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Perché l'ANVUR non convince

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Le nostre istituzioni pubbliche ci hanno ormai abituato alla presentazione di plurime versioni di documenti relativi ad atti che richiederebbero, prima di essere resi pubblici, attenta ponderazione. Emblematica in questo senso è stata la manovra finanziaria estiva, presentata in diverse versioni, una peggio dell’altra, prima di essere approvata. Stessa cosa ha pensato bene di fare l’Agenzia di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) che il 22 giugno ha reso noto un documento di “criteri e parametri” per la valutazione dei candidati che intendano accedere (non si sa quando) ai ruoli di professore universitario, salvo poi pubblicarne un mese dopo, il 25 luglio, un secondo che intendeva recepire le critiche venute da più parti (link ai documenti dell'ANVUR). Certo la materia è delicata, ma non si capisce perché un’Agenzia che doveva essere “terza”, cioè indipendente dalla politica, dal Ministero dell’Università e della Ricerca e dalla Comunità Scientifica, abbia ritenuto di soggiacere alle impellenze ministeriali. Improvvisazione? Scarsa autonomia? Forse entrambe. Certo non è un buon inizio.

Sta di fatto che anche nella sua ultima versione il documento dell’ANVUR dà adito a notevoli perplessità. Alla base della proposta ANVUR c’è un criterio statistico: il singolo ricercatore per accedere alla valutazione da parte di una commissione per diventare associato (o ordinario) deve avere una produzione scientifica superiore alla mediana di quella degli associati (o ordinari) del settore per cui chiede l’abilitazione. La mediana viene calcolata, con differenze tra i settori tecnico-scientifici, da un lato, e umanistici dall’altro, utilizzando esclusivamente indicatori bibliometrici, cioè il numero di pubblicazioni e di citazioni di queste. Nessuno sostiene che gli indicatori bibliometrici non debbano avere un ruolo nella valutazione. Ma la valutazione è fatta di molti parametri e non di uno solo, e gli indicatori statistici nella valutazione degli individui sono quanto meno problematici.

Il 17 gennaio di quest’anno l’Accademia delle Scienze francese ha presentato un rapporto (pdf) in cui evidenzia i limiti e i pericoli dell’utilizzo dei meri indicatori bibliometrici, notando come molti validi ricercatori, compresi premi Nobel, hanno indicatori quantitativi di valore basso. Giustamente l’Accademia francese mette in evidenza come gli indicatori bibliometrici “non hanno valore intrinseco” ma vanno opportunamente pesati tenendo conto, per esempio, dell’età dei ricercatori. Nonostante quanto sostenuto dal presidente dell’ANVUR in un recente articolo apparso sul “Corriere della Sera”, il rigido criterio della mediana privilegia i vecchi e/o i furbi, non i giovani appassionati alla ricerca. Privilegia le ricerche alla moda e non le nuove ricerche, che naturalmente hanno più difficoltà a essere accettate velocemente dalle riviste e spesso, nell’immediato, hanno meno citazioni. Indicazioni per certi versi simili a quelle dell’Accademia francese vengono da un documento del 21 luglio del Dipartimento Generale per l’Innovazione e la Ricerca dell’Unione Europea (pdf) che descrive, per ognuno dei quattro livelli individuati (riconducibili ai nostri “dottorando”, “ricercatore”, “associato”, “ordinario”), le competenze (che per noi sono i “requisiti di ammissione”) senza rigidità. Perché l’ANVUR non ha fatto tesoro di questi documenti? Perché l’Accademia dei Lincei è latitante?

Dando eccessivo credito al nepotismo sotto i riflettori degli organi di stampa, l’ANVUR sembra aver deciso di mortificare la valutazione qualitativa, quella fatta tra pari (peers review), pensando che questa, troppo soggettiva, finisca per favorire le camarille. Ma in questo modo si mortifica la ricerca. Altra cosa è utilizzare indicatori bibliometrici e la statistica nelle valutazioni di grandi strutture (Atenei, Centri di Ricerca, gruppi di Dipartimenti, Facoltà o Scuole). Perché l’ANVUR non è partita da qui? Sarebbe stato un vincolo non da poco al reclutamento dei singoli, responsabilizzando le commissioni a scegliere sulla base del merito. Non solo quello attestato, più o meno discutibilmente, da indicatori quantitativi, ma quello che richiede uno sforzo di analisi dei lavori per prevedere i potenziali sviluppi nel futuro sulla base della qualità delle ricerche svolte, della loro originalità e della loro autonomia. Proprio quello sforzo che ha permesso in passato e permette oggi in altri Paesi il reclutamento in base al merito. Infatti, né l’Unione Europea né i Paesi con cui ci confrontiamo si sono mai sognati di adottare criteri simili a quelli proposti dall’ANVUR.

Leggendo il documento ANVUR si trovano ulteriori “perle”. Come quella che privilegia le pubblicazioni in lingue diverse dall’italiano. In altre parole, un commentario all’opera di Dante o a quella di Petrarca scritto in lingua diversa dall’italiano vale di più. È come se le Università inglesi, nel reclutamento di un ricercatore che si occupa di storia della letteratura inglese, preferissero un commentario all’opera di Shakespeare scritto in una qualunque lingua diversa dall’inglese. O come quella che prevede che dieci lavori a singolo nome valgano meno di undici lavori firmati da dieci ricercatori. Come già osservato da un membro del Consiglio Universitario Nazionale, Giuseppe Caputo, (Riflessioni sul modello di valutazione dell'ANVUR) l’ANVUR in questo modo non propone una seria valutazione meritocratica, ma crea una selezione che ha tre obiettivi:

  • esautorare le commissioni giudicatrici consegnando al ministero le competenze sulla valutazione;
  • limitare il numero degli abilitati con criteri automatici ampiamente indipendenti dal merito;
  • mantenere lo stato di fatto all’interno dei vari settori disciplinari, garantendo a ogni settore una quota di abilitati a prescindere dall’originalità e dall’impegno nella ricerca. 

Un altro passo per realizzare la distruzione della ricerca italiana.


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