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Breve storia dell'adattamento

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Ghiacciaio del Qooroq (Groenlandia). Il bordo del ghiacciaio si frammenta e crolla. Blocchi di ghiaccio grandi come edifici precipitano ogni giorno. Credits: photo by joxeankoret - Flick. Licenza: CC BY-SA 2.0.

 

Premessa

Oggetto di questo articolo è la storia dell’ascesa delle strategie di adattamento per affrontare il cambiamento climatico. Cominciamo con due dati.

Il primo. La pianta del cacao cresce soltanto in un’area ristretta intorno all’Equatore; ha bisogno di temperature costanti e abbondante pioggia tutto l’anno. Metà della produzione mondiale proviene da due paesi: Ghana e Costa d’Avorio. Un recente studio pubblicato sulla rivista Climatic Change ha avvertito che sulla base dell’attuale tendenza meteorologica e climatica, il 90% del territorio di quei due paesi diverrà inadatto per la coltivazione del cacao entro il 2050. Le aree agricole dei due paesi dovranno quindi essere riconvertite nei prossimi anni ad altre coltivazioni.

Il secondo. Lafitte, Cocodrie, Delacroix, Dulac, Grand Isle, Isle de Jean Charles, Kraemer, Leeville, Paradis, Pointe-aux-Chenes, Venice: sono cittadine sulla costa della Louisiana, gli abitanti, circa 350.000, vivono prevalentemente di pesca. Secondo un rapporto pubblicato nel febbraio del 2018 dal New York Times sono destinate a scomparire entro pochi decenni a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano provocato dal cambiamento climatico: le opere idrauliche necessarie per organizzare una sopravvivenza hanno un costo che lo Stato della Louisiana non è in grado di affrontare: per la sola messa in sicurezza di Lafitte, uno dei borghi in pericolo, e dei suoi 7.000 abitanti, sono necessarie opere per più di un miliardo di dollari.

L’adattamento al cambiamento climatico: da disfattismo a strategia primaria

Campagna Oxfam sugli impatti del cambiamento climatico. Ainhoa Goma/Oxfam

Il cambiamento climatico può essere affrontato con due diverse strategie: la mitigazione e l’adattamento. La mitigazione interviene sulle cause del cambiamento climatico e consiste in interventi idonei a contenere/ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’attività dell’uomo fino al raggiungimento di livelli di emissioni sostenibili. L’adattamento consiste in interventi idonei a ridurre gli effetti negativi del cambiamento climatico e a sfruttare le conseguenze positive.

Con il mutare del clima, molti sistemi naturali, e la fauna e la flora che li compongono, si stanno trasformando: i ghiacci si sciolgono, il livello degli oceani aumenta mettendo a rischio isole e aree costiere, aree prima fertili o coperte da foreste si inaridiscono, la desertificazione aumenta. Ci sono una moltitudine di strategie per affrontare la nuova realtà: la realizzazione di opere idrauliche e irrigue, di dighe e barriere, la scelta di coltivazioni più idonee alle nuove condizioni climatiche, l’individuazione di nuove risorse in precedenza indisponibili, come per esempio nuovi percorsi navigabili, sfruttamento di risorse minerarie prima irraggiungibili. Si stanno anche elaborando nuovi prodotti assicurativi: nel gennaio del 2018 è stato annunciato l’avvio di uno schema assicurativo, InsuResilience Initiative, per assistere agricoltori nelle zone dell’Africa più esposte alle inondazioni provocate dai cambiamenti climatici con l’obiettivo di assicurare 400 milioni di agricoltori entro il 2020. Oppure possono essere scelte più drastiche: trasferimenti di villaggi e insediamenti esistenti e, in taluni casi, migrazioni verso nuove destinazioni. Sono scelte che talora permettono di mantenere una vita simile a quella precedente, talora impongono forti e radicali cambiamenti. Sono tutte scelte riconducibili alle strategie di adattamento.

Tra la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, allorché si profila l’emergenza clima, e gli anni immediatamente successivi alla firma della Convenzione Quadro sul cambiamento del 1992, sono state privilegiate, tanto a livello internazionale quanto nell’ambito dei singoli Stati, le strategie di mitigazione, quindi di riduzione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. L’adattamento era considerato un’idea inaccettabile e politicamente scorretta.

Poi, dopo che la scelta per la mitigazione era stata pressoché unanimemente approvata e fissata nella Convenzione Quadro prima e nel Protocollo di Kyoto poi hanno preso sempre più consistenza i dubbi sul buon esito delle azioni di mitigazione a fronte del continuo aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e le strategie di adattamento hanno cominciato a essere prese in considerazione. Ne è un segno il progressivo mutare del contenuto dei rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC. Nel primo Rapporto del 1990 l’adattamento, seppur preso in considerazione nel terzo volume “The IPCC Response Strategies”, non è mai nominato. Il terzo Rapporto del 2001 dedica all’adattamento l’intero secondo volume (denominato “Impacts, Adaptation and Vulnerability”), mentre la mitigazione è trattata nel terzo volume.

