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Dal Big Bang allo spirito dell’uomo in 28 passaggi

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La teoria della complessità è senza dubbio una delle novità più interessanti nella scienza degli ultimi decenni.
A dispetto del nome, non esiste una vera e propria teoria dei sistemi complessi: si tratta piuttosto di un modo nuovo di analizzare la realtà, che si può riassumere con il motto che già fu di Aristotele: “Il tutto è maggiore della somma delle parti”. Alcuni esempi? Li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: le condizioni meteorologiche, gli andamenti delle quotazioni in borsa, i comportamenti delle masse: fenomeni imprevedibili sorgono da sistemi descrivibili da leggi deterministiche. (Se vi stanno venendo in mente termini come “teoria del caos” o “butterfly effect”, siete sulla strada giusta.)
Uno degli aspetti più cruciali, ma anche più controversi, nella teoria della complessità è l’emergere di proprietà nuove in livelli più alti di organizzazione. Gli atomi hanno proprietà impredicibili a partire dalle particelle costituenti. Lo stesso discorso vale per le molecole. La vita, poi, è forse l’esempio più lampante di proprietà emergente: dato un insieme di macromolecole organiche organizzate secondo un certo schema, nessuno saprebbe predire l’emergenza della vita a partire dalle sole leggi chimiche e fisiche. Secondo questa logica, anche la mente umana, l’autocoscienza e il libero arbitrio possono essere intesi come successive emergenze.

Così, come il riduzionismo opera con grande successo cercando di spiegare qualcosa di complicato in termini di qualcos’altro che è più semplice (la genetica ne è l’esempio forse più immediato), il concetto di emergenza sembra orientato nella direzione opposta, dal semplice al complicato (o al complesso, appunto). È davvero difficile, in quest’ottica, non cedere alla tentazione di stilare una lista delle emergenze che hanno portato dall’inizio di tutto (il Big Bang, diciamo) fino alla nostra mente che si domanda “Com’è iniziato tutto?”, in un meraviglioso circolo epistemologico.
È proprio quello che ha fatto Harold J. Morowitz, un importante biofisico statunitense noto soprattutto per i suoi studi sulle origini e sugli aspetti termodinamici della vita. Con un “effetto zoom” davvero vertiginoso, e con una padronanza notevole degli argomenti, Morowitz ci racconta in circa duecento pagine come si è passati, negli ultimi quattordici miliardi di anni, dal Big Bang alla spiritualità umana, attraverso il susseguirsi di 28 nuove proprietà emergenti (il numero è scelto in maniera arbitraria). Insomma, una breve storia dell’universo, della vita e della mente raccontata dal punto di vista delle emergenze; o, se preferite, una breve storia delle emergenze che hanno reso possibile l’esistenza di una specie in grado di riflettere sulle emergenze stesse.

Se il libro fosse solo questo, sarebbe un saggio multidisciplinare che potrebbe essere davvero avvincente se scritto con taglio popular. Ma non è certo questo l’intento dello scienziato americano. Morowitz non vuole parlare al lettore generico, non vuole fare divulgazione (e questo spiega perché il libro sia così ostico e poco “invitante” in molti punti): egli intende fornire alla teoria della complessità un’epistemologia propria, nel tentativo di conciliare scienza e religione in un modo tanto originale quanto eterodosso.
La teoria che Morowitz espone in questo libro, basata sulla sua analisi dei fenomeni emergenti, si può riassumere così: come le leggi fisiche sono un’espressione (analizzabile scientificamente) del Dio immanente, il libero arbitrio e la volontà umana sono una manifestazione (analizzabile alla luce della complessità) del Dio trascendente.
Questa conclusione è annunciata in maniera esplicita alla fine del libro: “L’Homo sapiens – scrive l’autore – è il mezzo attraverso il quale agisce la trascendenza divina”. Con l’uomo, secondo Morowitz, si starebbe verificando un’emergenza davvero eclatante: quella della trascendenza del Dio abramico.
Se tutto ciò vi suona disorientante, o ancor peggio provocatorio, vi conforterà sapere di non essere i soli. Morowitz è consapevole di essere un “eretico”. I suoi intenti sono certamente nobili: favorire il dialogo tra scienza e religione, nonché creare un’etica umana giustificabile attraverso entrambe. Il che sarebbe ottimo, se il ragionamento di Morowitz non fosse costellato di fallacie concettuali e metodologiche che non sempre sono soltanto grossolane.

