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Dovere di accoglienza

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Il soffitto della sala dello Human Rights Council. Crediti: United States Mission Geneva/Flickr. Licenza: CC BY-ND 2.0

Rifiutare l'approdo in un porto a una nave che ha salvato persone in mare è un reato. Anche respingere i richiedenti asilo è reato. E l'immunità, richiesta con successo dal ministro dell'interno per la vicenda della nave Diciotti, non dovrebbe essere data. Questo, almeno, secondo il diritto internazionale.  

Per quanto riguarda il primo punto, le persone soccorse in mare devono essere trasportate nel porto sicuro più vicino alla zona del salvataggio. Sia la chiusura dei porti, sia il divieto di sbarco violano l’articolo 98 della convenzione sulla salvaguardia della vita umana in mare, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare Unclos (United Nations Convention on the Law of the Sea) adottata a Montegobay, in Giamaica, da 155 Stati, il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia nel 1994, che impone l’obbligo di prestare soccorso e gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché le persone soccorse hanno necessità di cure mediche e di generi di prima necessità e sono esposte a condizioni disumane e degradanti e al rischio di perdere la vita.

Quando, poi, tra i naufraghi ci sono persone a buon diritto richiedenti asilo, entrano in gioco l’articolo 33 della convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e l’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta i respingimenti (“le espulsioni collettive di stranieri sono vietate“). Per quanto, invece, riguarda la seconda questione, secondo l’articolo 17 (Divieto dell’abuso di diritto), “nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, di un gruppo o di un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”. 

I diritti umani definiti fondamentali, in quanto considerati la base della convivenza umana tra le nazioni e all’interno delle nazioni stesse, sono sottoposti alla tutela del diritto internazionale. Nel XLII Seminario internazionale di studi italo-tedeschi, tenutosi a Merano nel novembre 2014, Flavia Lattanzi (professoressa ordinaria di Diritto internazionale all’Università degli Studi Roma Tre e già giudice presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda e per l’ex-Jugoslavia) ha ricordato che, proprio per proteggere questi valori, gli Statuti dei tribunali penali internazionali contengono la norma che esclude l’immunità, prevedendo la competenza ratione personae nei confronti di qualsiasi individuo, a prescindere dalla sua qualifica ufficiale, in base al principio che il miglior deterrente per ogni reato è rappresentato dal rischio dell’individuo di essere penalmente perseguito, senza poter far valere responsabilità dello Stato:

The official position of any accused person, whether as Head of State or Government or as a responsible Government official, shall not relieve such person of criminal responsibility nor mitigate punishment (Art. 7 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia adottato il 25 maggio 1993 e modificato il 13 maggio 1998)

L’articolo 27 dello Statuto di Roma precisa:

This Statute shall apply equally to all persons without any distinction based on official capacity. In particular, official capacity as a Head of State or Government, a member of a Government or parliament, an elected representative or a government official shall in no case exempt a person from criminal responsibility under this Statute, nor shall it, in and of itself, constitute a ground for reduction of sentence. 2. Immunities or special procedural rules which may attach to the official capacity of a person, whether under national or international law, shall not bar the Court from exercising its jurisdiction over such a person

Anche se, nella fattispecie, questi organismi giuridici internazionali fanno riferimento a crimini di ben altra portata, non sfugge la possibile estensione della validità del principio per il quale la responsabilità di un reato di leso diritto umano è personale e non ascrivibile a un’entità astratta come la volontà popolare espressa con il voto.

 


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Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico: