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Ebola visto da vicino | Il primo impatto

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“Fin dall’arrivo in aeroporto si vedono segnali e cartelli che spiegano cosa fare per evitare il contagio di Ebola e per riconoscerne i sintomi. Sono illustrati, perché qui molta gente non sa leggere, e le vignette mostrano il vomito e la diarrea sparsi direttamente al suolo: probabilmente se si mostrasse una latrina il messaggio non sarebbe credibile.”

Così Roberto Satolli, medico e giornalista, direttore editoriale di Scienza in rete, mi descrive il suo arrivo in Sierra Leone. Si trova lì con un obiettivo ambizioso: “Insieme a Emergency, all’Istituto Spallanzani e all’IRCCS di Reggio Emilia, stiamo cercando di mettere in piedi un trial clinico per testare l’efficacia di un possibile trattamento contro Ebola. Si basa su un farmaco, l’amiodarone, noto da mezzo secolo in ambito cardiologico, che ha mostrato quest’anno una forte attività contro l’ingresso del virus nelle cellule umane: In sostanza blocca l’endocitosi, ma non è ancora mai stato testato clinicamente per questo scopo,” mi racconta via Skype. “All’inizio ero stato coinvolto per valutare l’ipotesi di un trattamento compassionevole dal punto di vista etico. Poi, discutendone con Gino Strada, Giovanni Apolone, Giuseppe Ippolito e altre persone coinvolte nel progetto, ci siamo convinti che era necessario uno studio controllato e randomizzato. E personalmente mi sono reso conto che, per poter coordinare efficacemente alcuni aspetti della sperimentazione, era necessario essere presente sul posto.”

Già, il posto. Roberto mi conferma quello che aveva già raccontato qualche giorno fa a Radio 3 Scienza: “Venire qui mi ha fatto capire quanto sia reale il problema e quanto la situazione sia diversa da quella che ci immaginiamo.”
Di Ebola si parla molto, ma non sempre in maniera equilibrata. L’attenzione dedicata dai media ai casi di occidentali colpiti dalla malattia è infatti sproporzionata rispetto a quella riservata alla situazione in Africa. Nel solo mese di ottobre, più di 21 milioni di tweet sono circolati negli Stati Uniti, mentre Guinea, Sierra Leone e Liberia insieme non hanno raggiunto i 14 mila. Una differenza che non può essere attribuita solo alla diversa connettività. Gregg Mitman, sul New England Journal of Medicine, parla di ecologia della paura per sottolineare come i timori e la percezione del rischio varino a seconda delle condizioni “ambientali”. Nell’immaginario occidentale, l’Africa (nella sua interezza) è la culla di malattie letali come la malaria e la febbre gialla, ed Ebola non è che l’ultima arrivata in questa pericolosa e misteriosa famiglia. L’idea che una di queste malattie esotiche possa varcare i confini del Continente Nero e raggiungere le città dell’Occidente suscita molta inquietudine, più di quanta ne provochino altre malattie da noi più note.

Ma come vivono questo dramma gli abitanti della Sierra Leone?
“Devo dire che la paura c’è ma non è così palpabile come mi sarei immaginato,” racconta Roberto. “Di giorno non si vede molta gente in giro ma ci sono comunque negozi e botteghe aperte e la sera, quando fa meno caldo, l’ambiente si vivacizza. Certo, le cose sono cambiate. Mi dicevano che prima dell’epidemia c’erano molti piccoli bar e locali che poi sono stati chiusi per ragioni di sicurezza. I supermercati però sono aperti e c’è gente che compra; all’ingresso c’è sempre una persona accanto a un grosso contenitore di acqua candeggina, che ti invita a lavarti le mani e poi ti misura la temperatura con il termometro a pistola. Nel giro di una giornata mi misurano la temperatura almeno quattro o cinque volte.”
Posti di blocco con amuchina e termometro, a volte istituiti dal governo a volte, come accade nei piccoli villaggi, autorganizzati. Cartelli ovunque. Un clima surreale ma nel quale la vita continua. E la diffidenza nei confronti degli occidentali? “Io non l’ho percepita,” mi risponde Roberto. “Né diffidenza né ostilità. Anche certi sospetti sembrano calati. Ho sentito di persone convinte che negli ospedali ti uccidessero con punture al cuore, ma ora voci simili – almeno nei pochi giorni che ho fatto finora – sembrano sparite.”

Resistono, a quanto pare, le teorie cospirazioniste. Da chi sostiene che Ebola è in realtà una bio-arma sviluppata dagli Stati Uniti a chi ci vede lo zampino delle case farmaceutiche, con lo scopo di lucrare su un futuro vaccino. “È girato molto il sospetto che fosse un complotto del governo per ottenere aiuti,” mi conferma Roberto. “C’è anche da dire una cosa, nel valutare l’impatto della paura in questi luoghi,” conclude prima di tornare al lavoro. “Qui c’è un rapporto molto diverso con il rischio e con la morte. Teniamo presente che in Sierra Leone c’è un 30-35% di prevalenza della malaria, che sta uccidendo molte più persone di Ebola.
Un ragazzo che fa le pulizie nella residenza dello staff di Emergency è arrivato stamane e ha raccontato, senza piangere, che sua sorella di 22 anni è morta ieri di parto, probabilmente la maggior causa di morte precoce fra le donne, da queste parti. Sicuramente il modo in cui vengono affrontate queste tragedie è ben diverso da quello di chi vive in ambienti molto più protetti dal punto di vista delle malattie infettive.”

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