Il limite della terapia anti-retrovirale di combinazione (cART) è quello di fermare la replicazione di HIV in modo quasi assoluto (emergenza di ceppi resistenti a parte), ma di non scalfire i serbatoi d’infezione latente o persistente [1]. Questo è il motivo per cui, ad oggi, è noto solo il caso di Timothy Ray Brown che, a seguito di due trapianti di midollo HLA compatibile da donatore omozigote per la delezione ∆32 del gene CCR5 (un corecettore obbligatorio per l’infezione virale in associazione al recettore primario CD4) è risultato curato “funzionalmente” dal virus HIV.
Il termine “cura funzionale” indica la soppressione del numero di cellule infettate a livelli non misurabili con le pur sofisticate e sensibili metodiche odierne, che, anche in assenza di farmaci antivirali, non siano più in grado di propagare l’infezione ad altre cellule bersaglio.
Un correlato importante della “cura funzionale” è che il virus residuo non possa essere trasmesso ad altri per via sessuale, ematica o da madre a feto o bambino. Si tratta di un obiettivo pre-finale, in quanto lo stato di “eradicazione” - ovvero di sterilizzazione dal virus - è forse impossibile da dimostrarsi, ammesso che possa essere raggiunto [1].
Ebbene, la 20esima Conferenza sui Retrovirus e le Infezioni Opportunistiche (CROI) conclusasi da pochi giorni ad Atlanta in Georgia, USA (sede dei Centers for Disease Control che, per primi, hanno descritto in uno scarno bollettino l’emergenza di una nuova patologia mortale che colpiva gli omosessuali maschi nel 1981 [2]) ha acceso i riflettori mondiali sul probabile secondo caso di paziente “curato funzionalmente”: una bambina di 28 mesi nata prematura spontaneamente per via vaginale in un’area rurale del Mississippi da una madre sieropositiva, il cui stato d’infezione è stato acclarato durante il parto e che quindi non ha ricevuto farmaci antiretrovirali durante la gravidanza.
La diagnosi d’infezione da HIV-1 della bambina è stata confermata da due test indipendenti che hanno dimostrato la presenza sia di DNA che di RNA (che ha raggiunto circa 20,000 copie di RNA/ml - poche, per un neonato in cui si possono osservare valori anche di milioni di copie/ml), per cui è iniziata subito, fin dalla 31esima ora di vita, una cART standard (ZT+3TC+Nevirapina) interrotta per motivi non chiari al 18esimo mese di vita. Test successivi ai giorni 6,12 e 20 di vita hanno confermato lo stato d’infezione della neonata e la sua attesa risposta alla terapia, ma dal giorno 29 in poi tutti gli indicatori d’infezione si sono negativizzati. Un test ultrasensibile, eseguito al 24esimo mese di vita, ha dimostrato una singola copia di RNA plasmatico, ma non la presenza di DNA virale. Altre tracce d’infezione sono state poi confermate al 26esimo mese. Ilinfociti T CD4+ della bambina sono rimasti sempre a livelli normali, sia durante la terapia che dopo la sua sospensione. Dal punto di vista genetico, sia la madre che la bambina sono portatrici del gene CCR5 selvatico e condividono la maggioranza di alleli HLA senza evidenza di alleli protettivi, come discusso in seguito.
Ogni tentativo di isolare il virus (quindi di dimostrarne la capacità replicativa) dalla bambina è fallito anche quando sono stati utilizzati 22 milioni di leucociti circolanti. Inoltre, non sono state dimostrate evidenze della presenza di anticorpi anti-HIV, né di risposte cellulo-mediate agli antigeni più comuni (Gag, Nef), il che ha suggerito ai ricercatori che il virus non abbia potuto integrarsi stabilmente e costituire i classici serbatoi virali d’infezione latente che ne garantiscono la persistenza in un individuo vita natural durante [3]. Alternativamente (ipotesi questa che personalmente ritengo più sostenibile scientificamente) è possibile che la combinazione di una terapia precoce e della presenza di anticorpi materni anti-HIV (e forse di un virus parzialmente difettivo o attenuato) abbiano eliminato le prime cellule infettate o le abbiano ridotte numericamente a un livello così basso da non permettere la propagazione del virus, anche in seguito alla sospensione della terapia antivirale
E’ qui importante sottolineare la distinzione tra “cura funzionale” ed altre rare (meno del 5% degli individui infettati) forme spontanee di controllo della replicazione virale e della progressione di malattia, quali le persone definite “long-term non progressor (LTNP)” e gli “Elite/HIV Controller (ELC/HIC)”. Queste persone, senza mai aver assunto farmaci antiretrovirali, sono in grado di mantenere, oltre a buone condizioni generali di salute, anche i loro linfociti T CD4+ circolanti - al di sopra di 500 cellule/µl - per molti anni, addirittura decenni (nel caso degli LTNP) o i livelli di virus circolante (viremia) al di sotto della soglia di rilevazione (in genere, meno di 50 copie di RNA virale/ml nel caso dei ELC) per almeno 12 mesi [4]. Tra i fattori che determinano queste condizioni favorevoli di risposta all’infezione, i più noti sono l’eterozigosi CCR5-∆32, che riduce i livelli di espressione in superficie del corecettore necessario al virus per infettare le cellule CD4+, e il possedere alcuni alleli del complesso maggiore d’istocompatibilità (MHC), in particolare della classe I (HLA-B27 e B-57) o non possederne altri (B35).