Tuttavia, ancora nel 2009 Thomas Lovejoy, il prestigioso esperto di biodiversità statunitense, osservava che esse solo in quell'anno cominciavano a ricevere la dovuta attenzione.

Solo da qualche anno le strategie di adattamento sono divenute componenti essenziali di una strategia onnicomprensiva per il contenimento del cambiamento climatico, connesse con le politiche di sviluppo e di sviluppo sostenibile. Verso queste strategie si dirige una parte sempre più consistente dei fondi destinati a finanziare iniziative per contrastare il cambiamento climatico. La ragione è semplice: è ormai diffusa la convinzione che le strategie di mitigazione non riusciranno a contenere il cambiamento climatico e le sue conseguenze e che l’obiettivo posto dall’Accordo di Parigi del dicembre 2015, consistente in azioni di contenimento del riscaldamento globale in misura non superiore ai 2° gradi rispetto al livello dell’era preindustriale, si sta rivelando sempre più difficile (e secondo molti impossibile) da raggiungere, poiché sarebbe necessario un impossibile azzeramento di tutte le emissioni di gas serra entro pochi decenni.

Che cos’è l’adattamento al cambiamento climatico?

Agricoltura in Burkina Faso. Foto di P. Casier (CGIAR).

Il concetto di adattamento è restato per un lungo periodo sfuggente ed è tuttora utilizzato con vari significati sia dalle organizzazioni e istituzioni pubbliche sia nella letteratura scientifica, economica e giuridica. La ragione è data anche dall’ambivalenza dell’espressione, che si riferisce sia alle attività poste in essere, sia al risultato che viene conseguito, sia alle finalità perseguite. È solo nella seconda parte dello scorso decennio che si avvia uno sforzo per definire con maggiore precisione in che cosa consista l’adattamento. Tuttavia, l’espressione continua a indicare una pluralità di significati assai diversi l’uno dall’altro. Ecco quattro definizioni, tutte provenienti da organismi pubblici.

  • Quarto rapporto dell’IPCC (2007): è “l’adeguamento dei sistemi naturali o umani in risposta agli stimoli climatici attuali o attesi o ai loro effetti, che permette di ridurre i danni o sfruttare le vantaggiose opportunità”1;
  • Commissione dell’Unione europea: è l’insieme di “azioni prese per adeguare gli ecosistemi naturali o i sistemi umani, così che essi possano far fronte a nuove condizioni determinate dal cambiamento climatico, con lo scopo di ridurre i danni potenziali o generare benefici potenziali”;
  • Agenzia europea per l’ambiente (EEA): è l’insieme di “politiche, pratiche e progetti aventi come obiettivo quello di attenuare i danni e/o realizzare opportunità associate al cambiamento climatico”2;
  • United Nations Development Programme (UNDP): è il “processo strutturato per lo sviluppo di strategie, politiche e misure finalizzate ad accrescere ed assicurare lo sviluppo umano di fronte al cambiamento climatico, inclusa la variabilità del clima”3.

Come si vede, per l’IPCC e la Commissione UE l’adattamento consiste in strategie di adeguamento ai cambiamenti climatici; per l’EEA consiste in strategie più complesse, che coinvolgono politiche e progetti; per l’UNDP è ancora qualcosa di più, un processo che, a fronte del cambiamento climatico, si propone di accrescere lo sviluppo umano.

Queste quattro definizioni illustrano che ci sono diversi modi di concepire l’adattamento (che, nelle scelte concrete, possono concorrere). Per la concezione più semplice è una strategia di riduzione della vulnerabilità o dell’esposizione ai cambiamenti del clima, incrementando le capacità di farvi fronte. Una seconda concezione inserisce anche azioni di correzione di situazioni esistenti, in modo da migliorare le modalità con le quali si possono affrontare gli effetti del cambiamento del clima. Una terza concezione, indicata generalmente come adattamento trasformativo, ricomprende le iniziative volte a preparare l’assetto economico e sociale esistente per un clima diverso da quello presente in modo da limitare i danni e sfruttare le potenzialità. Adottando quest’ultima concezione, l’adattamento non è limitato solo a prevenire gli effetti negativi del cambiamento; diviene anche un’opportunità per operare riforme politiche, economiche e sociali che modifichino le disuguaglianze provocate dallo sviluppo e limitino comportamenti ambientalmente o climaticamente insostenibili: è quindi un’opportunità di creare un futuro diverso.

