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Via Lattea, il catalogo è questo

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Questa visione d’insieme della Via Lattea non è propriamente una fotografia, ma piuttosto una mappa. È stata realizzata con le singole misurazioni di circa 1,7 miliardi di stelle effettuate dal satellite Gaia. In essa è raffigurato circa un centesimo del numero complessivo di stelle della nostra Galassia. Crediti: ESA/Gaia/DPAC, A. Moitinho / A. F. Silva / M. Barros / C. Barata, University of Lisbon, Portugal; H. Savietto, Fork Research, Portugal.

Nei giorni scorsi è stato rilasciato Gaia DR2, il secondo imponente catalogo dei dati raccolti dal satellite Gaia. Si tratta del più completo atlante stellare mai realizzato finora, un’incredibile fiumana di dati riguardanti quasi un miliardo e settecento milioni di stelle della Via Lattea. Una vera manna per gli astronomi, che avranno a disposizione non solamente i dati sorprendentemente precisi delle posizioni in cielo di quelle stelle, ma anche le informazioni che riguardano il loro moto proprio, la parallasse, la luminosità e il colore. Informazioni chiave per chi, dovendo per esempio comprendere i meccanismi evolutivi delle stelle, può solo fare affidamento sui dati provenienti dai censimenti stellari. Più vasta è la popolazione coinvolta in tali censimenti, più precisi e attendibili sono i dati raccolti e più le conclusioni potranno essere corrette. Il catalogo è il risultato della accurata analisi dei dati raccolti dal satellite Gaia nel corso di 22 mesi (dal 25 luglio 2014 al 23 maggio 2016) e costituisce una tappa epocale nel perenne tentativo degli astronomi di dotarsi di un sempre più affidabile e completo catalogo stellare.

Da Ipparco al telescopio

Storicamente, il primo tentativo di raccogliere in un catalogo le posizioni delle stelle in cielo fu quello di Timocari e Aristillo intorno all'anno 290 a.C. Di questo catalogo, che comprendeva solamente una ventina di stelle, sappiamo quel poco che ci racconta Tolomeo nel suo Almagesto. Uno stimolante tentativo, ma davvero poca cosa se lo paragoniamo al catalogo di gran lunga più noto dell’antichità, quello compilato da Ipparco di Nicea a metà del II secolo a.C. Un’opera incredibile per quell’epoca, nella quale erano catalogate le posizioni e le luminosità di 850 stelle, ma che purtroppo è andata perduta assieme ai 14 libri di osservazione del cielo scritti dall’astronomo di Nicea. Se si eccettua qualche indispensabile aggiustamento in epoca moderna, il criterio introdotto da Ipparco per indicare la luminosità delle stelle, la cosiddetta magnitudine, è quello che viene utilizzato ancora ai nostri giorni. Proprio da quel catalogo, poi, venne una scoperta cruciale: fu infatti dal confronto tra le posizioni che aveva rilevato e quelle riportate dagli astronomi un secolo e mezzo prima che Ipparco ebbe la felice intuizione del moto di precessione degli equinozi.

Prima che qualcuno, ampliando il lavoro di Ipparco, mettesse mano a un nuovo catalogo stellare si dovrà attendere il XVI secolo e l’immensa opera osservativa dell’astronomo danese Tycho Brahe. Il suo catalogo, pubblicato nel 1598, comprendeva mille stelle e la precisione delle loro posizioni sulla volta celeste era di un minuto d’arco, cioè un trentesimo del diametro apparente della Luna piena. Le misurazioni erano sessanta volte più precise di quelle di Ipparco, ma anch’esse erano comunque frutto di osservazioni a occhio nudo. Solamente otto anni dopo la morte di Tycho, infatti, Galileo avrebbe intuito e mostrato le potenzialità astronomiche del suo cannocchiale.

L’irruzione sulla scena del telescopio segnò un poderoso balzo in avanti delle scoperte astronomiche e, conseguentemente, un incredibile ampliamento dei cataloghi stellari. Basti ricordare che il catalogo pubblicato nel 1801 da Jérôme Lalande, direttore dell’Osservatorio di Parigi, comprendeva 50 mila stelle, la cui posizione era stata registrata con una precisione di 3 secondi d’arco.

