fbpx L'omicidio della scienza e il suicidio degli scienziati | Scienza in rete

L'omicidio della scienza e il suicidio degli scienziati

Primary tabs

Tempo di lettura: 4 mins

Nel corso degli ultimi mesi si sono verificati nella comunità scientifica internazionale alcuni eventi epistemologicamente preoccupanti. Il primo riguardava il divieto di pubblicare i metodi sperimentali relativi alla modificazione del virus N5H1, il secondo aveva a che fare con la pubblicazione di articoli scientifici in cui i dati erano totalmente o parzialmente non divulgati, mentre il terzo riguardava un passo indietro nelle politiche di libertà di accesso alle pubblicazioni scientifiche.

Per quanto concerne il virus N5H1, si ricorda che erano all'esame due studi (uno sottoposto a Science da Ron Fouchier dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam e uno proposto a Nature da Yoshihiro Kawaoka dell’University of Wisconsin at Madison) e che, il 20 dicembre 2011, l’U.S. Science Advisory Board on Biosecurity "ha deciso di consigliare di [...] pubblicare i nuovi risultati, ma di non includere nei manoscritti i dettagli metodologici ed altri particolari che potrebbero permettere una replica degli esperimenti da parte di coloro che vorrebbero usarli in modo doloso". 
Fortunatamente, il divieto è stato ritirato, ma il fatto rimane (quello su Nature è stato pubblicato, cfr. M. Imai et al., Nature (2012), doi:10.1038/nature10831; quello su Sciencedovrebbe comparire a breve, cfr.).

Per quanto riguarda il secondo evento cui si accennava, in una recente lettera a Nature, B. Huberman (B.A. Huberman, Nature 482(2012), 308) ha criticato dei lavori nel campo delle scienze sociali in cui i dati provenienti da fonti collegate ad aziende private come Google, Facebook, e Twitter non erano divulgati. Nella stessa direzione, può essere letta pure la meta-analisi fornita da Alsheik-Ali e coll. (A.A. Alsheikh-Ali et al., PLoS ONE 6(2011), e24357) in cui mostrano come, nonostante i requisiti editoriali, in veramente molti articoli pubblicati sulle più importanti riviste del settore biomedico i dati erano totalmente o parzialmente omessi.

Venendo al terzo punto, ha fatto notizia un disegno di legge proposto al Congresso degli Stati Uniti (HR 3699) finalizzato ad annullare le disposizioni del National Institute of Health (NIH) relative al fatto che le ricerche finanziate dai contribuenti dovessero essere liberamente accessibili online. Tale disegno di legge è stato appoggiato, tra gli altri, da molte case editrici del settore medico e biomedico. Come denunciato dal movimento favorevole all’open access, le grandi case editrici internazionali sono delle aziende private che traggono profitto dalla conoscenza generata principalmente da denaro pubblico, vendendone l'accesso proprio a istituzioni pubbliche, quali sono le università dove la ricerca è fatta. Il disegno di legge è stato abbandonato dopo una protesta pubblica degli scienziati e dei ricercatori che è culminata in una petizione al Presidente degli Stati Uniti affinché fosse previsto l’open access alla conoscenza finanziata dai contribuenti americani. Nonostante il forte e crescente movimento per l’open access da parte degli stessi ricercatori, la stragrande maggioranza delle istituzioni accademiche pubbliche, delle charities e delle agenzie di finanziamento pubblico non pone ancora l'obbligo dell’open access quale condizione per ricevere finanziamenti. Ne segue che pratiche economiche consolidate limitano, di fatto, la disponibilità e la condivisione aperta della conoscenza scientifica.

Qualcuno potrebbe sostenere che ci sono ragioni di sicurezza, concorrenza ed economiche per allontanarsi dal modo classico di fare scienza, e che la privacy e/o la proprietà intellettuale debbano essere tutelate. Ma costoro non sembrano rendersi conto che in tal modo la scienza, qual è stata teorizzata e praticata fino ad ora, è condannata a morire. Sin dal suo inizio in epoca moderna, il metodo scientifico è stato caratterizzato dalla controllabilità intersoggettiva e dalla verifica pubblica. Controllabilità intersoggettiva significa che un lavoro, per potersi qualificare come scientifico, deve necessariamente (ma non sufficientemente) descrivere e rendere pubblici sia i metodi adottati, sia i dati tramite cui si sono ottenuti i risultati presentati. L'essere soggetto a verifica pubblica implica che tali metodi e tali dati debbano essere accessibili alla valutazione dei colleghi e della società e non che possano essere rinchiusi dietro pay-wall.

Adesso ci viene detto che la comunicazione dei metodi e dei dati non è necessaria. Ci viene anche detto che l'accesso ad entrambi può essere limitato anche per coloro che hanno pagato per produrli. Ciò significa che non stiamo facendo scienza, o per lo meno quello che sino ad ora abbiamo chiamato scienza. Possiamo cambiare il paradigma, chiamando scienza quel che ci pare. Ma dovremmo essere consapevoli di quello che stiamo proponendo. Sicuramente le limitazioni viste non hanno nulla a che fare con la scienza così com’è stata pensata e prodotta sin dai tempi di Galileo. Ne siamo consapevoli? Oppure stiamo semplicemente uccidendola e noi - scienziati e ricercatori - stiamo commettendo un suicidio epistemologico?

Certamente la scienza è stata fatta dagli uomini e gli uomini possono cambiare idea su ciò che essa è e su come debba essere fatta. La cosa importante è esserne consapevoli e per questo forse un pizzico di competenza in filosofia della scienza sarebbe consigliabile.

n.d.r: Una versione breve di quanto sopra è apparsa su Nature 488 (2012), 157

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Biodiversità urbana: com'è cambiata e come proteggerla

Anche le metropoli possono essere ambienti ricchi di specie: secondo un recente studio sono ben 51 le specie di mammiferi che vivono a Roma, alcune di esse sono specie rare e protette. Nel corso degli ultimi due secoli, però, molte specie sono scomparse, in particolare quelle legate alle zone umide, stagni, laghetti e paludi, habitat importantissimi per la biodiversità e altamente minacciati.

Nella foto: Parco degli Acquedotti, Roma. Crediti: Maurizio.sap5/Wikimedia Commons. Licenza: CC 4.0 DEED

Circa la metà della popolazione mondiale, vale a dire ben 4 miliardi di persone, oggi vive nelle città, un fenomeno che è andato via via intensificandosi nell’epoca moderna: nell’Unione Europea, per esempio, dal 1961 al 2018 c’è stato un costante abbandono delle zone rurali e una crescita dei cittadini, che oggi sono circa i