Molti distinguono poi tra adattamento reattivo e adattamento preventivo. Il primo consiste in reazioni al verificarsi degli effetti del cambiamento climatico e nella predisposizione di sistemi d’emergenza e di protezione civile. Il secondo si propone di anticipare e contenere gli effetti: è il caso di interventi di modifica nelle politiche agroalimentari o nelle politiche urbanistiche (un settore degli interventi tecnologici progettati nella realizzazione delle cosiddette smart cities è dedicato proprio alla predisposizione di strutture idonee a far fronte al mutamento del clima).

Infine, l’adattamento deve essere distinto dalla semplice resilienza, che consiste nella capacità di un sistema naturale o sociale di assorbire i mutamenti conservando la propria modalità di funzionamento e nella capacità di adattarsi ai cambiamenti. Caratteristica di un sistema con un elevato livello di resilienza è il mantenimento in funzione di comportamenti preesistenti anche in caso di repentini cambiamenti dell’ambiente circostante.

È proprio con riferimento a questa nozione di resilienza che per un lungo periodo l’adattamento è stato considerato un processo prevalentemente spontaneo, che non aveva bisogno di interventi a livello internazionale o statale: l’adattamento era inteso come la capacità delle società di adattarsi e dall’abilità di porre in essere azioni collettive. Questo affidamento sulle capacità spontanee degli individui e dei gruppi di dare risposte alla sfida del cambiamento caratterizza il primo Rapporto pubblicato dall’IPCC nel 1990: l’adattamento era considerato come il risultato di capacità sempre esistite nel corso della storia umana più che di coordinati interventi autoritativi. Si afferma nel Rapporto che “mentre va rilevato il bisogno di strategie di adattamento, deve anche essere riconosciuto che l’adattamento al clima è almeno tanto antico quanto gli esseri umani”. Solo in seguito ci si è resi conto che reazioni e comportamenti dei singoli o di specifiche comunità che a prima vista appaiono dettati da scelte autonome (un agricoltore può cambiare tipologia della coltivazione scegliendone una più resistente, può assicurarsi, può cercare terreni più idonei alle sue coltivazioni, può in casi limite abbandonare la sua attività) sono il risultato di scelte dettate dalle informazioni disponibili, dal comportamento di altri agricoltori, dai segnali ricevuti dalla politica o dagli incentivi di mercato.

Nei prossimi capitoli seguiremo l’evoluzione della concezione di adattamento a seguito del ridursi dell’ottimismo sulle strategie di mitigazione.

1989-1994 - Verso la Convenzione quadro: l’adattamento è espressione di disfattismo

Manifestazione di AdaptNow! sull'adattamento, Londra.

Negli anni tra il 1989 e il 1992 si svolgono gli incontri preparatori per l’elaborazione della Convenzione Quadro sul contenimento del cambiamento climatico. Gli scienziati e gli esperti di questioni climatiche erano decisamente a favore delle strategie di mitigazione: il successo ottenuto pochi anni prima con la Convenzione di Vienna (nel 1985) e con la firma del Protocollo di Montreal (1987) per la protezione della fascia di ozono e per la messa al bando dei gas che ne operavano la distruzione alimentava la convinzione che lo stesso metodo avrebbe potuto essere applicato con successo anche per il cambiamento climatico, imponendo quindi la riduzione delle emissioni di gas serra. Solo negli anni seguenti ci si sarebbe scontrati con le profonde diversità delle due emergenze ambientali sotto il profilo economico, politico e sociale.

Le tesi a favore della mitigazione erano vigorosamente sostenute anche dalle organizzazioni ambientaliste che ritenevano la scelta dell’adattamento una comoda scorciatoia per evitare di affrontare il problema e per attenuare la determinazione della comunità internazionale e dei singoli governi nell’attuare strategie di riduzione delle emissioni.

Nell’atteggiamento a favore della mitigazione c’era anche una forte componente etica che tendeva a colpevolizzare chiunque non si adoperasse per adeguare il proprio comportamento e il proprio stile di vita (e l’impronta ecologica determinata dalle sue scelte di vita) per ridurre le emissioni. Sulla base di questi presupposti, ancora oggi la maggior parte delle controversie giudiziarie direttamente o indirettamente proposte da organizzazioni ambientaliste riguardano limiti o inadempienze degli Stati nell’attuare strategie di mitigazione.

L’adozione di strategie di mitigazione era, per diverse ragioni, sostenuta anche da tutti i paesi che avrebbero firmato la Convenzione. I paesi in via di sviluppo avevano tutto da guadagnare da questa scelta, perché contavano di imporre - come sarebbe poi accaduto - che, quantomeno in un primo periodo, le azioni di mitigazione sarebbero state a esclusivo carico dei paesi ricchi. La scelta era però sostenuta anche dai paesi sviluppati, preoccupati di dover sostenere, oltre ai costi delle strategie di mitigazione, che già prevedibilmente sarebbero stati a loro carico, anche quelli per finanziare gli interventi di adattamento negli Stati meno sviluppati e, in particolare, nei paesi più esposti ai rischi degli effetti del cambiamento climatico (come sarebbe poi avvenuto, allorché diverrà chiaro che le strategie di mitigazione non producevano i risultati sperati).