Più recentemente, è emersa una nuova categoria di pazienti in grado di controllare l’infezione e la progressione di malattia, almeno per un certo periodo. Sono persone infettate accomunate dal fatto di avere iniziato una cART molto precocemente, durante la loro infezione primaria, ed averla mantenuta per alcuni anni per poi interromperla. Queste persone, descritte da un team francese come la “Coorte Visconti” [5] controllano per diversi anni la loro viremia spontaneamente (senza dover ricominciare la terapia) ed è importante, oltre che curioso, sottolineare che, a livello genetico, non possiedano gli alleli protettivi del sistema MHC, ma, anzi, sia frequente la presenza di HLA-B35, un allele ritenuto “cattivo”.
E’ possibile che la bambina del Mississippi sia un esempio di “Visconti” pediatrico?
Che cosa ci insegna questo nuovo caso che mantiene comunque diversi aspetti che dovranno essere verificati nel tempo prima di poter concludere definitivamente che “il paziente di Berlino non è più solo”? Il primo insegnamento è che il bambino “non è un piccolo uomo”, come si dice nei corsi di pediatria all’università, ed ha forse risorse superiori per superare alcune patologie, anche se, almeno nei primi mesi di vita, deve contare sugli anticorpi materni per difendersi dalle infezioni. Conoscere meglio lo sviluppo del sistema immunitario del bambino potrebbe rivelare nuovi meccanismi di controllo dell’infezione da HIVe di altri virus in generale.
Il secondo, e più generale, insegnamento che ci viene dalla piccola bambina del Mississippi (ma soprattutto dai suoi curanti) è che non bisogna mai perdere la speranza di superare gli ostacoli che oggi appaiono insormontabili nel progresso della conoscenza scientifica e della medicina, messaggio fondamentale per tutti i soggetti pubblici e privati responsabili dei finanziamenti alla ricerca biomedica. Purtroppo, come sottolineato anche da queste colonne, l’Italia sembra aver rinunciato (definitivamente?) ad essere protagonista nell’ambito della ricerca sull' HIV (se non per i livelli eccellenti delle proprie strutture assistenziali e della loro ricerca clinica, principalmente finanziata dalle multinazionali farmaceutiche). Auguriamoci quindi che il messaggio di speranza che viene dalla conferenza di Atlanta contagi i nostri politici perché anche l’Italia possa ritornare tra i protagonisti della ricerca a tutto campo nell’ambito di una delle patologie più importanti della nostra era, che continua a propagarsi nonostante i progressi ottenuti in questi anni.
Referenze:
[1] Deeks SG, Autran B, Berkhout B, Benkirane M, Cairns S, Chomont N, et al. "Towards an HIV cure: a global scientific strategy". Nature reviews. Immunology 2012,12:607-614.
[2] Pneumocystis pneumonia--Los Angeles. "MMWR. Morbidity and mortality weekly report" 1981,30:250-252.
[3] Cohen J. HIV/AIDS. "Early treatment may have cured infant of HIV infection". Science 2013,339:1134.
[4] Grabar S, Selinger-Leneman H, Abgrall S, Pialoux G, Weiss L, Costagliola D. "Prevalence and comparative characteristics of long-term nonprogressors and HIV controller patients in the French Hospital Database on HIV". Aids 2009,23:1163-1169.
[5] Goujard C, Girault I, Rouzioux C, Lecuroux C, Deveau C, Chaix ML, et al. "HIV-1 control after transient antiretroviral treatment initiated in primary infection: role of patient characteristics and effect of therapy".Antiviral therapy 2012,17:1001-1009.