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Nella mente del terrorista. Aggiornamenti dopo la strage di Parigi

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Negli ultimi anni si sono avvicendate molte teorie sulla genesi del terrorismo suicida, che ha lasciato l’ultimo orribile segno a Parigi il 13 novembre. Quanto contano gli individui e la loro psicologia, le loro motivazioni? Quanto gli stati e i gruppi che li sostengono? Un importante contributo alla genesi sociale del terrorismo suicida è stato portato da Scott Atranantropologo che lavora presso l’University del Michigan ad Ann Arbor e al Centre National de la Recherche Scientifique a Parigi. Atran ha condotto negli ultimi anni molte interviste a terroristi e a membri della comunità a cui appartenevano, per esempio, i fratelli Kouachi responsabili della strage nella sede di Charlie Hebdo. Il nuovo massacro parigino offrirà di certo nuovi spunti allo studioso.

La fuga verso soluzioni terroristiche ha in parte origini sociali. Diversamente da quanto avviene negli Stati Uniti, dove gli immigrati raggiungono uno status socioeconomico medio nel corso di una generazione, in Europa il processo è più lento e può richiedere tre generazioni. Quanto al livello educativo, c’è un’alta probabilità che gli immigrati restino a lungo con livelli molto bassi. La Francia ha il 7,5% di immigrati musulmani, che secondo Atran costruiscono il 60-75% della popolazione carceraria. una stazione simile ai neri negli Stati Uniti.

Su questo milieu l’ideologia gioca un richiamo molto forte, come ha spiegato recentemente Atran su Nature. un recente sondaggio in Francia ha mostrato (ICM) come il 27% dei giovani francesi (non solo di fede musulmana) ha un atteggiamento favorevole verso uno "stato islamico". "La Jihad dice sostanzialmente a questi giovani. 'Vedere, voi siete degli outsider, nessuno si occupa di voi. Insieme possiamo cambiare il mondo".

La chiave di accesso più convincente alla mente dei giovani terroristi sembra essere il potere di condizionamento pressoché totale che questo messaggio e le organizzazioni che lo sostengono riescono ad avere su di loro. Il meccanismo psicologico è lo stesso che tempo addietro ha funzionato con i kamikaze giapponesi: creare comunità chiuse con una forte impronta mistico-militare, dove tutti si sentano affratellati nella realizzazione di un progetto segreto e considerato di vitale importanza. Il sacrificio di ciascuno, in questa logica, porta alla salvezza degli altri «fratelli» quando non della intera comunità. Le interviste condotte sia alle reclute del gruppo pachistano alleato di Al-Qaida, Harkat al-Ansar, sia a quelle di Jemaah Islamiyah (Singapore) confermano questo senso di appartenenza al gruppo (quasi una nuova famiglia) forgiato sulla ricerca ossessiva della segretezza e sulle letture del Corano. 

Altra parola chiave è «obbedienza all’autorità». Quanto questa sia una molla capace di far compiere le peggiori nefandezze lo dimostrano bene gli esperimenti dello psicologo americano Stanley Milgram, richiamati nella ricerca di Atran (vedi riquadro).

Nella mente del kamikaze

In una discussione a più voci condotta su un sito internet appositamente dedicato alla «genesi e futuro del terrorismo suicida» il filosofo cognitivista el CNRS Dan Sperber ha cercato di arrivare a una comprensione più fine dei meccanismi cognitivi che possono spingere a una scelta così antiutilitaristica come il suicidio a fini politici. «Dal punto di vista dei leader delle organizzazioni terroristiche» scrive Sperber, «utilizzare terroristi suicidi è una scelta razionale», soprattutto perché con risorse limitate si riesce a ottenere il massimo di effetto (nel caso del conflitto israelo-palestinese, il rallentamento di un processo di pace e di nuovi insediamenti del nemico) con il minimo di spesa (la vita di una persona di un paese povero). Economicamente, si va a colpire il nemico nel capitale umano più prezioso: la popolazione civile di un paese ricco e industrializzato. 

