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Modernità e ambivalenza

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Se lo dice e lo scrive Zygmunt Bauman sarà vero. Eppure, anche con Bauman, occorre andarci piano. Come tutti sappiamo, Bauman è un intellettuale di grandissimo spessore. Le sue analisi sociologiche e filosofiche fanno scuola nelle accademie di tutto il mondo e, soprattutto, riescono a fare breccia anche nella pubblica opinione. Tradotti in tutto il mondo, i saggi di Bauman scalano infatti puntualmente le classifiche dei libri più venduti. Così è stato per “Modernità e Olocausto” (1991), per “Dentro la globalizzazione” (1998), per “Modernità liquida” (2000), per “Homo consumens” (2007), per “Capitalismo parassitario” (2009) e anche per “Modernità e ambivalenza”.

Pubblicato in Inghilterra nel 1991 e soltanto di recente tradotto in Italia per i tipi della Bollati Boringhieri, “Modernità e ambivalenza” è il forse il libro che più di tutti esplicita l’essenza stessa della rigorosa ermeneutica baumaiana. Per l’intellettuale polacco la modernità si fonda su un progetto preciso, quello di gestire, manipolare e ingegnerizzare la realtà. “Quando è nata la modernità?”, si chiede il sociologo. “La questione è controversa: non c’è accordo sulla datazione né su ciò che bisogna datare. E una volta che si comincia a provarci sul serio, l’oggetto stesso della datazione inizia a scomparire”.

Ciononostante c’è un sigillo che ci permette di identificare l’epoca moderna, e questo sigillo è la voglia di ordinare e classificare il mondo, di estirpare la realtà dal vortice del caos. “Ordine e caos sono gemelli moderni, concepiti nel mezzo dello sconvolgimento e del crollo del mondo ordinato da Dio, un mondo che non aveva idea della necessità né del caso; un mondo che si limitava a essere, senza nemmeno porsi il problema di come”. Ecco, secondo Bauman, è proprio nel momento in cui si comincia a riflettere su che tipo di ordine dare alla realtà che comincia la modernità. Noi, che a detta di molti siamo ormai post-moderni, veniamo da un’epoca in cui si è scoperto che l’ordine non è affatto un dato naturale e che dunque diventa necessario crearlo. “La natura è il silenzio dell’uomo” e con questo inquietante silenzio l’uomo moderno ha dovuto in qualche modo imparare a convivere. Impresa non facile, che ha richiesto una sorta di mutazione antropologica. Bauman rende questa trasformazione con una delle sue metafore più celebri: con l’avvento della modernità si è passati dal modello di  uomo “guardiacaccia” (preservatore o al massimo manutentore di un ordine preesistente) a un modello di uomo “giardiniere” (creatore di un ordine che altrimenti non esisterebbe). Si passa dalla contemplazione di ordine creduto imperituro alla creazione di un ordine fin dall’inizio saputo instabile eppure, proprio per questo, affannosamente, sempre più affannosamente, inseguito. Le scienze, naturali e sociali, nascono con questo scopo preciso: la modellazione della realtà naturale e umana. L’esistenza è moderna nella misura in cui è amministrata da organi sovrani, pieni di risorse e di tecnologia, organi che difendono con successo il loro diritto a definire l’ordine, e di conseguenza a emarginare il caos come “scarto che sfugge alla definizione”. È in questa dialettica che si innesta la “la pratica più tipicamente moderna – osserva Bauman – quella costituita dallo sforzo di estirpare l’ambivalenza: uno sforzo di definire con precisione, e di cancellare o eliminare tutto ciò che non si riesce a definire o non si lascia definire con precisione”. In questo senso l’intolleranza si configura come uno degli atteggiamenti più propri della modernità. Se ordine deve essere, infatti, non potrà che essere “unico”. Si prenda la globalizzazione. Essa non teorizza affatto la libertà, l’integrazione e la ricchezza per tutti, bensì al contrario l’esclusione di tutto ciò che è “diverso”. Bauman descrive questo furioso meccanismo illuminandolo con considerazioni che partono dalla letteratura, dalla filosofia, dal cinema, dalle religioni e, ovviamente, dalla sociologia. Ci parla delle ambizioni legislatrici della ratio moderna, della parabola della categoria di “straniero”, delle pratiche assimilatorie esercitate sugli ebrei europei, ci parla di Kafka, di Simmel, di Freud, di Derrida e di Jaubès. Ci parla di scienza. Il tutto, come qualcuno avrà già ampiamente intuito, sulla base delle intramontabili tesi di Theodor Adorno e Max Horkheimer. Ecco, è proprio qui che nascono alcune perplessità.

Sia detto con il massimo rispetto, di Adorno e Horkeimer e della loro “Dialettica dell’Illuminismo” si è disposti a salvare tutto, tranne che la tendenza a condannare tutto ciò che abbiano prodotto la scienza e la mentalità scientifica. La tecnofobia è stato il male oscuro di tanta, troppa, intellighenzia del secolo scorso e davvero non si avverte il bisogno di allevare nuove leve di intellettuali nutrendole con l’equazione tra scienza, modernità e distopiche ambizioni di annientamento del diverso e dell’irrazionale. “La scienza moderna – scrive Bauman – nasce dall’ossessiva ambizione di conquistare la Natura e subordinarla alle esigenze umane”. Ammesso che sia vero, da qui al genocidio ce ne passa. Eppure in molte pagine questa (sottile?) distanza sembra svanire del tutto.

Bauman è un grande interprete dei nostri tempi e come tale va letto e studiato. Ma con cautela.


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