L’aumento di precisione invogliava a tentare di misurare le parallassi stellari. Con il termine parallasse gli astronomi indicano l’angolo sotto cui, da una stella, viene sotteso il raggio dell’orbita terrestre. In pratica, osservando la stella rispetto agli astri più lontani quando la Terra si trova in punti diametralmente opposti della sua orbita, si riesce a determinare tale angolo e con un semplice calcolo trigonometrico si può risalire alla distanza della stella. Facile a parole, ma davvero complicato nella pratica per le ridottissime ampiezze di tali angoli. Per poter riuscire, per esempio, a rilevare la parallasse di Proxima Centauri – la stella più vicina a noi – dobbiamo infatti essere in grado di misurare un angolo di 0,75 secondi d’arco. Questo spiega perché per la prima misurazione di una parallasse stellare si dovette aspettare il 1838 e la misurazione di Friedrich Bessel della stella 61 Cygni.

Dai telescopi a Hipparcos

Per quanto il telescopio permetta di spingere la precisione osservativa a livelli assolutamente inimmaginabili, per le osservazioni astrometriche bisogna comunque costantemente fare i conti con il fastidioso ostacolo costituito dalla nostra atmosfera e dalla sua inevitabile turbolenza. Se, dunque, l’obiettivo è quello di raggiungere la massima precisione nella determinazione della posizione di un astro sulla volta celeste, è necessario uscire dall’atmosfera. Proprio per perseguire questo ambizioso obiettivo, negli anni Novanta l’ESA ha progettato e condotto a termine la missione del satellite Hipparcos, in assoluto la prima missione spaziale dedicata alla raccolta di dati astrometrici. Al di sotto dell’evidente omaggio al grande astronomo di Nicea, si nasconde l’acronimo per High Precision Parallax Collecting Satellite, cioè satellite per la raccolta di parallassi di alta precisione.

Lanciato nell’agosto 1989, il satellite osservò la volta celeste per tre anni e mezzo, concludendo il suo compito nel marzo 1993. Erano due gli obiettivi da condurre in porto nel corso della missione Hipparcos: da un lato vi era la missione principale, che puntava a raccogliere i dati astrometrici di 100 mila stelle con una precisione di 2 millisecondi d’arco (mas); poi c’era l'esperimento Tycho, che prevedeva sia la raccolta di misure astrometriche, pur con precisione leggermente inferiore, sia le rilevazioni fotometriche in due colori di oltre 400 mila stelle. Quando, nel 1997, vennero pubblicati i due cataloghi apparve evidente come i risultati ottenuti avessero superato ogni attesa.

In particolare, il catalogo Hipparcos costituì per estensione e precisione un enorme passo in avanti rispetto a tutti i precedenti cataloghi ottenuti da osservazioni a terra. Il catalogo contiene le misure di parallasse di 118.218 stelle, determinate con una precisione di 1 mas, praticamente l’angolo sotto il quale si vede una pallina da golf da una sponda all’altra dell’Atlantico. Con il catalogo Tycho, poi, gli astronomi si trovarono a disposizione i dati relativi a 1.058.332 stelle. La precisione era inferiore a quella del catalogo precedente, ma le misure riguardavano gran parte delle stelle comprese entro un raggio di 400 anni luce dal Sole. Una raccolta di dati astrometrici senza precedenti che oggi, solamente vent’anni dopo, rischia di essere brutalmente banalizzata dal fantastico lavoro osservativo di Gaia.

L’irruzione di Gaia

Come Hipparcos, anche Gaia è una missione dell’ESA ed è animata dall’identica preoccupazione di ampliare le nostre conoscenze delle stelle che compongono la Via Lattea. Incredibilmente ambiziosi gli obiettivi che i responsabili della missione hanno voluto darsi. Nel corso dei previsti cinque anni di attività, infatti, Gaia non solo dovrà rilevare la posizione di un miliardo di stelle della Via Lattea (circa l'1% della popolazione complessiva), ma anche il moto di ciascuna di esse intorno al centro galattico. L’avventura di Gaia iniziò il 19 dicembre 2013, con il suo lancio dalla base europea di Kourou (Guiana Francese).

