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Da Padova contro le patologie del collagene VI

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Anche nelle università italiane, non solo ai National Institutes of Health, succede che esperti di fama mondiale in settori apparentemente disparati lavorino nella stessa struttura su progetti completamente diversi. E che le loro strade così si possano più facilmente incrociare, in modo da potenziare le reciproche competenze. «La cosa avviene solo apparentemente per caso» precisa Paolo Bernardi, professore di patologia generale al Dipartimento di scienze biomediche e sperimentali dell’Università di Padova. «In realtà queste fortunate coincidenze possono accadere solo se si ha la lungimiranza di finanziare centri importanti: in questo modo si semina su terreni fertili, dove esperienze molto specialistiche hanno la possibilità e il gusto di confrontarsi e arricchirsi a vicenda».

A Padova, per esempio, negli anni novanta, Telethon finanziava ricerche di base, senza un’immediata ricaduta clinica, e completamente indipendenti l’una dall’altra.

Paolo Bonaldo, professore di biologia cellulare presso il Dipartimento di biotecnologie mediche, studiava il collagene VI, una componente della matrice extracellulare che lui per primo aveva caratterizzato come forma specifica della proteina e non, come si credeva prima, un prodotto di altre forme di collagene.  In quegli anni, quando produrre topi transgenici era molto più difficile di oggi, aveva ottenuto un grant per creare un animale knock-out per il gene del collagene VI, per studiarne tutte le funzioni.

Al piano di sotto dello stesso edificio lavorava invece Paolo Bernardi, uno dei pionieri e dei massimi esperti al mondo nello studio dei mitocondri, che proprio in quel periodo aveva messo a punto le metodiche per studiare la funzionalità delle centrali energetiche della cellula. «Non solo» aggiunge il ricercatore padovano, «in maniera preveggente ero stato finanziato anche per studiare il ruolo dei mitocondri stessi nella morte cellulare».

Quando il modello animale fu messo a punto, Bonaldo scoprì che l’assenza del collagene VI produceva una condizione riconducibile a una forma lieve di distrofia muscolare chiamata miopatia di Bethlem. Anche altri ricercatori in quegli anni cominciavano a ipotizzare un legame tra il deficit di questa sostanza e questa patologia, ma ancora non si parlava di malattie del collagene VI. Fu solo nel 2002 che un altro gruppo italiano, guidato da Enrico Bertini dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, anche lui col sostegno di Telethon, dimostrò che anche la distrofia muscolare congenita di Ullrich aveva la stessa origine e che queste patologie di diversa gravità dipendevano da difetti genetici differenti, ma accomunati dal fatto di compromettere in varia misura la produzione di questo specifico tipo di collagene.

Bonaldo, quindi, senza ancora sapere che quello che aveva tra le mani era il modello di entrambe queste malattie, notò che le fibre muscolari degli animali esaminate al microscopio elettronico avevano tutte una caratteristica comune: mitocondri dall’aspetto alterato. Cosa fare di più semplice che scendere le scale e chiedere all’esperto del piano di sotto se c’era modo di valutare se, oltre che strutturalmente anomali, questi organuli funzionavano anche male?

«Così cominciò la nostra collaborazione» racconta Bernardi. «Scoprimmo che il danno dipendeva da alterazioni nel flusso di ioni calcio attraverso la membrana dei mitocondri stessi, dovuto a un difetto di funzione di un canale detto Poro di Transizione di Permeabilità (PTP)».

Le stesse anomalie furono dimostrate anche su colture di mioblasti prelevati da alcuni malati, per quanto, rispetto al modello animale, il numero e le caratteristiche delle mutazioni in gioco siano in questo caso molto più complesse. Il difetto si riusciva a correggere in vitro con la ciclosporina A, lo stesso farmaco usato contro il rigetto nei trapianti, per cui a tempo di record i ricercatori italiani riuscirono a partire con uno studio pilota unico al mondo su 5 malati di diverse età e con diverse mutazioni.

Occorreva accertare i possibili rischi legati al trattamento e cercare di identificare un outcome per valutarne l’eventuale efficacia.  Il dato più obiettivo, valutabile a breve distanza di tempo, su pazienti le cui condizioni cliniche erano già parzialmente compromesse, era l’aspetto istologico del tessuto muscolare, ottenuto dal confronto di due biopsie effettuate prima e dopo un mese di cura. «In effetti, dopo così poco tempo il difetto mitocondriale risultava riparato, la morte cellulare diminuiva e si osservava anche un certo grado di rigenerazione delle fibre» racconta il ricercatore padovano.

Visti i risultati positivi, alcuni dei genitori dei bimbi con le forme più gravi, più un paio di altri che sono entrati in seguito nella sperimentazione, hanno proseguito il trattamento più a lungo: «Dopo un periodo variabile da uno a tre anni, abbiamo misurato un aumento della forza degli arti» prosegue Bernardi, «che purtroppo però non basta a contrastare il declino della mobilità dei malati e non interessa il diaframma, il muscolo più importante perché da esso dipende la respirazione». Ed è proprio questo deficit a frenare una sperimentazione più vasta con la ciclosporina, che abbassa le difese immunitarie: unendosi alla scarsa funzionalità respiratoria, il farmaco rischia di provocare complicazioni broncopolmonari gravi o mortali.

«Per questo stiamo cercando di prendere in considerazione altri medicinali come gli inibitori delle ciclofiline, che agiscono su enzimi interni al mitocondrio senza interferire con l’immunità» prosegue il ricercatore.

Un nuovo spiraglio si è poi aperto l’anno scorso con una nuova linea di ricerca condotta da Luciano Merlini, dell’Università di Ferrara, ancora una volta grazie al sostegno di Telethon e sempre partendo da una scoperta di Bonaldo: l’osservazione che nei muscoli di chi soffre di patologie del collagene VI, oltre all’alterata funzione dei mitocondri, è compromesso il meccanismo di controllo dell’autofagia. Questo processo, che normalmente rimuove e digerisce gli organuli alterati, interviene anche per alimentare la cellula con alcune delle sue stesse componenti quando vengono a mancare sostanze nutritive dall’esterno.

«E’ un fenomeno al centro dell’attenzione di molti gruppi di ricerca in questo momento» commenta Bernardi, «perché, al di là di queste malattie rare, è coinvolto nella genesi delle malattie neurodegenerative, cardiovascolari e neoplastiche: un ulteriore esempio di come dallo studio delle malattie rare possono emergere dati preziosi anche per condizioni di grande impatto sociale». 

Nel modello animale delle malattie del collagene VI, il difetto dell’autofagia determina l’accumulo di organuli alterati, che spingono la cellula verso l’apoptosi e conducono quindi all’atrofia muscolare. Paolo Grumati, anche lui dell’Università di Padova, e Luisa Coletto, dell’Istituto Veneto di medicina molecolare, hanno dimostrato su Nature Medicine che il digiuno prolungato o una dieta particolare a basso contenuto di proteine, così come alcuni farmaci, tra cui la rapamicina e la ciclosporina stessa, riescono a ristabilire l’autofagia e salvare i tessuti.

«E’ ancora presto per parlare di una cura efficace» ci tiene a puntualizzare Bernardi, «ma ogni nuovo meccanismo che viene alla luce offre nuove prospettive terapeutiche. Ecco perché, come ripeto sempre, non esistono malattie incurabili: studiandole a fondo si può sempre trovare il loro punto debole».


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