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Ecco come frenare la “folle” corsa del cancro

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E’ una storia questa che ha inizio negli anni ’90 quando Alberto Mantovani, oggi direttore scientifico Humanitas, scopre la molecola Ptx3: una proteina, appartenente a una nuova famiglia di pentrassine.
Da quel momento Mantovani ha incominciato a studiare ogni aspetto di questa proteina: dalla sua prima applicazione nelle diagnosi, alla scoperta del suo ruolo nelle infezioni contro il batterio Aspergillus fumigatus, al ruolo nella risposta immunitaria.
Le ricerche, poi, si sono concentrate su com'è fatto Ptx3: nel 2010 è stato clonato il gene e studiata al computer la sua struttura. Studi che hanno portato a capire che Ptx3 svolge la propria funzione nella fase infiammatoria interagendo con un'altra proteina, la P-selettina, espressa dalle cellule endoteliali in presenza di uno danno tissutale o di uno stimolo infiammatorio. Mediante l'interazione con la P-selettina, la Ptx3 rallenta e limita l'infiltrazione dei leucociti nel sito infiammato, agendo localmente per ridurre il loro reclutamento e regolando in tal modo la risposta infiammatoria. Oggi, tutti questi tasselli hanno permesso di scoprire un nuovo ruolo a questa proteina: il “vecchio” Ptx3 è capace anche di “frenare” il cancro, comportandosi come un oncosoppressore.
La ricerca, appena pubblicata sulla prestigiosa rivista Cell, è stata coordinata da Alberto Mantovani, il “padre scientifico” di questa proteina.

Alberto Mantovani, il suo studio dimostra, per la prima volta, che Ptx3 frena la formazione del cancro, come ci riesce?
Ptx3 è un antenato funzionale degli anticorpi. Questa molecola, in molti organismi, svolge un ruolo essenziale per la resistenza ad alcuni patogeni. Ora abbiamo capito che si comporta anche come oncosoppressore.
Dobbiamo pensare alla cellula tumorale come un automobile lanciata ad alta velocità, cui l’acceleratore è sempre schiacciato (gli oncogeni sono sempre attivi) e i freni (gli oncosoppressori) sono rotti. Ecco Ptx3, in alcuni tipi di tumore, attraverso un meccanismo di metilazione sul proprio promotore, viene spento precocemente. Questo spegnimento determina l’attivazione di una cascata di mediazione dell’infiammazione detta complemento.
A questo punto il tumore può reclutare dei “poliziotti corrotti”, i macrofagi, che promuovono la crescita e l’instabilità genetica.
E’ importante ricordare sempre che la difficoltà nel sconfiggere il cancro sta proprio nel fatto che è un bersaglio mobile, tutte quelle azioni che provocano mutazioni rendono il tumore un nemico invincibile. Ptx3, in questo meccanismo, agisce non all’interno della cellula tumorale ma sulla nicchia infiammatoria, un microambiente nel quale il cancro cresce e prolifera.

La nicchia infiammatoria ovvero il settimo sigillo…
Nel 2000, Hanahan e Weinberg su Cell descrivevano sei differenti caratteristiche che contraddistinguono la cellula tumorale: perdita dell'apoptosi, auto-sufficienza nei segnali di crescita, non sensibilità ai segnali di non crescita, invasione tessutale e metastasi, potenziale replicativo senza limiti, angiogenesi sostenuta. Nel 2009 su Nature insieme ai miei collaboratori abbiamo pubblichato una review dove aggiungevamo l’inflammatory microenviroment, il settimo sigillo. L’ambiente infiammatorio è pro-mutageno: l’infiammazione cronica permette di fatto una grande produzione di radicali liberi, quindi promuove l’impermutabilità cellulare.
Per moltissimi anni, l’unico obiettivo per curare il cancro è stato quello di distruggere le cellule tumorali. Noi abbiamo ipotizzato che una modulazione del microambiente infiammatorio dell’ospite possa offrire un’importante prospettica terapeutica. Aver compreso, quindi, il ruolo di Ptx3 ci permetterà di sviluppare nuovi e innovativi scenari di cura.

