Tempi duri per i profeti nostrani che, solo qualche mese fa, commentavano il tracollo della vicina Grecia con distacco: la crisi finanziaria- si diceva allora- non toccherà il nostro Paese. Il trend negativo di Piazza Affari ci ha ricordato, invece, che nessuno è immune dalla bancarotta; se non avessimo preso sul serio i segnali che provenivano dalla Borsa avremmo fatto presto compagnia a Portogallo, Islanda e Grecia. La maxi manovra da 76 miliardi di euro, approvata in tempi record, è solo cronaca di quest’ultimi giorni. Il leit-motiv delle misure messe in campo dal super Ministro prevedono risparmi e tagli per arginare il debito pubblico e per rassicurare gli investitori. Peccato che, con il decreto economico pubblicato in Gazzetta Ufficiale, i mercati finanziari non abbiano premiato tanta “tempestività”. Al di là dei giochi speculativi, resta da chiedersi come mai sia calata la fiducia in uno dei paesi che siede al tavolo del G8. Da più parti si è azzardata la risposta: l’Italia non cresce come dovrebbe. Da troppo tempo, infatti, la produzione interna è ferma e il Paese sembra entrato in un limbo pericoloso; lo hanno ricordato di recente il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Da dove ripartire, allora? Saranno necessarie misure urgenti in diversi campi: dalle infrastrutture all’edilizia, dalle piccole e medie imprese al terzo settore. Eppure, nel caso in cui questi interventi venissero presi in considerazione non è detto che siano in grado di sostenere da soli la crescita; sembra che dal dibattito pubblico che si è scatenato in seguito all’approvazione della manovra ci sia una grande esclusa. Nell’attuale “era della conoscenza”, la competitività di una nazione su scala mondiale si gioca soprattutto sulla capacità di rispondere in modo efficace alla crescente domanda di prodotti e servizi ad alto contenuto intellettuale. Ora più che mai è necessaria una strategia di ampio respiro sulla formazione in grado di trascinare il nostro Paese, nel lungo termine, verso la tanto auspicata crescita. La questione di fondo è che, forse, il rinnovamento dell’istruzione universitaria non potrà più essere demandato solo a contrastate riforme del sistema che non considerino il “capitale umano” proveniente dagli atenei italiani come la chiave di volta per uscire dalla crisi. Certo, questo argomento non sarà gradito a tutti quei commentatori, politici in testa, che hanno sparato a zero sul mondo universitario e sulla ricerca nel nostro Paese, bollandole come sprecone e poco competitive. Le mele marce si trovano un po’ ovunque e applicare “la legge del taglione” all’intero comparto solo per questo motivo potrebbe risultare poco lungimirante. Con Patrizio Bianchi, ex rettore dell’Università di Ferrara e attuale Assessore alla scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro della regione Emilia-Romagna abbiamo fatto il punto della situazione sul ruolo strategico che l’educazione universitaria può rivestire nell’intero sistema paese.
I: Dalle recenti indagini di Almalaurea e del Consiglio Universitario Nazionale emerge un calo delle immatricolazioni negli atenei pubblici nel 2010 rispetto all’anno precedente (-5%). Se si prende in considerazione il periodo 2005-2009, la diminuzione è del 9.2%. Quali fattori potrebbero spiegare il disinteresse verso la formazione universitaria nell’era della conoscenza?
P.B.: A partire dalla riforma varata da Luigi Berlinguer nel 2000 abbiamo assistito ad una progressiva svalutazione del nostro sistema universitario; questa convinzione non è imputabile tanto alla natura dei provvedimenti quanto piuttosto ai messaggi confusi che le istituzioni e il mondo del lavoro avevano mandato ai giovani. In realtà, la riforma Berlinguer ha accolto le richieste dell’Europa che, attraverso il “processo di Bologna”, ha promosso percorsi formativi e titoli universitari equivalenti negli allora 15 paesi membri. L’internazionalizzazione del sistema non è stata colta in Italia e la riforma è passata alla storia solo per la catastrofica formula del “3+2” che, facendo confluire in ambito accademico tutti i percorsi post-diploma (compresi quelli professionali), ha dato il via alla proliferazione dei corsi di studio. Se si aggiunge che negli ultimi 15 anni il legame tra università e lavoro è andato via, via indebolendosi e che il sistema è stato sottoposto a nuove riforme, non dovrebbe sorprendere il “disinnamoramento” dei giovani verso l’università.
