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Il DNA antico oltre i fossili

La scarsità di fossili di ominini ha costretto a lungo le ricerche in aree geografiche limitate; oggi, però, tecniche innovative, e in particolare lo studio del DNA ambientale, rendono possibile recuperare il genoma di antiche forme viventi a partire dalle tracce biologiche lasciate, aprendo per la ricerca la possibilità di definire le zone dove nel passato l’umanità si è insediata e le diverse specie possono aver convissuto e interagito.

Crediti immagine: Wellcome Images/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY 4.0 DEED

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Svante Pääbo, Premio Nobel 2022 per la fisiologia o la medicina per aver ottenuto la sequenza genetica dell’uomo sia di Neandertal che di Denisova (un popolo che ha abitato la Siberia tra circa 350.000 e 40.000 anni fa), ha organizzato presso l’Istituto Max Planck per l’Antropologia Evoluzionistica di Lipsia, di cui è direttore dal 1997, un gruppo di ricerca internazionale che ha messo a punto tecnologie innovative per acquisire il DNA antico da materiale estraneo ai reperti fossili di animali e al loro interno di ominini. E così, in particolare, di tracciare la storia evolutiva dell’umanità anche in assenza dei resti fossilizzati dei nostri antenati.

Fino a ora tutto ciò non era possibile e la scarsezza di ossa fossili ominine riportate alla luce aveva costretto gli studiosi a limitare le indagini ad aree geografiche circoscritte, rendendo lacunosa la ricostruzione dei movimenti migratori e delle relazioni intercorrenti tra i gruppi umani. Quel vincolo oggi è stato spezzato e ogni sito archeologico può divenire interessante per le ricerche degli antropologi, al fine di definire in maniera accurata le zone dove nel passato l’umanità si è insediata e le diverse specie possono aver convissuto e interagito. Il particolare, la tecnica del DNA ambientale – questo il nome del DNA che si ottiene con le nuove tecnologie – consente di recuperare il genoma di antiche forme viventi a partire dalle tracce biologiche che queste hanno lasciato nei sedimenti dei siti archeologici come peli, escrementi, frammenti di tessuti molli decomposti o particelle polverizzate di ossa e denti. O tracce di sudore o saliva lasciate su un qualche materiale poroso (su materiali lisci si perdono) di natura organica o non.

Nei primi mesi del 2021 è stato possibile rinvenire DNA nucleare neandertaliano nei sedimenti di due grotte siberiane, Denisova e Chagyrskaya, che era assolutamente comparabile con quello ottenuto in precedenza sui resti fossili trovati nei medesimi siti, e lo studio ha evidenziato la presenza di due popolazioni distinte ma al loro interno omogenee. Una ricerca condotta contemporaneamente sui sedimenti di un sito della Spagna settentrionale (la grotta delle statue), ha rivelato che due diversi gruppi neandertaliani lo avevano occupato: uno più antico e poi circa 100.000 anni fa un altro aveva trovato ricovero nella grotta, forse spinto lì dal picco di freddo che stava interessando l’Europa a quella data: l’inizio dell’era glaciale würmiana.

Sempre nel 2021 sono state ottenute sequenze di DNA mitocondriale da 728 campioni di sedimenti prelevati nella grotta di Denisova. E lo studio genetico ha identificato diverse specie animali che l’hanno frequentata nel corso del Pleistocene, compresi i nostri antichi parenti denisovani e neandertaliani e i più antichi uomini moderni. Il primo ominino a occupare la grotta è stato l’uomo di Denisova, 250.000 anni fa, molto verosimilmente il produttore della più antica industria litica lì rinvenuta; poi è arrivato l’uomo di Neandertal, 190.000 anni fa, probabilmente a causa del drastico abbassamento delle temperature in coincidenza con l’inizio della glaciazione Riss; e infine, attorno a 50.000 anni fa, l’uomo moderno produttore degli strumenti di pietra tipici del Paleolitico superiore. Il DNA mitocondriale denisovano è stato recuperato anche dai sedimenti della grotta carsica Baishiya in Tibet, a dimostrazione che circa 100.000 anni fa, e forse anche dopo, l’areale di distribuzione di quel nostro parente era piuttosto estesa.

Il caso che certamente ha più incuriosito la comunità scientifica riguarda un ciondolo realizzato circa 20.000 anni fa: un dente di cervo trovato nel 2019 in una grotta nella Siberia Sud-Occidentale da due archeologi russi. Il reperto è stato inviato al gruppo di Pääbo, che è riuscito a trovare le tracce di DNA ominino sulla sua superficie porosa. E quel DNA era stato lasciato dal sudore e dalle cellule epidermiche della donna che aveva indossato per ultima il “monile” e che è risultata essere originaria della zona nei pressi del lago Bajkal, lontano quindi circa duemila chilometri a est dal luogo dove è stato riportato alla luce il ciondolo: una donna antenata delle popolazioni delle steppe dell’età del bronzo dedite alla pastorizia.

La tecnica messa a punto dai ricercatori dell’Istituto Max Planck è per la prima volta non invasiva, come invece accade quando si lavora sui resti ossei fossilizzati. Infatti, consiste nell’immergere l’oggetto in un bagno di soluzione tampone di fosfato di sodio a temperatura di oltre 90°C per ottenere il DNA. Questo metodo non funziona con materiale non poroso, come gli strumenti litici, che non riescono a intrappolare le molecole di DNA proprio perché lisci, a differenza di quanto avviene con ossa e denti.

L’importanza della storia del ciondolo non sta solo nell’avanzamento tecnologico per il recupero del DNA antico, che già non sarebbe poco, quanto anche per le informazioni di carattere culturale relative agli antichi popoli, come l’uso di ornamenti e utensili. Ancora, il DNA trovato in molti dei campioni di sedimenti prelevati nel 2021 a Denisova, come abbiamo detto, apparteneva a varie altre specie animali e questo tipo di informazioni è fondamentale per ricostruire le caratteristiche biologiche dell’ambiente in cui gli antichi ominini sono vissuti. Così come per conoscere, almeno in parte, la dieta dei nostri antenati. Le impronte genetiche non ominine più comuni rinvenute appartenevano agli antenati di iene, bovini, cavalli, cervi e cani. E certamente alcuni di questi animali sono entrati nella dieta ominina.

La tecnologia del DNA ambientale è entrata rapidamente nei programmi di ricerca di svariati altri gruppi di ricerca, che hanno rilevato in siti archeologici sparsi in varie parti del mondo il corredo genetico di animali preistorici come il mammut lanoso, il rinoceronte lanoso e l’orso delle caverne. Relativamente alla storia evolutiva degli orsi nelle Americhe, un tassello importante è venuto dai sedimenti della caverna Chiquihuite in Messico, dove è stato possibile ottenere il genoma di tre orsi neri e di un orso dal muso corto vissuti circa 16.000 anni fa. Al momento, i campioni di sedimenti raccolti dagli scienziati coprono un arco temporale che spazia da oltre 500.000 a circa 15.000 anni fa e questo materiale è di fondamentale importanza per aiutare a meglio comporre non solo la storia della nostra evoluzione, quanto anche quella degli altri animali.

 


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