Dal punto di vista dell’agente, la scelta viene resa possibile dalla sua gradualità. Argomenta Sperber: «La domanda che ci si dovrebbe porre non è “Perché questi giovani compiono un’azione suicida”, bensì “Perché si rendono disponibili a commettere un’operazione suicida?”, e ancora “Perché, essendosi resi disponibili, vanno avanti piuttosto che cambiare idea?”». Alla prima domanda si può rispondere che offrirsi come volontari per fare qualcosa è più facile che fare qualcosa, non impegna ancora. In cambio però dà subito dei vantaggi, come il rispetto da parte della comunità, un’aura di eroismo che si confà al futuro martire, eccetera. Una volta che si è fatto questo passo, è più facile procedere verso i passi successivi che tornare indietro. «A ogni snodo decisionale successivo» continua Sperber, «la scelta è razionale, date le credenze e le preferenze dell’individuo. Il punto debole è la mancanza di lungimiranza al momento di offrirsi volontari». Tornare indietro dopo una scelta del genere comporterebbe disonore, disprezzo, delusione, rifiuto da parte degli amici e dei familiari. 

Fino a un attimo prima del suicidio, l’utilità sociale che si trae dalla scelta è molto alta, per poi apparentemente annullarsi nell’atto autodistruttivo del martirio. Tuttavia, continua Scott Atran, continuare a pensare ai martiri come agenti razionali che decidono in base a convincimenti personali secondo un’ottica di responsabilità e utilità è il tipico errore di attribuzione compiuto da una visione del mondo individualistica. In realtà, in molte società (ora anche in sacche urbane del nostro continente), l’etica delle scelte ha una colorazione decisamente più comunitaristica che individualistica. «Istituzioni come al Isis riescono a sfruttare il potenziale di sofferenza, oltraggio e umiliazione presenti nella società per costruire vere e proprie bombe umane» spiega Atran. «Come consumati pubblicitari, i leader carismatici di questi gruppi che sponsorizzano il martirio come arma politica, riescono a utilizzare i normali desideri per la famiglia e la religione per creare delle microcomunità coese al loro interno e pronte a esplodere in attentati verso l’esterno. E’ lo stesso tipo di manipolazione degli individui compiuto dall’industria della pornografia che volge il desiderio universale e innato di avere partner sessuali in dipendenza da immagini oscene su carta o su video».

Se la chiave del successo del terrorismo suicida è da ricercare nella manipolazione delle coscienze condotta da queste organizzazioni, è lì secondo Atran che si dovrebbe agire per prevenire nuovi proseliti. «Prima di tutto» osserva Atran «bisogna condurre studi sistematici su questi gruppi e sulle loro regole di reclutamento». E’ importante anche imparare a cogliere nei piccoli gruppi e nelle comunità presenti nelle nostre città e periferie i segni di una radicalizzazione di matrice terroristica sondando ogni forma di aggregazione. Spiega Atran: “Se vuoi scoprire chi sarà il prossimo a voler andare a combattere e magari a morire come un martire, e magari a intercettare una nuova cellula terroristica, studia come si veste e cosa mangia… le cospirazioni non nascono in moschea. Magari hanno luogo nei fast food, sui campi da calcio o ai picnic famigliari”. 

Educazione e confronto, non è uno scontro di civiltà

Dall’analisi degli ultimi documenti strategici statunitensi, Atran arriva alla conclusione che, nonostante l’aumento (nel decennio passato) del 133 per cento delle risorse spese per combattere il terrorismo internazionale (11,4 miliardi di dollari) troppo poco viene riservato a programmi di studio e di prevenzione del proselitismo terrorista, nonostante le aperture di Obama. E’ come se si desse per scontato l’irrevocabilità della scelta del martirio, motivata da un «odio inestinguibile per le libertà, la democrazia il nostro modo di vivere». 

In realtà, secondo un sondaggio ormai storico del Pew Research Centre sugli atteggiamenti globali in merito alle politiche e ai valori sociali in 21 paesi diversi conferma che le popolazioni che sostengono posizioni radicali vedono in realtà con favore il sistema di vita, le libertà civili e il sistema economico statunitense, come la Primavera araba, almeno all'inizio, ha dimostrato. La stessa indagine condotta sui palestinesi conclude che l’80% della popolazione mette addirittura al primo posto il sistema politico israeliano e al secondo quello americano. Risultati paradossali, che contraddicono la lettura del terrorismo musulmano in termini di «scontro delle civiltà». Anche se ora, a poche ore dalla strage parigina, è molto difficile non pensare in questi termini.

La banalità del male e l'obbedienza all'autorità Stanley Milgram condusse i suoi esperimenti di psicologia applicata nel Connecticut subito dopo la seconda guerra mondiale, e li descrisse nel libro Obedience to Authority. In questi si dimostra come sia relativamente facile indurre membri normali della popolazione a comportamenti moralmente inaccettabili basandosi sul principio di autorità. Per certi versi questi esperimenti confermano la tesi sostenuta dalla filosofa ebrea Annah Harendt della «banalità del male», categoria usata per spiegare come persone normali e mediocri come Rudolph Eichman abbiano potuto contribuire attivamente e addirittura pianificare l’olocausto.
Ai volontari americani per una di queste indagini fu detto che stavano collaborando a uno studio sugli effetti dell’apprendimento. Quando l’«allievo» sbagliava, i partecipanti – gentili massaie e impiegati americani scelti a caso per strada – dovevano premere un pulsante che, a quanto era stato loro detto, mandava una scossa elettrica. In realtà i presunti allievi altro non erano che attori che recitavano una parte seduti su finte «sedie elettriche». I pulsanti disponibili erano numerati da uno a trenta e ai partecipanti veniva fatto credere che le scosse fossero via via più forti man mano che il numero cresceva, da 15 a 450 volt. All’aumentare del voltaggio, crescevano anche le urla di dolore degli allievi, ma ai partecipanti che esitavano veniva ingiunto di continuare. Dei 40 partecipanti, una trentina andò avanti fino alla scossa di 450 volt, nonostante le urla strazianti. Fu la dimostrazione, ripetuta in varie località d’America, che l’adesione a un’autorità può cancellare il giudizio critico di persone normali inducendole ad azioni criminali. Certo che il sacrificio di sé per togliere la vita a innocenti sembra sfidare ogni logica. Invece è solo questione di tempo. E di psicologia. Il segreto sta nel far credere all’aspirante martire che la sua morte salva altre persone, quelle a lui più vicine, e che per ottenere questa salvezza è necessario ucciderne altre, a lui più lontane.

Come si costruisce un uomo-bomba Una bomba obbediente e carica d’odio non si improvvisa. E non si sceglie a caso. Le preferenze cadono sui maschi giovani e non sposati. Ma soprattutto, il processo di selezione dura a lungo per assicurare proseliti fedeli. Il tempo di reclutamento minimo dura 18 mesi. Quasi tutte le organizzazioni terroristiche, infatti, gestiscono scuole (si pensi alle madrase afghane) così come molti altri aspetti della vita delle loro comunità, dal lavoro alle funzioni religiose alla previdenza e all’assistenza sanitaria. La carriera di una bomba umana si dipana così dalle prime classi all’ombra di una guida spirituale, attenta a cogliere gli elementi più promettenti. Solo alcuni, infine, vengono selezionati come aspiranti martiri. Fino al grande giorno della chiamata.
Un attentato suicida è per definizione imprevedibile. Non c’è radar che possa intercettare una bomba fatta di carne e ossa. In Israele si è provato con cani adestrati a fiutare l’esplosivo, ma basta un deodorante o uno spray repellente per metterli fuori strada. E poi chi controllare? Tutte le facce torve che passeggiano per la via? L’unica possibilità è infiltrare i gruppi terroristi con spie, ma il carattere di estrema segretezza di queste organizzazioni rende questo compito molto arduo.
Anche la rudimentalità degli ordigni gioca a favore dei terroristi. L’elettronica è assente; e a parte il plastico e l’innesco, tutti gli altri pezzi della bomba sono in libero commercio: una sorta di borsa di tessuto elasticizzato dove mettere l’esplosivo, biglie di acciaio o chiodi per rendere l’esplosione più devastante, filo elettrico, batteria e interruttore. Rispetto alle bombe di qualche anno fa, quelle attuali sono più piccole (circa 20 centimetri per lato) e più facilmente celabili sotto gli abiti: alcuni le vestono subito sopra l’ombelico, altri, per non rischiare di essere individuati a un’eventuale perquisizione, le portano alte intorno al petto. Il vantaggio delle donne kamikaze è che in Medioriente e in molti paesi asiatici vegono perquisite di meno; inoltre, in caso di sporgenza dell’ordigno possono simulare una gravidanza.
L’hardware per una missione suicida costa intorno ai 150 dollari. Più costosa è la preparazione, se si pensa alla rete di collaboratori, appoggi, ricognitori che servono per mettere a punto un attentato. Non è raro che vengano costruiti anche modelli in scala dell’obiettivo e che, dopo numerose ricognizioni sul posto venga eseguita una prova generale. Prima di partire per la missione, il martire spesso suggella il suo contratto con il gruppo attraverso un video-testamento, in seguito recapitato ai parenti.Tra i costi da sostenere vi è poi la quota da versare alla famiglia del martire, circa 10 mila dollari in alcuni paesi che preparano i terroristi. 


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