In sostanza, sostenere l’importanza dell’adattamento era considerato in alcuni casi espressione di un’immotivata e fatalistica fiducia nel progresso tecnologico e scientifico che avrebbe trovato soluzioni all’eccesso di gas serra nell’atmosfera, in altri casi un rifiuto di impegnarsi per limitare le emissioni o come una confessione di voler continuare come in passato, o, infine, come espressione di disfattismo o di occulto sostegno alle ragioni dei produttori di petrolio.

Di fronte a questo schieramento, poche voci si levavano a sostegno dell’adozione di programmi di adattamento; erano voci soprattutto di economisti e ingegneri, convinti che la mitigazione sarebbe stata difficile da imporre a livello globale e avrebbe avuto effetti solo a molti anni di distanza, sicché era preferibile concentrarsi sull’adattamento in modo da essere pronti a reagire allorché gli effetti si fossero presentati. Così, nel 1990 alla Conferenza annuale dell’American Society of International Law, il presidente della National Academy of Engineering aveva osservato che “è probabile che, qualsiasi politica venga adottata, sarà impossibile arrestare il cambiamento climatico… Così, è inevitabile che l’umanità dovrà adattarsi al cambiamento”. Questa conclusione evidenzia però che l’adattamento alle mutate condizioni climatiche non era ancora inteso come il risultato di una strategia progettata e realizzata a livello internazionale o dei singoli Stati, ma, come già si è accennato, come un processo spontaneo da parte dei singoli e delle comunità umane coinvolte.

Era quindi inevitabile che la mitigazione fosse l’opzione prescelta nella Convenzione quadro: non trova spazio la richiesta degli Stati in via di sviluppo formati da piccole isole, indicati nelle trattative con l’acronimo SIDS (Small Island Developing States) o AOSIS (Alliance of Small Island States) di costituire un fondo apposito per finanziare interventi di adattamento a fronte del pericolo dell’innalzamento del livello degli oceani.

Una parentesi: i limiti della mitigazione

Foto scattata durante  la Quinta Conferenza sull'adattamento climativo a Dhaka in Bangladesh.

La scelta della mitigazione - per quanto oggi, visti i risultati raggiunti, sia facile criticare le certezze che l’avevano sorretta - era a quell’epoca ragionevole: se il clima globale cambia a causa dei gas serra riversati nell’atmosfera, la riduzione delle emissioni rallenta il cambiamento e, con il tempo, lo diminuisce.

La mitigazione si è però rivelata una strategia difficile da perseguire per quattro ragioni.

La prima. L’atmosfera è un contenitore a disposizione di tutti. È un bene comune, goduto non da un ristretto numero di persone, ma dall’intera umanità. Ciò che conta è quindi come esso viene usato da tutti: conta la quantità di gas serra immessa a livello globale. Quindi, se uno o più paesi adottano strategie di mitigazione per ridurre le emissioni, mentre altri paesi le aumentano, si verifica la ben nota Tragedy of the commons descritta da Garrett Hardin nel suo famoso scritto: il bene comune è destinato alla rovina.

La seconda. Le emissioni di gas serra sono differenti da Stato a Stato. Alcuni Stati immettono grandi quantità di gas serra nell’atmosfera, altri quantità insignificanti. Queste differenze esistono sia nel gruppo dei paesi sviluppati, sia nel gruppo dei paesi in via di sviluppo che racchiude paesi assai poveri e senza alcuna prospettiva di sviluppo e paesi emergenti con un vigoroso tasso di sviluppo annuo (Cina e India in primo luogo). Quindi, il cambiamento climatico dipende da alcuni Stati, ma tutti ne subiscono gli effetti.

La terza. La quantità di emissioni di ciascun Stato dipende da vari fattori: dalla popolazione, dalla geografia, dal livello di vita esistente, dalla storia economica e sociale, dalle fonti di energie disponibili e dalle politiche di sviluppo adottate in passato. Una politica di riduzione delle emissioni deve tenere conto di tutti questi fattori e su molti di essi è difficile incidere in tempi brevi. In particolare, è assai difficile ottenere una riduzione di livelli di benessere acquisiti sulla base di un libero utilizzo di combustibili fossili protratto per un lungo periodo.

