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Bennu, l’asteroide inaspettato

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Bennu

A differenza di quanto si riteneva, la superficie di Bennu è molto tormentata e costellata di numerosi massi. Appare oltremodo evidente già in questa immagine raccolta dalla sonda OSIRIS-REx lo scorso dicembre, appeno giunta nei pressi dell’asteroide. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona

Settimana da protagonista per l’asteroide (101955) Bennu, dallo scorso dicembre esaminato e studiato da vicino dalla sonda OSIRIS-REx della NASA. Sono ben sette, infatti, gli studi riguardanti questo piccolo corpo celeste (circa mezzo chilometro di diametro) pubblicati sulla rivista Nature, ai quali dobbiamo aggiungere almeno una dozzina di interventi presentati nel corso di una sessione speciale della 50th Lunar and Planetary Science Conference tenutasi dal 18 al 22 marzo a The Woodlands, in Texas.

Problema inatteso

Bennu era nel mirino degli astronomi prima ancora che OSIRIS-REx iniziasse la sua missione e per alcune delle sue caratteristiche individuate nel corso di quella intensa campagna osservativa si riteneva ci fossero pochi dubbi, tanto da impiegarle come riferimento nella progettazione dei vari momenti della missione. Dallo scorso dicembre, però, possiamo contare sulle immagini raccolte direttamente dalla sonda nelle immediate vicinanze dell’asteroide e questo ha mescolato non poco le carte in tavola. La superficie di Bennu, infatti, si è mostrata molto più sassosa e irregolare del previsto, costellata da un gran numero di massi di ogni dimensione.

Come sottolineano Dante Lauretta, ricercatore del Lunar and Planetary Laboratory e principal investigator della missione, e i suoi collaboratori nell’articolo pubblicato su Nature, in contrasto con i modelli ipotizzati prima dell’incontro basati sull’inerzia termica di Bennu e sui dati di polarizzazione radar che indicavano una superficie generalmente liscia ricoperta da particelle delle dimensioni dell’ordine di centimetri, le immagini ad alta risoluzione hanno mostrato una inattesa diversità superficiale.

Scorcio del margine dell'emisfero meridionale di Bennu dal quale risultano evidenti la quantità e la distribuzione dei massi sulla sua superficie. L'immagine è stata ottenuta il 7 marzo dalla fotocamera PolyCam da una distanza di circa 5 km. Il grande macigno chiaro appena sotto il centro dell'immagine è largo circa 7 metri e mezzo, la metà della larghezza di un campo da basket. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona

Molto chiare, a tal proposito, le parole di Maurizio Pajola, astronomo dell’INAF di Padova e membro dell’OSIRIS-REx Team, in un’intervista rilasciata a Media INAF: «Abbiamo visto che la sua superficie è caratterizzata da una miriade di massi di svariate dimensioni. Prima dell’arrivo a Bennu, le osservazioni radar fatte da Terra tra il 1999 ed il 2012 avevano indicato che avremmo trovato un unico masso di dimensione non superiore ai 10 metri. In realtà, grazie alle immagini in alta risoluzione acquisite dallo strumento PolyCam di OSIRIS-REx, abbiamo misurato questo masso scoprendo che è lungo 56 metri. In aggiunta, abbiamo scoperto che ci sono altri 3 massi con dimensioni che superano i 40 metri e una densità per chilometro quadrato di più di 200 massi grandi 10 metri.»

Il guaio è che questa inaspettata rugosità superficiale potrebbe mettere a rischio il regolare proseguimento della missione. Una delle operazioni cruciali per OSIRIS-REx, prevista per la fine di luglio 2020, sarà quando la sonda, dopo aver attentamente valutato la località più adatta, si abbasserà fino a toccare la superficie di Bennu per raccogliere un campione dei suoi materiali superficiali. Nel marzo del 2021, quando si aprirà la cosiddetta finestra di volo per intraprendere il viaggio di ritorno, OSIRIS-REx lascerà Bennu e punterà verso la Terra portando con sé quel preziosissimo carico. L’arrivo è previsto nel settembre 2023, dunque dopo altri due anni di volo interplanetario.

Dal successo della delicatissima fase di raccolta dei campioni, nota come TAG (Touch-And-Go), dipende dunque il raggiungimento di uno degli obiettivi della missione, ma la sassosa superficie di Bennu rischia di complicare notevolmente le cose. Nell’articolo su Nature, Lauretta e collaboratori sottolineano come l'albedo, la consistenza, le dimensioni delle particelle e la ruvidità della superficie vadano al di là delle specifiche di progettazione del veicolo spaziale e questo comporterà una attenta revisione dei piani di missione. I dati acquisiti finora, sottolineano i ricercatori, ci hanno mostrato solo un piccolo numero di regioni apparentemente prive di rischio: regioni potenzialmente abbordabili, ma con dimensioni comprese tra i 5 e i 20 metri. Peccato, però, che i progetti iniziali valutassero che il sito di acquisizione dei campioni dovesse essere di una cinquantina di metri. Il campionamento di Bennu in regioni di dimensioni così ridotte pone dunque una sfida sostanziale al successo della missione e obbliga il team di OSIRIS-REx a rivedere le procedure.

