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Dove va l'università?

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Dove vogliamo che vada l’università italiana? Che ruolo deve assolvere nella cultura e nella società del nostro paese? Le domande sono da molto tempo sul tappeto, ma rese di stringente attualità dall’ipotesi di riforma del «decreto Gelmini», dai giudizio della Corte dei Conti sul “3+2” e, più in generale, da un «modello di sviluppo economico senza ricerca e senza alta qualificazione» che da almeno vent’anni non regge più, che ha precipitato l’Italia in una condizione di stabile declino e che negli ultimi mesi è entrata in una fase più acuta di crisi.

Rispondere alle nostre domande iniziali è dunque di importanza decisiva non solo per l’università (e non sarebbe poco), ma per il paese.

Tuttavia, per cercare di rispondere in maniera non ideologica ma fondata su dati di fatto, occorre porsi un’ulteriore domanda: dove sta andando l’università? Non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo. Perché è solo in una prospettiva europea, se non globale, che i nostri desideri rispetto all’università italiana acquistano un senso.  

Dunque, dove sta andando l’università? Non è un problema semplice da affrontare, perché con la medesima parola, università, indichiamo strutture e organizzazioni culturali che nei vari paesi d’Europa e del mondo e nelle diverse epoche storiche assumono forme diverse.

Per fortuna in nostro soccorso è giunto, da qualche settimana, un libro – Torri d’avorio in frantumi? Dove vanno le università europee, Il Mulino, pagg. 310, euro 24,00 –  curato da Roberto Moscati (sociologo dell’università Milano Bicocca), Marino Regini (sociologo dell’Università Statale di Milano) e Michele Rostan (sociologo dell’Università di Pavia). Il volume è il frutto di una ricerca scientifica – realizzata dal Centro interuniversitario UNIRES per la ricerca sulle università e i sistemi di alta educazione istituito dalle università di Milano, Pavia e Bologna – sui sistemi universitari dei sei maggiori paesi dell’Europa occidentale: Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Olanda.

Ebbene, la ricerca ha verificato qualcosa che non era affatto scontato. Nei principali paesi d’Europa (e probabilmente del mondo) le università sono nel pieno di un processo di convergenza. Una convergenza che è parziale e non totale – non fosse altro perché le condizioni di partenza erano affatto diverse. Eppure è una convergenza significativa. Che si sviluppa lungo almeno tre direttrici.

L’università diventa sempre più di massa. La vecchia università ottocentesca “per pochi”, riservata a elite minoritarie, è scomparsa e ormai si è definitivamente affermata un’università “per tutti”. Bastano pochi numeri per dimostrarlo: qualche decennio fa si iscriveva all’università una percentuale minima dei giovani in età di studio (intorno al 10-15%). Oggi in Europa si iscrive all’università in media oltre il 60% dei giovani in età.

L’università diventa sempre più internazionale. Per tre diversi motivi. Perché c’è una crescente integrazione delle comunità scientifiche. Perché gli atenei di diversi paesi stipulano accordi tra loro e formano delle reti estese. Perché si sta formando in maniera più o meno spontanea un sistema di valutazione che compara le università di tutto il mondo e le mette in competizione.

L’università diventa sempre più aperta. È, appunto, andata in frantumi la “torre d’avorio” e l’università si trova sempre più coinvolta in “reti sociali”: rapporti con gli stati, con le imprese, con gli studenti e le loro famiglie, con la società nel suo complesso. Tanto che si parla di una “terza missione” per l’università. Oltre alle due canoniche  humboltiane (formazione e ricerca), l’università ha come nuova missione il rapporto con la società e con le sue diverse articolazioni.

Questo processo con le sue tre diverse direttrici di marcia – università sempre più “per tutti”, internazionale, aperta – ha una causa profonda: viviamo ormai nella società globale della conoscenza. In economia il valore delle merci scambiate è dato sempre più dal tasso di conoscenza aggiunto. Nei paesi più sviluppati gli stock di capitali intangibili tendono a superare quelli di capitali tangibili.  L’informazione e la comunicazione informano la vita sociale.

Il processo di trasformazione dell’università non si è concluso. E, prossimamente, vedremo quali sono gli scenari possibili e quali sono quelli auspicabili. Per ora conviene chiederci: l’università italiana è dentro o fuori questo processo di trasformazione? Nessun dubbio – lo dimostra tra l’altro proprio lo studio UNIRES – l’università italiana risente del flusso generale. Anche l’università italiana è in trasformazione.

Tuttavia ci sono delle differenze e dei ritardi.

L’università italiana è diventata un’università di massa. In pochi anni i suoi iscritti si sono quadruplicati. La maggioranza dei giovani italiani in età si iscrive, come nel resto d’Europa, all’università.

L’università italiana si sta internazionalizzando. Anche se più faticosamente che in altri paesi. Formidabile, per esempio, è il ritardo accumulato nella mancata presenza di studenti stranieri  nelle nostre università. E anche il processo di valutazione stenta a prendere corpo.

L’università italiana, infine, mostra solo una parziale apertura verso il resto della società. In particolare il rapporto tra università ed economia in Italia è debole. Ma, forse, la colpa non è dell’università. O, almeno, non è principalmente dell’università. Il problema è che il modello produttivo del nostro sistema paese non è ancora fondato sulla conoscenza. A fronte di un’offerta che bene o male è paragonabile a quella di altri paesi, non c’è ancora una sufficiente domanda di conoscenza.

Ecco, ci piacerebbe - sarebbe necessario - che il dibattito sull’università in Italia cercasse di rispondere a queste domande.

Dobbiamo o non dobbiamo accelerare il processo verso la creazione di un’università “per tutti”?

Dobbiamo o non dobbiamo favorire i processi di internazionalizzazione dell’università italiana?

Dobbiamo o non dobbiamo affidare una “terza missione” all’università?

Tenteremo anche noi una risposta. Per ora è utile segnalare che anche in Italia il sistema universitario sta diventando oggetto di studio scientifico. Sono nati, per esempio, il CHESS (Centre for Higher Education & Society Studies) e  UNIRES (Italian Centre for Research on Universities and Higher Education Systems). E questa è già in sé una buona notizia.

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