelta del nome: in Giappone, infatti, il nome hayabusa indica il falco pellegrino, la cui capacità di fiondarsi sulla preda per ghermirla è proverbiale. Nel 2005 il falco avrebbe dovuto ghermire le polveri superficiali di Itokawa, ma non tutto andò per il verso giusto; nonostante i numerosi problemi, un paio d’anni più tardi e dopo molte peripezieHayabusa riuscì comunque a riportare a Terra un’esigua dose di polveri.

Mentre Hayabusa era ancora incamminata sulla lunga e tormentata strada del ritorno, i responsabili dell’agenzia spaziale giapponese JAXA mettevano in cantiere Hayabusa 2, una missione di gran lunga più ambiziosa della precedente. L’altissimo profilo traspare in modo chiaro dalle parole di Hitoshi Kuninaka, responsabile della missione: «Lo scopo di Hayabusa era dimostrare la tecnologia ingegneristica, i motori ionici e la navigazione autonoma, ma per Hayabusa 2 i planetologi di tutto il mondo ci hanno chiesto di realizzare un esploratore in grado di soddisfare precisi scopi scientifici. Una delle nostre risposte è stata realizzare lo Small Carry-on Impactor, in grado di creare un cratere e permetterci di estrarre campioni dal sottosuolo. Una sfida tutta nuova per noi.»

Confronto tra i due asteroidi raggiunti dalle missioni Hayabusa e Hayabusa 2. A destra l’asteroide 25143 Itokawa, obiettivo della sonda Hayabusa e a sinistra l’asteroide 162173 Ryugu, raggiunto lo scorso giugno da Hayabusa 2. Per dare una migliore percezione delle dimensioni, i corpi celesti sono messi a confronto con due famose costruzioni, il Taipei 101 (Taiwan) e il Burj Khalifa (Dubai). Crediti immagini Itokawa e Ryugu: JAXA

A caccia di polveri

Senza alcun dubbio, rincorrere un asteroide per più di tre anni e mezzo, posizionarsi stabilmente nei suoi paraggi e restituirci immagini e dati cruciali riguardanti la sua struttura e composizione sono già incredibili successi. La missione Hayabusa 2, però, ha in serbo molto di più.

Tra settembre e ottobre, dopo aver individuato il luogo più adatto, la sonda diminuirà la sua quota fino a toccare la superficie di Ryugu e raccogliere un primo campione di polvere di asteroide. Per agevolare la raccolta è previsto lo sparo di un piccolo proiettile di tantalio, una pallottola di 5 grammi che colpirà la superficie dell’asteroide alla velocità di 300 m/s. La nuvola di polvere sollevata dal minuscolo impatto potrà così essere raccolta dall’apposita protuberanza (sampling horn) di cui è dotata Hayabusa 2. Sarà una vera e propria azione da incursore: un secondo dopo lo sparo del proiettile, infatti, la sonda avrà già acceso i suoi motori per allontanarsi dalla superficie di Ryugu.

A bordo della sonda sono previsti tre appositi contenitori, ciascuno dei quali ha il compito di conservare un differente campione di polvere d’asteroide, preservarlo da possibili contaminazioni e proteggerlo nella delicata fase di rientro a Terra nel dicembre 2020. Delle tre operazioni di raccolta, l’ultima sarà la più spettacolare. Tra gli esperimenti ospitati a bordo di Hayabusa 2, infatti, compare anche lo Small Carry-on Impactor, un proiettile di rame di 2,5 kg che, accelerato da un dispositivo esplosivo, colpirà la superficie di Ryugu a 2 km/s scavando un cratere di circa 4 metri. Per evitare sorprese, quando avverrà l’impatto la sonda si troverà dall’altra parte dell’asteroide, facendosene scudo. L’intera operazione sarà comunque seguita in diretta grazia a una piccola videocamera (Deployable Camera DCAM3) rilasciata da Hayabusa 2 assieme al dispositivo contenente il proiettile, equipaggiato con i vari sistemi di supporto alla discesa e con il pericoloso carico di 4,5 kg di esplosivo HMX.