I: Al di là dei proclami di alcuni esponenti politici che sostengono che nel nostro Paese ci sono troppi laureati, l’Europa ci chiede di raggiungere la soglia del 40%. Una dichiarazione di intenti al di sopra delle nostre possibilità?
P.B.: Sul numero dei laureati in Italia sono circolate da sempre molte leggende metropolitane. Già nel 2000, l’allora ministro Berlinguer aveva preso sul serio la questione e la riforma che porta il suo nome intendeva mettere un freno al più basso numero di iscritti all’università in Europa, offrendo un livello generalizzato di educazione di tre anni. Il risultato è che, oggi, l’Italia fa compagnia alla Tunisia nelle classifiche internazionali; è difficile fare chiarezza in un paese che è spaccato su tutti i fronti.
I: A proposito di spaccature, come giudica la riforma Gelmini al centro di roventi scontri tra studenti, professori e MIUR?
P.B.: Sul piano della cosiddetta governance degli atenei la riforma Gelmini ha messo senz’ombra di dubbio un certo ordine; quando ero rettore dell’Università di Ferrara avevo già anticipato alcune delle misure inserite nella legge in questione. Detto ciò, la riforma non ha risposto ad una domanda fondamentale che dovrebbe guidare ogni azione riformatrice: a cosa serve l’università nel nostro Paese? Le risposte sono molteplici e articolate, così come l’offerta didattica che ne dovrebbe conseguire: formazione di base, ricerca curiosity driven e applicata. Forse, sarebbe stato opportuno individuare alcuni settori strategici su cui puntare per rilanciare l’intero sistema e per evitare che molti neolaureati possano inserirsi nel mercato del lavoro in tempi rapidi.
Dietro la domanda ignorata dalla riforma Gelmini si cela, però, una questione di fondo: quale ruolo intende ricoprire l’Italia in un mercato globale caratterizzato dalla disarticolazione dei cicli produttivi? Su questa risposta si gioca il futuro del nostro Paese e aprirebbe un altro capitolo che, al momento, non mi sembra voler essere affrontato.
I: Il mercato del lavoro che ha appena citato sembra non dialogare con il mondo universitario, tant’è che, secondo i dati Almalaurea, il 17% dei laureati, ad un anno dal conseguimento del titolo, non riesce a trovare un impiego. Questa cifra è imputabile a una crescita economica che stenta a decollare oppure ad un rapporto sbagliato tra domanda e offerta?
P.B.: Direi ad entrambi i fattori. Da un lato c’è sicuramente un paese, quale l’Italia, con un profilo industriale fatto di imprese che non crescono perché il mercato interno si è ridotto ai minimi termini. Per fare un esempio, si pensi che solo il 7% delle imprese nazionali (circa cinquemila) sono in grado ad oggi di rispondere alla crisi internazionale perché hanno investito in ricerca e sviluppo. Dall’altro ci sono la domanda e l’offerta che raramente si sono incontrate a causa della poca attenzione di enti locali, industria e università. Perché ci sia un rilancio dell’occupazione giovanile è necessario un nuovo patto tra questi attori, gli unici capaci di individuare i punti di forza e di debolezza del territorio sul quale operano e di sviluppare poli d’eccellenza in diversi settori. È arrivato il momento di puntare sulla specializzazione dei diversi atenei, in armonia con le realtà produttive locali esistenti oppure con i poli di ricerca già avviati.
I: Ma c’è una parte dell’Italia in cui si produce ancora meno del resto del paese e in cui il comparto industriale non è sufficientemente sviluppato. I dati diramati da Almalaurea e Consiglio Nazionale Universitario sembrano confermarlo: il calo delle immatricolazioni è particolarmente evidente al Centro (- 16.8% negli ultimi 5 anni) e al Sud (- 19.8% negli ultimi 5 anni). L’ennesimo sintomo di un’Italia a due direzioni? Oppure, frutto di un’offerta formativa non competitiva?
P.B.: Più che puntare il dito sulla proposta didattica degli atenei del Centro e del Sud, questi dati testimoniano che se i tre attori appena citati (università, enti locali e industria) non dialogano a sufficienza, l’istruzione universitaria è destinata al declino. Anche in una zona industrialmente depressa l’università può fare da traino alla crescita; basta individuare un settore strategico su cui investire in termini di offerta formativa. Insomma, le università italiane sapranno giocare un ruolo da protagoniste soltanto se coglieranno senza preconcetti lo spirito che animò la riforma del 2000. E poi, non bisogna disegnare un Centro-Sud a tinte fosche: Catania, Napoli e Lecce sono oggi molto più di isole “felici”.