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Braccio di ferro con la talassemia

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Non è solo per effetto delle trasfusioni che i talassemici accumulano troppo ferro:  il difetto genetico nella formazione delle catene dell’emoglobina stimola infatti l’organismo ad assorbire una quantità del metallo maggiore  del dovuto, nel tentativo di ovviare alla difficoltà di produrre i globuli rossi. L’encomiabile sforzo, tuttavia, risulta alla fine controproducente, e l’eccesso di ferro finisce col creare solo danni. Logico quindi cercare di ridurlo, molto meno scoprire che in tal modo si può paradossalmente migliorare anche l’anemia. «L’effetto è probabilmente dovuto al fatto che, in carenza di ferro, la produzione di catene beta e alfa dell’emoglobina risulta meno squilibrata, per cui la cellula si sviluppa  meglio e vive più a lungo» spiega Clara Camaschella, dell’Istituto Scientifico San Raffaele – Università Vita e Salute di Milano, che insieme al suo gruppo ha descritto, in uno studio apparso l’anno scorso su Blood e sostenuto da Telethon, l’inatteso risultato, frutto di osservazioni  che risalgono indietro negli anni.

«Al centro del metabolismo omeostatico che regola l’assorbimento del ferro c’è una piccola proteina, l’epcidina, scoperta un po’ per caso nel corso di una ricerca di altro tipo: modelli animali in cui era stato inattivato un certo gene avevano inaspettatamente il fegato nero, pieno di ferro» racconta la ricercatrice. «Questo accadeva perché, insieme con il bersaglio dell’esperimento, era stato messo knock out anche un gene adiacente, quello che appunto venne presto identificato come codificante l’epcidina, una molecola che frena l’assorbimento del minerale. E lo frena chiudendogli in un certo senso le porte in faccia, degradando cioè la ferroportina, la molecola che, come dice il suo nome, fa da tramite per il ferro dal lume intestinale al circolo sanguigno». La mancanza di epcidina, quindi, spalancava le porte all’ingresso del ferro.

Nel 2003, con il sostegno di Telethon, i ricercatori italiani guidati da Clara Camaschella, in collaborazione con colleghi greci, cominciarono a gettare luce su questa molecola anche nell’uomo, scoprendo che un suo deficit genetico era alla base di una rarissima forma di emocromatosi giovanile, in cui si verificava fin dall’infanzia un importante accumulo di ferro in diversi organi. Le forme di emocromatosi che compaiono in età adulta, le più frequenti, si manifestano invece con diversi gradi di gravità che dipendono da un altro difetto genetico, cui si sommano fattori ambientali. Anche in tutte queste comunque la produzione di epcidinaè nsufficiente.

«Le forme giovanili, di per sé già molto più rare, sono ulteriormente eterogenee tra loro dal punto di vista genetico» spiega la ricercatrice. «Per quanto le manifestazioni cliniche siano sovrapponibili, alcune famiglie, diverse dalle due da noi esaminate in quel primo studio, presentano infatti mutazioni di un’altra proteina, detta emojuvelina, che a sua volta attiva l’epcidina: la sua mancanza, quindi, si traduce comunque in un deficit di epcidina».

Una faccenda complicata, resa ancora più complessa dalla scoperta effettuata qualche anno dopo dallo stesso gruppo di ricerca italiano: «Nel 2008 abbiamo descritto su Cell Metabolism il meccanismo per cui all’accumulo di ferro consegue un’attivazione dell’epcidina e viceversa» prosegue l’esperta, che è ormai diventata un punto di riferimento a livello internazionale in questo campo. «Nel fenomeno interviene un’altra molecola ancora, la matriptasi 2, in sigla TMPRSS6 , che agisce come un paio di forbici “tagliando” e quindi inattivando l’emojuvelina che si trova sulla superficie delle cellule epatiche». Riducendo l’emojuvelina impedisce l’attivazione dell’epcidina, e il ferro entra a volontà.

La controprova di questo fenomeno viene da un modello animale e da una rara malattia umana caratterizzata da un’anemia refrattaria al ferro: se il gene che codifica per  queste “forbici” che tagliano via l’eccesso di emojuvelina è mutato e quindi non funzionante, il meccanismo dell’epcidina non ha più freni, degrada tutte le porte cellulari per l’ingresso del ferro e, per quanto se ne assuma per bocca, il minerale non ha modo di entrare nel circolo sanguigno.

«Allora abbiamo pensato: se questo inibitore è alla base di tutta la catena di eventi che porta all’assorbimento del ferro, perché non provare a eliminarlo, per ristabilire una barriera a questo assorbimento, quando questo è eccessivo come nell’emocromatosi e nella talassemia?» aggiunge Camaschella. Lo studio su Blood dell’anno scorso, frutto di una collaborazione con il TIGET (Telethon Institute for Gene Therapy), lo ha confermato: «In un modello animale di talassemia, se al difetto genetico per la produzione dell’emoglobina si aggiunge quello per la matriptasi 2, la sintomatologia migliora nettamente» continua Camaschella ; «la via metabolica dell’epcidina, che nei talassemici mai trasfusi è tenuta a bada nel tentativo di assorbire più ferro, tolta la matriptasi 2, torna a funzionare, frenando l’accumulo di ferro, ma anche migliorando l’anemia».

Dall’osservazione casuale di laboratorio, allo studio di due famiglie con una forma particolarissima di una malattia di per sé già rara, si è così arrivati alle prospettive di applicazione terapeutica in una condizione genetica come la talassemia, classificata nell’ambito delle malattie rare ma che, soprattutto in alcune zone, non lo è così tanto. Solo in Italia colpisce infatti circa 7.000 persone.

«Due gruppi di ricerca hanno recentemente pubblicato, rispettivamente su Blood e sul Journal of Clinical Investigation, due possibili approcci farmacologici per bloccare il gene della matriptasi 2, in modo da ridurre l’apporto di ferro e migliorare le condizioni dei pazienti con troppo ferro» spiega Camaschella, chiamata a  commentare questi lavori sulle pagine del New England Journal of Medicine. «Gli uni usano oligonucleotidi antisenso, gli altri silencing RNA veicolati da liposomi che li trasportano direttamente al fegato: in entrambi i casi l’epcidina sale e il ferro scende. Nei modelli di talassemia, l’anemia migliora».

Certo, rispetto ai salassi utilizzati nelle emocromatosi o alla terapia chelante per la talassemia, questo approccio terapeutico ha un limite: previene l’accumulo di ferro, ma non lo può asportare dall’organismo quando già esistente. «Per questo, quando inizieranno le sperimentazioni sui pazienti, il trattamento si potrà applicare solo a quelli che non hanno ancora ricevuto trasfusioni» ci tiene a precisare la ricercatrice.

Ma la storia non finisce qui: l’epcidina agisce anche come antibatterico e interviene nei meccanismi dell’infiammazione. Forse anche per questo sta attirando l’attenzione di molti ricercatori, impegnati su fronti molto diversi, dall’aterosclerosi alle malattie degenerative cerebrali. Per cui non si può escludere che la vicenda di questa molecola, scoperta per caso, studiata in malattie molto rare, applicata a condizioni che lo sono un po’ di meno, non arriverà un giorno a toccarci tutti più da vicino. Roberta Villa


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