I piani di missione prevedono che la terza campionatura di Hayabusa 2 avvenga proprio all’interno o nelle immediate vicinanze del cratere scavato sulla superficie di Ryugu, in modo da raccogliere materiale che potenzialmente non è mai stato esposto all’influenza esterna. Materiale estremamente prezioso per i planetologi: poco o nulla modificato dall’intenso irraggiamento che caratterizza lo spazio e che investe tutte le superfici asteroidali, potrà dare preziose indicazioni sulla composizione originaria di Ryugu.

A zonzo per l'asteroide

Un ulteriore obiettivo della missione, in grado di trasformare Hayabusa 2 in autentica leggenda, è il manipolo di rover destinati a gironzolare sulla superficie di Ryugu. Tre di essi, progettati e realizzati da JAXA e da università giapponesi, fanno parte dell’esperimento MINERVA-II (MIcro/Nano Experimental Robot Vehicle for Asteroide) e sono la riproposizione del rover imbarcato su Hayabusa che, nel 2005, fallì l’atterraggio su Itokawa. Togliamoci dalla testa, però, l’immagine di rover che ci viene dall’esplorazione di Marte. I tre dispositivi, infatti, sono alti una ventina di centimetri, hanno la forma di prismi a base ottagonale e non hanno ruote. Il loro spostamento sulla superficie di Ryugu avverrà a piccoli balzi, reagendo al repentino movimento di una massa che, al loro interno, viene messa in rotazione da un motore elettrico; un secondo motore, ruotando opportunamente la piattaforma su cui è collocata la massa, ha il compito di governare la direzione del balzo. Veri e propri asteroid hoppers, insomma.

La piena operatività dei rover è garantita con qualsiasi orientamento, come pure l’alimentazione elettrica, assicurata da pannelli solari che ne ricoprono l’intera superficie. Oltre che da dispositivi di ripresa e di comunicazione con la sonda madre, i rover sono equipaggiati con sensori di temperatura. La possibilità di acquisire informazioni sulla situazione termica in molteplici regioni dell’asteroide e in differenti momenti della sua giornata è di grande interesse per i planetologi, che potranno in tal modo ricostruire il bilancio energetico della superficie di Ryugu e la risposta all’irraggiamento solare dei materiali che la compongono.

Necessaria una menzione particolare per il quarto rover ospitato a bordo di Hayabusa 2: si chiama MASCOT  (Mobile Asteroid Surface Scout), ha le dimensioni di un piccolo forno (30 x 30 x 20 cm), pesa 10 kg ed è il frutto della collaborazione dell’agenzia aerospaziale tedesca DLR e dell’agenzia spaziale francese CNES. Non è stato progettato da zero, ma è il risultato di un ulteriore sviluppo dell’idea da cui era nato Philae, il lander di Rosetta che, nel novembre 2014, si posò sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.

Anche MASCOT è progettato per saltellare da un luogo all’altro sulla superficie di Ryugu, ma la durata delle batterie ne limiterà la missione a 12-16 ore. A bordo ospita quattro strumenti – una fotocamera a grande campo, uno spettrometro infrarosso, un radiometro e un magnetometro – le cui misurazioni si integreranno sia con i dati dei rover MINERVA-II sia con le misurazioni in remoto di Hayabusa 2 restituendoci una mappatura senza precedenti della superficie di Ryugu e delle sue proprietà. Una vera manna per i planetologi, che confidano di poter ricostruire grazie a questi dati il passato dell’asteroide e la storia della sua formazione.

In questi giorni Hayabusa 2 sta compiendo le manovre di ulteriore avvicinamento a Ryugu studiando dettagliatamente la morfologia e la possibile composizione della sua superficie, valutandone la massa e fornendo i dati necessari per ipotizzare la struttura interna dell’asteroide. Tra settembre e ottobre, però, il gioco si farà molto più impegnativo.

 

Per approfondire:  Dettagliata panoramica di Hayabusa 2 e della sua strumentazione scientifica

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: