Le piante hanno un’intelligenza? Parrebbe proprio di sì, a giudicare dal programma della nuova edizione di Evolution Day dedicata appunto al variegato mondo dei vegetali e alla loro “intelligenza” (Milano, Museo di storia naturale, 10-12 febbraio. Scienzainrete farà la diretta streaming dell'evento). Nel panel internazionale dei relatori spicca il finlandese Ilkka Hanski, probabilmente il più grande ecologo vivente (oltre ad altri premi, si è aggiudicato il prestigioso premio Balzan, vedi la pagina dedicata). La sua fama è legata soprattutto ai suoi ventennali studi sulle farfalle Melitaea cinxia nelle isole Åland della sua amata Finlandia, con i quali è riuscito a dimostrare parecchie cose interessanti: come il fatto che il consumo di suolo e la frammentazione degli habitat, tipici delle nostre società avanzate, siano le prime cause della riduzione della biodiversità animale e vegetale. E come, fra le altre cose, la perdita di biodiversità si stia ripercuotendo anche sulla nostra salute. Lo abbiamo intervistato per L’espresso e Scienzainrete.
Professore, è d’accordo con il titolo di Evolution Day di quest’anno? Le piante sono davvero intelligenti?
Noi umani tendiamo a definire l’intelligenza a nostra immagine e somiglianza, e questo fa sì che la distanza fra noi e gli altri esseri appaia incolmabile. In realtà c’è chi sostiene che tutti gli organismi viventi abbiano una loro forma di consapevolezza e intelligenza. Ciò che la scienza può dire è che tutti gli organismi, essendo un prodotto dell’evoluzione, sono “intelligenti”, almeno nel senso che essi sono stati capaci di adattarsi al loro ambiente.
Nella sua lezione parlerà anche di biodiversità ed estinzioni. E’ vero che probabilmente ci troviamo nel pieno di una sesta estinzione di massa?
Le cinque estinzioni di massa del passato (l’ultima è stata nel Cretaceo 65 milioni di anni fa, quando si sono estinti anche i dinosauri) si definiscono tali perché in quei periodi si calcola che si siano estinte almeno il 50% delle specie. Non è possibile confrontare quelle estinzioni massive con quella attuale, la nostra è molto più lenta: la quinta estinzione di massa, per esempio, è probabilmente stata innescata istantaneamente dalla collisione devastante di un enorme meteorite, anche se poi si è manifestata appieno in un lungo periodo di tempo. L’estinzione di massa che stiamo vivendo oggi – la prima provocata dall’uomo - è cominciata alcune decine di migliaia di anni fa con la scomparsa della megafauna in molti continenti, e da allora l’estinzione non ha fatto che accelerare fino a oggi e sta ancora crescendo. Il tasso di estinzione delle piante è ancora più elevato di quello degli animali.
Quanto elevata?
Il tasso attuale di estinzione si aggira sull’1% delle specie in 100 anni. Ma è probabile che cresca fino al 10-20% verso la fine del secolo. E potrebbe essere ancora più alto se si continuerà a distruggere vaste porzioni di foresta tropicale e barriere coralline come si sta facendo ora.
Che rischi comporta una riduzione così marcata della biodiversità?
Ormai è chiaro che il nostro benessere complessivo dipende totalmente dall’ambiente: dall’acqua e dall’aria pulite, dal suolo fertile, da quantità sufficienti di cibo, solo per citare alcuni aspetti della qualità ambientale. La perdita di biodiversità è un campanello d’allarme particolarmente importante del degrado ambientale. Non prestare attenzione a questo segnale può esporci a rischi altissimi, poiché nello stato dell’ambiente vi sono dei punti di non ritorno (tipping point) superati i quali certi peggioramenti (anche catastrofici) diventano permanenti. E’ un po’ lo stesso ragionamento che si fa con il cambiamento climatico, per cui giustamente si dice che dovremmo cercare di non superare entro fine secolo un aumento medio di 2 °C per evitare conseguenze catastrofiche. Qualcosa del genere vale per la natura. Per ogni specie esiste una soglia di estinzione, oltre la quale prima o poi sparirà dalla faccia della Terra. E questa soglia dipende dalle condizioni ambientali
Ma tutto questo ha conseguenze dirette sull’uomo?