La quarta. Gli effetti del cambiamento climatico sono diversi a seconda di fattori geografici, demografici e, ancora, in relazione al livello di sviluppo di ciascun paese. Per l’aspetto geografico, gli effetti non sono necessariamente negativi: ci sono paesi per i quali il cambiamento climatico può produrre anche effetti favorevoli (Russia e Canada sono i due esempi più noti). Con riferimento al livello di sviluppo si può dire, in via di prima approssimazione, che gli effetti sfavorevoli sono tanto maggiori, quanto minore è il livello di sviluppo del paese: in altri termini, i paesi meno responsabili del cambiamento climatico ne subiscono più intensamente gli effetti negativi.

Queste quattro ragioni erano note allorché nella Convenzione quadro è stata prescelta la mitigazione come strategia prioritaria per il contenimento delle emissioni, ma ne è stata sottovalutata l’importanza.

1994-1997 - Dopo la Convenzione Quadro: l’adattamento guadagna terreno

A lezione di tecniche di adattamento, Indonesia. Credit: USAID/ESP

La Convenzione Quadro entra in vigore nel 1994 e gli sforzi si indirizzano subito alla costruzione di un accordo, il futuro Protocollo di Kyoto, che dia esecuzione all’obiettivo del contenimento delle emissioni di gas serra nell’atmosfera.

Ma, proprio quando appare un’opzione definitivamente accantonata, l’adattamento comincia a guadagnare terreno. Ciò accade per effetto di tre fattori: il secondo Rapporto dell’IPCC pubblicato nel 1995, i limiti strutturali dell’accordo che viene raggiunto a Kyoto nel 1997 e, infine, le inaspettate difficoltà nell’ottenerne l’entrata in vigore.

Il secondo Rapporto dell’IPCC mette in evidenza che tra gli scienziati e gli esperti di clima aumentano i dubbi sulla possibilità di raggiungere la stabilizzazione delle emissioni. Il titolo del secondo volume del Rapporto è un segnale significativo al riguardo: “Impacts, Adaptations and Mitigation of Climate Change: Scientific-Technical Analyses”: l’adattamento, collocato prima della mitigazione, è indicato per la prima volta come un importante strumento per contrastare il cambiamento climatico, complementare alla mitigazione.

Il secondo fattore che determina il rilancio dell’adattamento è costituito proprio dal Protocollo di Kyoto. Esso, firmato nel dicembre 1997 è subito bersagliato da critiche da ogni parte: sull’esenzione da obblighi di contenimento delle emissioni di tutti i paesi in via di sviluppo senza tenere conto dell’effettiva incidenza delle loro emissioni (pari, all’epoca della firma del Protocollo, a circa il 36% delle emissioni globali, ma destinate a crescere esponenzialmente negli anni seguenti), sull’impossibilità in ogni caso di raggiungere gli obiettivi prefissati senza impegni molto più rigidi e radicali, sui costi che i paesi sviluppati avrebbero dovuto sopportare per mantenere gli impegni assunti, infine sull’impossibilità di regolare le emissioni globali con un trattato internazionale. Molte di queste critiche, prospettando l’insuccesso del Protocollo, propongono la necessità di adottare strategie di adattamento.

Il terzo fattore è il rifiuto di ratifica degli Stati Uniti e il ritardo nell’entrata in vigore del Protocollo. Il requisito di un’adesione di Stati sviluppati che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra alla data del 1990 appare di improbabile realizzazione allorché nel 2001 gli Stati Uniti, responsabili all’epoca del 36% delle emissioni globali, non ratificano il Protocollo: la soglia prevista sarà raggiunta solo quattro anni più tardi, nel febbraio del 2005 - sette anni dopo la firma e a diciotto anni di distanza dalla Convenzione Quadro - con l’adesione della Russia. In questo periodo tutti (in particolare gli Stati sviluppati) hanno usufruito di un’incontrollata libertà di emissione di gas serra, aggravando pesantemente l’adempimento degli impegni previsti dal Protocollo.

Scrive Richard Cooper, uno tra i più importanti esperti di economia ambientale internazionale: a seguito dell’abbandono degli Stati Uniti e l’assenza di impegni degli Stati non industrializzati, tra i quali Cina e India “gli Stati devono pensare a politiche di adattamento al cambiamento climatico e il mondo deve cominciare a pensare ad azioni di emergenza4.

Così, la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 e l’introduzione di obblighi vincolanti per gli Stati sviluppati di adottare strategie di mitigazione delle loro emissioni coincidono paradossalmente con un rilancio delle politiche di adattamento.

1997-2015 - L’adattamento si afferma come strategia complementare alla mitigazione

Acquisto di pecore e capre da parte dello IOM a favore della comunictà Kuam, nel distretto Lagdera, Kenya. © IOM 2011 (Photo: Brendan Bannon)

Subito dopo l’adozione del Protocollo, a seguito del mutamento di rotta operato dall’IPCC con il Rapporto del 1995 (di cui si è detto), inizia l’attività degli organismi internazionali per rilanciare le azioni di adattamento: esse sono così incluse in un piano di azione elaborato nel 1998 a Buenos Aires (il c.d. BAPA, Buenos Aires Plan of Action).