Nel settembre 2016 viene rilasciata la prima serie di dati, raccolti dal satellite tra il 25 luglio 2014 e il 16 settembre 2015 (Gaia DR1). Pur essendo il frutto di poco più di un anno di osservazioni, questi dati sono già in grado di mettere in ombra l’opera di Hipparcos. Il catalogo, infatti, contiene oltre due milioni di sorgenti, delle quali Gaia ha determinato posizione, magnitudine, parallasse e moto proprio, e oltre un miliardo e cento milioni di sorgenti di cui ha rilevato posizione e luminosità. Tra queste sorgenti figurano anche 3.194 stelle variabili (386 nuove scoperte) e 2.152 quasar.

Lo scorso 24 aprile è stata rilasciata la seconda serie di dati (Gaia DR2) e Gaia è riuscita nuovamente a stupire tutti quanti. In essa troviamo i dati fotometrici e di posizione di quasi un miliardo e settecento milioni di sorgenti luminose (1.692.919.135 per la precisione), oltre mezzo miliardo in più rispetto alla DR1. Troviamo inoltre i dati delle parallassi di 1.331.909.727 stelle, raccolti con una precisione senza precedenti: 0,04 mas per le stelle più brillanti. Le misurazioni di Gaia, dunque, sono 25 volte più accurate di quelle effettuate vent’anni fa da Hipparcos. Per avere un’idea di questo valore, proviamo a immaginare come ci potrà apparire una pallina da tennis da 34.500 chilometri di distanza.

«I nuovi dati di Gaia sono così accurati che ci stanno restituendo una panoramica senza precedenti delle proprietà delle stelle che popolano la Via Lattea e grazie ad esse possiamo già individuare indizi interessanti sulla loro storia evolutiva», dice a Media INAF Antonella Vallenari, vicepresidente di DPAC Executive, il Consorzio responsabile dell’analisi dei dati di Gaia. «Stiamo davvero inaugurando una nuova era in quella che potremmo definire l’archeologia stellare galattica.»

Davvero imponente il lavoro di elaborazione su cui si fonda Gaia DR2. Basti pensare che i circa 450 ricercatori ed esperti di software provenienti da venti paesi europei che operano nel DPAC (Data Processing and Analysis Consortium) hanno dovuto processare ben 1,5 milioni di gigabyte. Notevole il coinvolgimento dell’astronomia italiana nel progetto: INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica) vede coinvolte le strutture di Bologna, Catania, Firenze, Napoli, Padova, Roma, Teramo e Torino; ASI (Agenzia Spaziale Italiana) partecipa con lo SSDC (Space Science Data Center) di Roma e con il DPCT, il centro di elaborazione dati di Torino, l’unico tra i sei centri di calcolo europei del Consorzio presente in territorio italiano.

Non solo stelle…

È evidente che i dati stellari facciano la parte del leone nel catalogo di Gaia. Dati che, oltre alle già citate misure di luminosità e posizione, comprendono anche le temperature superficiali di oltre 160 milioni di stelle, le dimensioni di 76 milioni di astri, le curve di luce (cioè la variazione della luminosità nel tempo) di oltre mezzo milione di stelle variabili e l’effetto di oscuramento dovuto alle polveri interstellari su circa 87 milioni di stelle. Potrà sembrare strano, ma non ci sono solo le stelle in DR2.

Gli strumenti di Gaia, infatti, hanno anche rilevato la posizione di oltre 14 mila asteroidi, misure importantissime per definirne al meglio le orbite. Spingendosi poi nelle profondità del Cosmo, Gaia ci ha restituito anche le misure di posizione di mezzo milione di quasar, galassie poste a miliardi di anni luce di distanza rese particolarmente brillanti dall’intensa attività dell’immenso buco nero che alberga nelle loro regioni centrali. Per la prima volta, alle misure di posizione ottenute con osservazioni radio si affiancano ora rilevazioni in luce visibile, con la possibilità concreta, dunque, di poter finalmente creare un affidabile sistema di riferimento celeste.

Non solo stelle, insomma, in questa impressionante marea di dati riversata da Gaia sulle scrivanie degli astronomi. E non è ancora finita. Il satellite, infatti, sta ancora continuando, imperterrito, la sua accurata opera di osservazione e lo farà ancora almeno fino al 2019, data prevista quale termine della missione ufficiale. Questo significa che nel prossimo futuro – si parla dei primi Anni Venti – Gaia ci regalerà un altro fantastico catalogo. Viste le premesse di DR1 e DR2, è lecito attendersi sorprese ancora più entusiasmanti.

 


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