Conferme e grosse sorprese

La scoperta che ha maggiormente sorpreso gli astronomi (Lauretta l’ha definita una delle sorprese più grandi della sua carriera scientifica) è sicuramente l’individuazione di getti di polveri emessi dalla superficie di Bennu, una presenza che, fortunatamente, non mette a repentaglio l’integrità di OSIRIS-REx. Non si è trattato di una presenza occasionale: individuati per la prima volta all’inizio di gennaio, quando la sonda si trovava a un chilometro e mezzo dall’asteroide, quei getti polverosi sono stati infatti osservati anche nei due mesi successivi. La caratteristica più interessante rilevata dai ricercatori del team di OSIRIS-REx è che, mentre molte particelle di polvere proiettate dall’asteroide nello spazio circostante si disperdono definitivamente, ne sono state rintracciate alcune che orbitavano intorno a Bennu proprio come satelliti prima di ritornare nuovamente sulla superficie dell'asteroide. Si tratta in assoluto della prima volta che si osserva da vicino questo interessante fenomeno e da gennaio viene tenuto costantemente sotto controllo per scoprire i possibili meccanismi che sono alla sua origine.

Questa immagine delle particelle espulse dalla superficie dell'asteroide Bennu risale al 19 gennaio ed è stata creata combinando differenti riprese dello strumento NavCam 1 a bordo di OSIRIS-REx. Nell’immagine sono state sovrapposte una ripresa a breve esposizione (1,4 ms) che mostra nitidamente l'asteroide e una ripresa a lunga esposizione (5 sec) che permette di vedere chiaramente le particelle. Crediti: NASA/Goddard/University of Arizona/Lockheed Martin

Un secondo aspetto di Bennu emerso da questi tre mesi di osservazione ravvicinata è la sua reale struttura interna. Più che di sorpresa, però, dobbiamo parlare di conferma, visto che era ormai quasi certo che la struttura di Bennu fosse quella di un asteroide rubble pile. Con questo termine (letteralmente, mucchio di macerie) si indica una struttura non monolitica, ma costituita da frammenti di ogni dimensione tenuti assieme dalla forza di gravità. Come evidenziato dallo studio di Olivier Barnouin (Johns Hopkins University) e collaboratori pubblicato su Nature Geoscience, l’analisi della sua forma e della presenza massiccia di macigni sulla sua superficie unita al preciso calcolo della sua densità media, reso possibile dalla conoscenza esatta della sua massa e del suo volume, hanno dato la conferma della sua struttura interna, caratterizzata da una macroporosità intorno al 50%.

Il modello che i ricercatori hanno ricavato indica che, come è per altri asteroidi a forma di trottola, Bennu si è formato per accumulazione dei detriti dispersi in occasione di un impatto tra asteroidi avvenuto nella Fascia principale e solo in epoche successive è stato dirottato nei paraggi della Terra. Nel suo passato vi sono periodi caratterizzati da una veloce rotazione che hanno portato alla migrazione della ghiaia superficiale e alla formazione di una pronunciata cresta in corrispondenza dell’equatore, successivamente erosa dagli impatti e da alterazioni superficiali probabilmente indotte da fenomeni termici.

Per finire, accenniamo alla precisa rilevazione del regime di rotazione di Bennu ottenuta da Carl Hergenrother (Lunar and Planetary Laboratory) e collaboratori e pubblicata su Nature Communications. Già si sapeva che questo asteroide poteva essere soggetto all’azione del cosiddetto effetto YORP (detto per esteso, effetto Yarkovsky - O'Keefe - Radzievskii - Paddack), cioè l’azione che differenti fenomeni, quali l’irraggiamento del calore assorbito dal Sole o le differenti albedo superficiali o la stessa irregolarità della forma, possono esercitare sullo stato di rotazione di un piccolo asteroide, ma le osservazioni rese possibili da OSIRIS-REx hanno tolto ogni dubbio.

Secondo le stime di Hergenrother, ogni giorno Bennu sta accelerando la sua rotazione di circa 4 milionesimi di grado – praticamente, ogni 100 anni la sua giornata si accorcia di un secondo – e questa accelerazione non è frutto di fenomeni occasionali, ma si tratta di qualcosa di stabile. Può sembrare un’inezia, ma questo comporta che, sul lungo periodo, cioè su tempi scala dell’ordine di alcuni milioni di anni, la superficie di Bennu potrebbe essere portata ai limiti della sua stabilità. Tali tempi, tuttavia, sono molto più brevi rispetto all'età apparente di Bennu, stimata in non meno di 100 milioni anni, il che suggerisce che l'accelerazione YORP sia cambiata nel corso del tempo, probabilmente a causa dei mutamenti nell'orbita di Bennu o nella sua stessa forma. Altro chiaro indizio che la storia di questo piccolo asteroide nasconde ancora un bel po’ di segreti.

 


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