Molteplici: dal cibo all’agricoltura, dall’economia alla salute. Attualmente stiamo lavorando all’ipotesi che la riduzione di biodiversità sia responsabile (insieme all’inquinamento e ad altri fattori) della crescita esponenziale a cui stiamo assistendo sopratutto nelle popolazioni urbane delle malattie croniche a base infiammatoria, come asma, allergie, ma anche malattie autoimmuni, diabete, tumori...
In che senso, scusi.
La riduzione della biodiversità riguarda anche i microbi: batteri, virus, protozoi. E noi sappiamo per certo che la ricchezza, equilibrio e diversità delle popolazioni di microrganismi nell’intestino, sulla pelle e nel tratto respiratorio (solo le specie di batteri che colonizzano l’uomo sono circa 1.200) sono essenziali per far funzionare correttamente il sistema immunitario, soprattutto attraverso l’attivazione di interleuchina e i TGF-beta. Chi vive in contesti urbani densamente abitati e poveri di spazi naturali si è dovuto adattare a un “ambiente microbico” più povero che porta a una sregolazione delle difese immunitarie e al prevalere dell’infiammazione cronica, sorgente di allergie e altre malattie più gravi.
Ma non si dice che – nonostante l’inquinamento – “l’aria delle città rende liberi”?
Renderà anche liberi ma non sani. Per quanti parchi si realizzino, il trend è un’inesorabile concentrazione di popolazione nelle metropoli e una conseguente distruzione delle “sacche di natura” all’interno di queste megalopoli.
Nella sua teoria l’estinzione di piante e animali dipende da molti fattori, dall’inquinamento al cambiamento climatico, all’invasione di specie aliene e alla frammentazione degli habitat. Qual è il fattore più importante?
Fino a oggi il fattore prevalente è stato il consumo di suolo, che porta alla frammentazione degli habitat, essenziale per la maggior parte delle specie. Certo anche l’invasione di specie estranee costituisce un bel problema, come pure il fenomeno del sovrasfruttamento delle risorse (overharvesting), soprattutto negli Oceani e nelle acque dolci. Probabilmente in futuro il guaio peggiore diventerà il cambiamento climatico, insieme alla perdita di habitat.
Come si fa a misurare e predire le estinzioni?
Si fanno diverse simulazioni di abbondanza e distribuzione delle varie specie sulla base dei cambiamenti in corso negli habitat, nelle condizioni climatiche, nello sfruttamento della terra, e così via. Esiste una valutazione globale di quante e quali sono le specie a rischi di estinzione compilata dalla IUCN (International Union for Conservation of Nature). Questa valutazione però è possibile farla solo sulle specie animali e vegetali che conosciamo sufficientemente bene, che attualmente sono 56.000. Di queste, un terzo sono minacciate in diverso grado.
Lei ha ricevuto riconoscimenti prestigiosi per aver messo a punto concetti come quello di “metapopolazione” e “debito ecologico”. Se ben comprendo – in questo caso il debito significa che una specie a rischio di estinzione può sopravvivere ancora più o meno a lungo dopo che il suo habitat è stato alterato. Che conseguenze ha questo effetto ritardato sulle dinamiche naturali e sulle nostre possibilità di rimediare ai danni fatti alla natura?
Le specie rispondono più o meno rapidamente ai cambiamenti ambientali. A causa dell’esistenza del debito ecologico, noi possiamo in effetti sottovalutare la minaccia rappresentata da un cambiamento ambientale perché non ne vediamo subito le conseguenze. D’altra parte, lo stesso ritardo è presente anche quando noi ripristiniamo un ambiente – attraverso la realizzazione di parchi e riserve naturali, ad esempio. Quindi non dobbiamo disperare se non vediamo subito gli effetti sperati in termini di recupero delle popolazioni animali e vegetali. Ci vuole un po’ di tempo perché la natura torni a funzionare a dovere.
Siamo nella sesta estinzione di massa?
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