In realtà, il Rapporto dell’IPCC ha effetto anche sul contenuto del Protocollo di Kyoto: esso, seppur finalizzato, come si è visto, alla realizzazione di strategie di mitigazione, prevede la costituzione di un apposito Fondo di adattamento per agevolare lo sviluppo e la diffusione di tecniche che possono aiutare ad ammortizzare gli impatti dei mutamenti nei paesi non sviluppati.

Sia il Fondo previsto dal Protocollo che il piano approvato a Buenos Aires sarebbero però rimasti sulla carta per molto tempo, mancando un accordo in merito alle modalità di finanziamento: i paesi sviluppati, già onerati delle spese per la mitigazione delle proprie emissioni, erano riluttanti ad assumersi anche gli oneri delle strategie di adattamento degli Stati in via di sviluppo e, in particolare, dei paesi più esposti ai rischi degli effetti del cambiamento climatico.

Un passo avanti si compie nell’ottobre del 2001 a Marrakesh.

Pochi mesi prima viene pubblicato il terzo Rapporto dell’IPCC: per la prima volta il cambiamento climatico è considerato come un fenomeno altamente probabile, provocato per la massima parte dall’attività umana, con conseguenze potenzialmente disastrose per gli uomini e per l’ambiente, in mancanza di azioni rapide per un contenimento delle emissioni. Abbiamo poi visto che all’adattamento il Rapporto dedica l’intero secondo volume, mentre la mitigazione è trattata nel terzo volume: esso acquisisce così una collocazione autonoma (ed è anche significativo il passaggio all’uso del singolare, che indica l’intenzione di considerare in modo unitario l’insieme delle politiche riconducibili all’adattamento).

Il Rapporto avverte che le strategie di adattamento devono divenire complementari a quelle di mitigazione e saranno necessarie per molti decenni, e forse secoli: “il riscaldamento e l’aumento del livello degli oceani continueranno per secoli a causa del protrarsi degli effetti dei processi climatici anche se si ottenesse una stabilizzazione delle emissioni”, aggiungendo che "l’adattamento è necessario sia nel breve che nel lungo periodo per contenere l’impatto del riscaldamento globale che si verificherà anche negli scenari più ottimistici. Inoltre, esso può avere benefici immediati per i sistemi sociali ed ecologici, riducendo la vulnerabilità a fronte di futuri cambiamenti e di rischi climatici e aumentando le capacità degli uomini e dei sistemi ecologici di adeguarsi”.

Alle fosche previsioni del Rapporto si unisce, sempre nell’anno 2001, l’impatto provocato dal rifiuto degli Stati Uniti di aderire al Protocollo di Kyoto, del quale abbiamo già parlato.

Così, sotto l’effetto di questi eventi, gli Stati sviluppati accettano di assumersi il carico degli interventi di adattamento nei paesi non sviluppati: si tratta di un gesto importante, sebbene ci sia la consapevolezza che dalla firma di un impegno alla sua pratica attuazione e quindi all’effettivo trasferimento di mezzi finanziari, sarebbero passati ancora molti anni.

Sono così sottoscritti i Marrakesh Accords che prevedono la costituzione di due diversi fondi: il Least Developed Countries Fund (LCDF) e lo Special Climate Change Fund (SCCF), entrambi finanziati da contribuzioni volontarie dei paesi sviluppati. I due Fondi si aggiungono all’Adaptation Fund, previsto dal Protocollo di Kyoto, formalmente istituito solo nel febbraio 2005, allorché il Protocollo entra in vigore (anch’esso in attesa di divenire operativo). I tre fondi sono congiuntamente affidati per la loro gestione a un organismo internazionale già esistente, il Global Environment Facility (GEF), nonostante le obiezioni dei paesi in via di sviluppo che avrebbero preferito la costituzione di un organismo apposito.

Negli anni che seguono si succedono negoziati inconcludenti e conflittuali sulle modalità con le quali i finanziamenti avrebbero dovuto essere raccolti, ripartiti, spesi e sulle modalità di controllo del corretto uso degli ingenti fondi necessari per avviare le strategie di adattamento.