A partire dalla nebulosità del concetto stesso di emergenza. All’inizio del libro si legge che “l’emergenza è il contrario del riduzionismo”: ma il confronto è decisamente oscuro, dal momento che il riduzionismo è un metodo di analisi della realtà, non una proprietà della realtà stessa come sembrano essere invece le emergenze. Inoltre, alcune emergenze trattate sono davvero difficili da interpretare come emergenze vere e proprie. Un esempio è la formazione delle stelle (capitolo 6): non c’è niente di “nuovo” in una stella che non ci fosse già nella nube di gas da cui ha avuto origine. Stando alle leggi della fisica, il fatto che una nube sufficientemente massiccia di idrogeno in contrazione arrivi a innescare reazioni di fusione termonucleare è del tutto prevedibile.
Ma i veri punti deboli nel pensiero di Morowitz, secondo il parere di chi scrive, compaiono nella fase di transizione dalla dissertazione “scientifica” a quella “filosofica” della complessità. Nella fattispecie, appaiono incredibilmente forzati i tentativi di usare la teoria dell’informazione per dimostrare la natura “mentale” (o “divina”) delle emergenze. È un concetto che torna più volte nel corso del libro, dal capitolo sulla tavola periodica (“A causa del principio di Pauli la materia è caratterizzata dall’informazione, e qualcosa di simile al pensiero è già comparso nell’universo”) a quello sui neuroni (“Essa [la mente, NdR] è integrata a fondo nell’universo in evoluzione e può avere origini prebiotiche”) a quello sullo spirito (“troviamo una certa proprietà noetica relativa all’entropia basata sull’informazione”). Questo è sufficiente, secondo Morowitz, per poter concludere che “l’emergenza possiede un aspetto divino, cioè il processo grazie al quale la parola (immanenza) si fa carne (trascendenza)”, da cui la sua tesi finale.
L’argomentazione è tutt’altro che cogente, dal momento che Morowitz stesso afferma di aderire all’idea kantiana secondo cui la mente è l’unica necessità epistemica. Se tutta la conoscenza ha un’origine mentale, il concetto di informazione ha senso solo in presenza di una mente, pertanto lo si può ritrovare nella materia inanimata solo a patto di avercelo inserito a posteriori. Secondo le stesse premesse filosofiche di Morowitz, la “proprietà noetica” di cui egli parla è un costrutto mentale, non una caratteristica della natura.
A questo proposito, sembra di assistere a un vero e proprio “atto di fede” da parte di Morowitz nell’accettare che le emergenze siano una proprietà intrinseca della natura e non piuttosto una conseguenza della visione coarse-grained che abbiamo di essa (ovvero, in ultima analisi, un costrutto mentale). In particolare, l’impredicibilità delle emergenze pone dubbi sulla loro stessa scientificità, che Morowitz non dissipa in alcun modo e anzi non sembra nemmeno affrontare.

In conclusione, l’impressione che chi scrive ha avuto leggendo La nascita di ogni cosa è che Morowitz voglia usare alcuni aspetti scientifici della complessità per dimostrare a forza la bontà di una Weltanschauung teologica che egli sembra aver sposato ab initio, rendendo in buona parte inefficace l’intera trattazione.
Nonostante questo, il libro offre una pletora di spunti davvero interessanti, e mostra – cosa non da poco – che può esistere un nuovo metodo per analizzare la realtà fisica e per uscire dai pesanti impasse che vigono da troppo tempo nel dialogo tra scienza e fede. Probabilmente le conclusioni a cui si arriverà saranno drasticamente diverse da quelle espresse in questo libro, ma c’è la possibilità che la via della complessità possa condurre in territori della conoscenza oggi inesplorati. Questo libro, se non altro, aiuta a prenderne atto.


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