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Un difetto genetico cura l'altro

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La somma algebrica di due difetti genetici che producono effetti opposti può ristabilire la normalità: una mutazione che aumenta in maniera patologica la tendenza del sangue a coagulare, provocando trombosi attraverso un'eccessiva produzione di fattore IX, può quindi aumentare l'efficienza della terapia genica contro l'emofilia B, in cui, al contrario, i meccanismi della coagulazione sono compromessi proprio per carenza dello stesso fattore. L'idea è venuta a Luigi Naldini e ai suoi colleghi dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano, dopo che a Padova è stata appunto descritta una condizione di ipercoagulabilità dovuta a un'eccessiva attività del fattore IX: inserendo questa mutazione nel gene già ottimizzato con altre strategie, i ricercatori sono riusciti, con un solo trattamento, a correggere completamente il difetto negli animali da esperimento.

Un trattamento doppiamente potenziato

Lo studio, pubblicato su Blood, ha permesso di migliorare l'efficienza della terapia genica contro l'emofilia B, su cui si stanno cimentando, con diversi approcci, vari gruppi di ricerca in tutto il mondo. «In condizioni normali tutte le cellule epatiche producono il fattore IX, ma i vettori virali di cui disponiamo per veicolare il gene non possono certo entrare nella totalità delle cellule» spiega Naldini. «Per infettarle in maniera massiccia bisognerebbe somministrare una carica di virus tale da essere pericolosa e scatenare una risposta immunitaria importante. In genere con il trattamento, che consiste in una semplice iniezione endovenosa, si riesce a raggiungere circa il 2-3 per cento delle cellule epatiche. Troppo poco per correggere il difetto». Per aggirare l'ostacolo negli anni scorsi i ricercatori hanno sfruttato una proprietà particolare del meccanismo di traduzione delle proteine, la ridondanza per cui lo stesso aminoacido può essere codificato da più di una tripletta, ma con diversi gradi di espressione. La sintesi della proteina si può quindi triplicare sintetizzando un gene “ottimizzato”, in cui cioè i codoni meno efficienti siano sostituiti da quelli che lo sono di più.

Ma la segnalazione sul New England Journal of Medicine di un caso clinico verificatosi proprio in Italia ha suggerito un'altra via per migliorare ulteriormente l'efficienza del sistema. In quell'articolo Paolo Simioni e i suoi colleghi dell'Università di Padova hanno infatti descritto una mutazione capace di aumentare di circa otto volte la sintesi del fattore IX, tanto da aver provocato una trombosi delle vene profonde degli arti inferiori in un ragazzo di 23 anni senza altri fattori di rischio. «Abbiamo quindi provato a inserire nel nostro gene già “ottimizzato” la mutazione descritta dai colleghi veneti, sostituendo l'arginina 338 con la leucina, come nel fattore IX isolato a Padova, e che con il nome di questa città è ormai famoso tra gli esperti in tutto il mondo» prosegue il ricercatore. «In tal modo abbiamo ulteriormente incrementato la produzione di fattore IX da parte delle cellule epatiche dei topi sottoposti al trattamento, raggiungendo e superando i livelli di coagulazione normali». In realtà, per evitare le emorragie, basterebbe molto meno fattore IX. Aumentare la potenza del trattamento significa quindi soprattutto poter abbassare la carica virale, riducendo i possibili rischi della cura legati all'uso di questo vettori, uno dei punti più scottanti nella realizzazione di una terapia genica sicura ed efficace.