Così, nel Bali Action Plan concordato nel dicembre 2007 è chiarito che le azioni di adattamento sostenute dalla comunità internazionale devono prendere in considerazione i bisogni urgenti e immediati dei paesi in via di sviluppo che siano “particolarmente vulnerabili” agli effetti del cambiamento climatico, in particolar modo i paesi meno sviluppati (LDCs) e gli Stati costituiti da piccole isole (SIDS) e, inoltre, i bisogni dei paesi africani colpiti da siccità, desertificazione e inondazioni. L’espressione “particolarmente vulnerabili” diviene l’oggetto di accesi scontri tra i paesi in via di sviluppo: molti sospettano che in questo modo sia stata introdotta una sorta di graduatoria tra i paesi destinatari dei fondi, rimessa alla discrezionalità dei paesi sviluppati. In sostanza, il dibattito sul finanziamento dei fondi diviene un problema di fiducia o, più propriamente, come è stato osservato, di mancanza di fiducia tra i paesi membri della Convenzione quadro: da un lato i paesi sviluppati si sentono assediati dalle richieste di finanziamento da parte della moltitudine di paesi in via di sviluppo (che, si è visto, racchiude situazioni sempre più eterogenee), dall’altro questi ultimi sospettano che vi siano tentativi per limitare finanziamenti che ritengono dovuti.

Il problema si ripropone con il Copenhagen Accord firmato nel 2009: la priorità di finanziamenti per l’adattamento viene riservata ai paesi in via di sviluppo “maggiormente vulnerabili” come “per esempio” i paesi meno sviluppati (LDCs), le piccole isole (SIDS) e i paesi africani. In questo caso è quel “come per esempio” che lascia aperta la possibilità (e il sospetto) che vi sia una lista più ampia e non dichiarata di paesi che avrebbero ricevuto finanziamenti.

A Copenhagen viene previsto un nuovo fondo, da aggiungere a quelli già esistenti e in attesa di essere attivati: il Copenhagen Green Climate Fund (GCF), finanziato dai paesi sviluppati e destinato però a interventi non solo di adattamento, ma anche di mitigazione. È affidata al GEF anche la gestione di questo Fondo.

Il GCF è istituito nel 2010 a Cancún, mediante il Cancún Adaptation Framework, ove si stabilisce per la prima volta che le politiche di adattamento devono ricevere lo stesso livello di attenzione dedicato alla mitigazione e, a tal fine, è previsto un apposito organismo, l’Adaptation Committee. Nel 2011, a Durban, ne è concretamente organizzata la gestione.

Le politiche di adattamento e le attività poste in essere dagli organismi internazionali che si occupano specificatamente del cambiamento climatico divengono anche oggetto in questo periodo di elaborazioni da parte di molte istituzioni pubbliche. Ecco alcuni esempi.

L’UNDP ha pubblicato nel 2004 un volume, noto come Adaptation Policy Frameworks (APF), assunto come riferimento negli anni successivi da molti Stati in via di sviluppo. Il volume colloca l’adattamento nel quadro delle strategie di sviluppo elaborate negli anni precedenti: in questo modo esso non è più un compito affidato a singoli individui o gruppi sociali, ma parte di processi di pianificazione e di politiche di crescita economica che devono interessare tutti i livelli organizzativi e tutti gli strati sociali di una determinata comunità.

La Commissione dell’Unione europea ha pubblicato nel 2007 un Libro verde sull’adattamento ai cambiamenti climatici in Europa con l’obiettivo di integrare l’adattamento nelle politiche europee di contenimento del cambiamento climatico e di individuare le azioni economicamente più efficaci per lo sviluppo di politiche di adattamento. Nell’introduzione al volume si precisa: “La modifica del clima è comunque ineluttabile e comporterà impatti significativi legati, tra l'altro, all'aumento delle temperature e delle precipitazioni, alla riduzione delle risorse idriche e all'aumento della frequenza delle tempeste. Le misure di mitigazione devono pertanto essere accompagnate da misure di adattamento destinate a far fronte a questi impatti. L'adattamento deve riguardare sia i cambiamenti in corso sia i cambiamenti futuri che devono essere anticipati”.

Il Libro verde indica tra i settori più esposti l'agricoltura, la silvicoltura, la pesca, la sanità, i servizi finanziari e le assicurazioni; inoltre il settore dell'energia e del consumo energetico a causa della riduzione della quantità di acqua destinata ad alimentare le dighe idroelettriche e a raffreddare le centrali termiche e le centrali nucleari nelle regioni in cui si registreranno aumenti delle temperature e riduzioni delle precipitazioni e della copertura di neve. La Commissione avverte che solleciti interventi per adattare i paesi dell’Unione ai cambiamenti climatici saranno sì impegnativi, ma molto meno onerosi dei danni causati da questo fenomeno. L’Unione europea successivamente costituisce, insieme all’Agenzia ambientale europea, la Piattaforma europea per l’adattamento al clima (European Climate Adaptation Platform, CLIMATE-ADAPT) con l’obiettivo di assistere i paesi europei nell’elaborare proprie strategie di adattamento. La Piattaforma fornisce informazioni sulle strategie di adattamento per i vari settori interessati con riferimento non solo ai vari Stati dell’Unione europea, ma anche alle più importanti aree urbane e alle regioni transnazionali.