La molecola Ptx3 era già candidata al trasferimento al letto del paziente. Oggi, questa nuova scoperta fornisce un ulteriore motivo per attivare una sperimentazione clinica di Ptx3 contro i tumori, quali saranno i prossimi passi?
Stavamo testando, già, Ptx3 come potenziale farmaco per impedire le infezioni da Aspergillus nei pazienti affetti da tumore e con le difese immunitarie compromesse.  Ora cercheremo di capire, innanzitutto, i meccanismi alla base della metilazione del promotore del gene di Ptx3 e poi attiveremo una sperimentazione clinica contro i tumori. Contiamo di andare in clinica entro la fine di quest’anno, al massimo all’inizio del 2016.

Questa scoperta ribadisce, ancora una volta, il ruolo del nostro sistema immunitario nel contrastare il cancro. Ci sono voluti però oltre quaranta anni e la certificazione della copertina di Science per affermare l’importanza dell’immunoterapia oncologica, a che punto siamo?
Quello che stiamo vivendo negli ultimi 15 anni è, per me, l’avverarsi di un sogno. Un sogno cominciato con i padri fondatori dell’immunologia che avevano immaginato di adoperare la carta del sistema immunitario contro il cancro.
Si è cominciato a utilizzare anticorpi contro il cancro negli anni ’90, grazie alle tecnologie degli anticorpi monoclonali. Oggi per diverse forme di tumore, come quelli di mammella, colon-retto, leucemie e linfomi sono ormai terapie consolidate. Utilizziamo il vaccino per l’epatite B per prevenire alcuni tipi di cancro del fegato. “Parole” che erano a esclusivo uso degli immunologi, oggi vengono usate anche dagli oncologi.
Le citochine, ad esempio, vengono adoperate per rimediare ai danni della chemioterapia; oppure, come nel caso dell’interferone o l’interleuchina 2, utilizzate nella terapia contro il melanoma. Ma soprattutto abbiamo capito che alcuni tumori “addormentano” il sistema immunitario. Strategie in grado di risvegliare i nostri anticorpi ci permetteranno di sviluppare strategie cliniche più efficaci.
Ma dobbiamo lavorare anche sui “poliziotti corotti”. Ci sono infatti delle cellule del sistema immunitario che non solo non contrastano il cancro, ma lo aiutano. Uno studio italiano su Cancer Cell ha dimostrato l’utilità della trabectedina, un farmaco che elimina i macrofagi “corrotti”, nella cura dei tumori dell’ovaio e dei sarcomi. Oggi possiamo contare, poi, su  grandi progressi nella capacità di “rieducare” o ingegnerizzare i linfociti contro il cancro. Fra i progetti più promettenti c’è anche uno studio sui linfociti NK  contro le leucemie e i linfomi, che vede la collaborazione di alcuni fra i maggiori centri pediatrici italiani.
Stime delle più importanti case farmaceutiche dicono che nei prossimi 4 anni quasi il 60% dei farmaci sviluppati per curare il cancro saranno costituiti da molecole a base immunologica.

Questa sua ultima ricerca è stata possibile grazie al 5x1000 dell’Airc. Quanto sono importanti le charities per la ricerca italiana?
Charities come Airc, Telethon, Fondazione Cariplo hanno tenuto insieme il sistema della ricerca del nostro Paese. Hanno costituito un sistema affidabile e meritocratico. Mi piace ricordare come senza il 5x1000 di Airc non avremmo potuto trasferire in clinica alcune delle nostre scoperte. La generosità della gente, fatta attraverso l’acquisto di arance o azalee, ci dimostra come le persone credono nel lavoro di noi ricercatori.

Cosa manca alla ricerca biomedica italiana?
Innanzitutto si investe poco. Siamo lontani dai budget che altri governi dedicano alla ricerca in campo biomedico. Ci troviamo in un sistema scarsamente meritocratico e flessibile, che ha pochi rapporti col mondo industriale. Non riusciamo a focalizzare i nostri sforzi e a premiare i nostri giovani.
Quest’ultimo aspetto è quello che mi fa più male perché di giovani e promettenti ricercatori nel nostro Paese ce ne sono tanti come dimostrato i grant Erc che otteniamo ogni anno. Ma, poi, a causa delle strutture e della troppa burocrazia sono costretti a sviluppare i propri progetti lontano dall’Italia. Ecco, la nostra speranza sono proprio le nuove leve ma dobbiamo, prima, eliminare i lacci e lacciuoli che tengono ancorata la ricerca italiana. 

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