L'importanza del mezzo di trasporto

Quando la terapia genica cominciò infatti a uscire dall'ambito della fantascienza per entrare in quello della ricerca biomedica, l'emofilia sembrava tra le prime malattie candidate a questo tipo di cura: nelle sue varie forme deriva infatti di solito dal difetto di un solo gene ben noto, che codifica per una proteina chiave nella cascata della coagulazione. In teoria, per guarirla, sarebbe bastato quindi fornire all'organismo una versione funzionante di quell'unico gene. Ben presto però le cose non si rivelarono tanto semplici, soprattutto per la difficoltà di portare il materiale genetico all'interno delle cellule. Gli adenovirus, che in un primo tempo sembravano i più adatti allo scopo, furono messi da parte dopo il decesso di un paziente sottoposto alla sperimentazione. Alcuni ricercatori si concentrarono quindi su virus più piccoli e sicuri, gli adenovirus associati. I primi risultati ottenuti in questo modo su sei pazienti (cui in questi mesi se ne sono aggiunti altri due) sono stati soddisfacenti. Come è stato riferito l'anno scorso sul New England Journal of Medicine, un'unica infusione in vena di un gene ottimizzato per produrre fattore IX ha permesso di ottenere livelli di coagulazione sufficienti a sospendere completamente la terapia sostitutiva in quattro casi, e a dilazionarla moltissimo negli altri due. Gli stessi adenovirus associati sono stati utilizzati per portare il gene ottimizzato, e con la mutazione isolata a Padova, nei muscoli di cani naturalmente portatori di emofilia B, in un articolo pubblicato sullo stesso numero di Blood che ha ospitato la ricerca italiana. Secondo i dati riferiti da Jonathan Finn, del Children's Hospital of Philadelphia, il trattamento non ha suscitato una risposta immunitaria evidente negli animali, che nei 5 anni successivi non hanno avuto episodi di sanguinamento. «L'immunità nei confronti dei virus adeno-associati, che non sono patogeni e sono molto comuni, è però molto diffusa» spiega Naldini « il che ne ostacola l'azione in gran parte dei pazienti. Inoltre, questi vettori entrano nel nucleo delle cellule ma non si integrano nel loro DNA, per cui il gene corretto va perso durante i fenomeni di replicazione cellulare». Il gruppo milanese ha optato quindi per agenti di altro tipo, lentivirus che si inseriscono nel DNA dell'ospite, per cui il loro materiale genetico non va perduto nemmeno in caso di rigenerazione del tessuto epatico. Poiché questi virus sono derivati dall'HIV, solo le persone sieropositive vi sono immuni. Inizialmente guardati con sospetto per questa loro parentela pericolosa, per quanto fossero stati privati della componente patogena del virus dell'AIDS, questi retrovirus hanno ormai fugato ogni sospetto legato a questo loro “peccato originale”. «La prudenza tuttavia è comunque d'obbligo perché, inserendosi nella sequenza del genoma, potrebbero comunque teoricamente provocare effetti collaterali indesiderati, per esempio la formazione di tumori, che comunque non sono mai stati osservati» precisa il ricercatore, a capo dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano.

Prima di tutto la sicurezza

I ricercatori hanno ragione a procedere con i piedi di piombo. Dagli anni Settanta l'emofilia viene trattata con una terapia sostitutiva che garantisce una buona qualità di vita, per cui la malattia non è più letale e non sarebbe giustificato quindi correre rischi inutili per trovare un nuovo trattamento, per quanto risolutivo. «La terapia genica tuttavia sarebbe preziosa prima di tutto per quella quota di pazienti che col tempo diventa resistente alla somministrazione del fattore mancante, ma anche per risparmiare a tutti gli altri i vincoli pratici legati alla necessità di sottoporsi per tutta la vita al trattamento» conclude Naldini.

Anche l'aspetto economico non è da trascurare. Il costo della terapia sostitutiva in un adulto emofilico si aggira intorno ai 250.000 euro l'anno. Per quanto sia difficile prevedere oggi quanto potrebbe venire a costare un trattamento di terapia genica, questo, che consiste in un'unica somministrazione endovena, una volta che ne saranno accertate efficacia e sicurezza, potrebbe diventare competitivo anche nei paesi in via di sviluppo.

Blood 2012; 120: 4517- 4520
Blood 2012; 120:4521-4523
Blood 2012; 120: 4452-4453
New Engl J Med 2009; 361:1671-1675
New Engl J Med 2011; 365: 2357-2365


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