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Quanto è difficile essere bravi medici

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Decalcomania, di Rene Magritte (1966). Olio su tela, 100 x 81 cm.

La clinica si trova a metà tra le scienze umane e quelle della natura. Mi azzardo a dire che, a parità di preparazione specifica, tra un medico che abbia letto Dostoevskij, o Flaubert, tanto per fare un paio di esempi, e uno che non li abbia letti, penso che sia più bravo come clinico il primo”.

Questa sentenza è una delle tante di cui è intessuto il libro scritto da Claudio Rugarli, clinico medico di fama, ormai in pensione, che ha deciso di raccogliere le sue riflessioni dopo tanti anni di carriera (Medici a metà – Quel che manca nella relazione di cura. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017, pp. 186, euro 18).

“Ho dovuto studiare molto, non solo su testi medici, e riflettere altrettanto per arrivare a quanto ho qui di seguito scritto” premette nell’introduzione da cui emerge anche che il libro “è stato scritto per tutti, non solo per i medici”.

E in effetti così è, anche se il fulcro rimane l’accoppiata medico-paziente o meglio sarebbe dire medico-malato o medico-persona malata. Da questo connubio nasce anche il curioso titolo: Medici a metà. Chi sono questi medici dimezzati come il visconte calviniano? “Penso che chiunque si dedichi all’attività clinica debba essere consapevole dei due aspetti della malattia di cui ho parlato: quello dal punto di vista del paziente e quello dal punto di vista del medico. Se non lo è, e questo oggi capita spesso, è un medico a metà”.

Saper comunicare con i malati

In un momento storico in cui si sottolinea l’importanza di un rapporto il più possibile empatico e umano con il malato, Rugarli assume una posizione chiara e diversa: “Più che esortare i medici a essere gentili e comprensivi, [credo] sia importante insegnare loro a comunicare in forma appropriata con i loro assistiti”. Addirittura dopo tanti anni in cui ha fatto esami agli studenti giunge ora alla conclusione che più che fare a loro domande su una data malattia avrebbe dovuto chiedergli di spiegare la malattia a un paziente per superare l’esame. “Il punto su cui bisogna interrogarsi è se, nel sapere tecnico che viene appreso studiando medicina, vi è qualcosa che renda umani i rapporti tra i medici e i loro pazienti”. D’altra parte, come lui stesso sottolinea, “la medicina, pur essendo sicuramente un’attività razionale, non è solo scienzae, parafrasando una battuta che Clemenceau faceva a proposito della guerra e dei generali,la medicina è una cosa troppo seria per essere affidata ai soli medici”.

Il metodo clinico

Medici che grazie allo sviluppo tecnologico dispongono di molti più strumenti del passato, ma che spesso dimenticano di agire usando la ragione e di applicare il metodo clinico in tutte le sue tappe: “per esempio per valutare un restringimento del calibro bronchiale un fonendoscopio serve più di una tomografia assiale computerizzata”, il problema è anche farlo capire al paziente. Il metodo clinico è il rovello di Rugarli, cui dedica un intero capitolo del libro: “pur maturo da un punto di vista epistemologico, il metodo clinico non ha ancora raggiunto quella codificazione tecnica che servirebbe per un efficace esercizio della medicina”. E’ in questo capitolo che con chiarezza estrema si introducono concetti difficili da masticare: il concetto di probabilità con il teorema di Bayes, la deduzione e l’induzione, la logica fuzzy. Particolarmente illuminante è la riflessione riguardo a una domanda annosa in questo ambito e cioè se il processo diagnostico sia induttivo o deduttivo, Rugarli si pone equidistante tra le due schiere di sostenitori: “Entrambi i tipi di ragionamento servono per fare una diagnosi e spesso in maniera non alternativa ma complementare: per esperienza personale penso che l’induzione prevalga quando si ha subito un orientamento verso una classe nosologica, e la deduzione quando si è molto incerti e bisogna passare a esaminare tutta una serie d’ipotesi”.

Scienza e religione, umanità e libertà

Il libro si apre poi a temi più vasti che travalicano la clinica, come i rapporti tra scienza e religione (con prese di posizione nette e ancora una volta cristalline da parte dell’autore), il significato di “umano”, il problema della libertà in un intreccio continuo tra medicina, letteratura, filosofia, etica, statistica, illuminato dalla ragione.

Meritano infine un cenno due argomenti “minori” trattati nel libro che danno bene l’idea del suo autore, uno riguarda l’EBM, l’evidence based medicine che vede Rugarli schierato tra i critici: “Fin dall’inizio io non condivisi gli entusiasmi di molti miei colleghi per la evidence based medicine. Prima di tutto considerai un’illusione che la realtà clinica potesse essere rappresentata in ogni caso da una adeguata evidence. Questo sarebbe possibile se la clinica fosse un’attività algoritmica e non, come è, euristica... Mi rifiuto di considerare l’EBM un nuovo paradigma per la medicina, come se avesse sostituito un paradigma precedente che riteneva inutili le dimostrazioni oggettive e le sostituiva con considerazioni meno decisive... la rivoluzione [dell’EBM] è stata tecnica, ma non concettuale”.

L’imprecisione di certe traduzioni

L’altro argomento riguarda la traduzione in italiano di alcuni termini inglesi, che Rugarli da buon professore trova modo di bacchettare. Uno concerne proprio l’EBM e la traduzione di evidence, per la quale l’autore propone, al posto degli scorretti per vari motivi “evidenza” e “prova”, il termine “testimonianza”, ma sa già che non avrà successo (suona davvero male “medicina basata sulle testimonianze”) tanto da autoimporsi alla fine di non tradurre il termine evidence e di usarlo tale e quale anche in italiano “nonostante io detesti usare parole straniere”.

L’altra levata di scudi linguistica riguarda la traduzione di severe riguardo a una malattia, che viene tradotto da tutti come malattia “severa” invece di “grave”: “Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire di essere preoccupato per avere una persona cara con una malattia severa, o mai sono stato chiamato dai miei collaboratori perché era stato ricoverato un paziente severo in reparto” chiosa Rugarli con la sua ironia e sembra di vederlo, mentre scrive, con il sorriso a mezza bocca, che ben ricorda chi l’ha conosciuto.

 

 


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