A livello nazionale, Regno Unito e Finlandia sono i primi paesi a formulare strategie nazionali di adattamento. Al 1997 risale nel Regno Unito l’organizzazione di una strategia di adattamento con l'UK Climate Impacts Programme (UKCIP), predisposto per offrire a organizzazioni pubbliche e private le informazioni necessarie per predisporre propri piani di adattamento. Successivamente il Climate Change Act del 2008 ha posto le basi per l’adozione di politiche pubbliche per l’adattamento. In Finlandia, una strategia nazionale di adattamento è resa pubblica nel 2003 ed è stata inserita nel Piano nazionale per il clima e l’energia del 2005.

Infine, negli anni successivi al 2003 molti Stati (tra cui Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Messico e Sudafrica) avviano studi e ricerche per avviare progetti di adattamento per la conservazione della diversità biologica.

2015 - L’Accordo di Parigi. L’adattamento è strumento indispensabile per contrastare il cambiamento climatico

Delegati alla COP 21 di Parigi assistono a una visualizzazione del riscaldamento climatico. 

Con l’accordo di Parigi del dicembre 2015, le politiche di adattamento completano la loro scalata verso un riconoscimento ufficiale come strumento per contrastare il cambiamento climatico alla pari con le strategie di mitigazione. È scomparsa l‘idea che adattamento significhi resa o disfattismo: esso, insieme alla mitigazione, è ormai considerato una componente indispensabile della sfida globale per contenere gli effetti del cambiamento climatico.

Può essere considerato un successo di tutti coloro che, inascoltati, avevano sostenuto fin dall’inizio la necessità di occuparsi di politiche di adattamento. È certamente il segno della sconfitta del progetto globale, lanciato con fiducia agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, di contenere il cambiamento climatico con la partecipazione di tutta la comunità internazionale.

Così, negli studi economici e nel settore più specificatamente giuridico, l’adattamento diviene una nuova disciplina in grande espansione, da integrare e coordinare con le discipline concernenti lo sviluppo sostenibile: le organizzazioni internazionali di assistenza allo sviluppo cominciano a inserire specifici interventi di adattamento nei propri progetti e a svolgere un ruolo nella gestione degli aiuti finanziari erogati a questo fine.

A questo risultato contribuisce il quinto Rapporto dell’IPCC, pubblicato nel 2014. Esso descrive una situazione assai grave: sono stati raggiunti i più elevati livelli di CO2 in atmosfera da migliaia di anni e, quantomeno dal 1950, si sono verificati cambiamenti in situazioni stabili da quando si sono potute effettuare misurazioni affidabili (l’atmosfera e gli oceani sono divenuti più caldi, la neve e i ghiacci sono diminuiti, il livello degli oceani è aumentato). Le indicazioni sono precise: entro la metà del secolo la metà almeno dell’energia globale dovrà essere prodotta da fonti a basse emissioni di inquinanti atmosferici; entro la fine del secolo dovranno completamente essere eliminati i combustibili fossili. Solo in questo modo ci sono buone probabilità di riuscire a limitare entro la fine del secolo a 2 °C l’incremento di temperatura sulla Terra rispetto al periodo preindustriale.

Ovviamente, per una limitazione dell’aumento della temperatura a 1,5 °C, il taglio delle emissioni dovrà essere assai più deciso: tra il 70 e il 95% entro il 2050. Il rapporto avverte che, se queste indicazioni non saranno seguite, le emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti di lunga durata in tutte le componenti del sistema climatico, aumentando la possibilità di severe, pervasive e irreversibili conseguenze per l’umanità e per l’ecosistema. È uno scenario che indirettamente pone in primo piano la necessità di strategie di adattamento.

Il rapporto dell’IPCC si sofferma anche sugli strumenti a disposizione per contenere i rischi e i danni del cambiamento climatico, quindi sulla mitigazione e sull’adattamento, osservando che entrambi presuppongono istituzioni e governi che assumano decisioni efficaci, innovazioni e investimenti in tecnologie e infrastrutture compatibili con la tutela dell’ambiente, scelte e modi di vivere sostenibili.

L’Accordo mette in evidenza anche i principi fondamentali dell’adattamento, specificando gli obiettivi (ponendo particolare attenzione a gruppi, comunità, ecosistemi particolarmente vulnerabili) e la necessità di risolvere problemi di carattere giuridico, economico e sociale soprattutto nei paesi in via di sviluppo e in quelli particolarmente esposti agli impatti del cambiamento. Tuttavia, neppure ora c’è uno specifico impegno dei paesi sviluppati di finanziare i processi di mitigazione e adattamento nei paesi in via di sviluppo, così come ripetutamente richiesto da questi ultimi: l’impegno è semplicemente quello di organizzare un “flusso finanziario” che persegua questa finalità. L’espressione, accuratamente studiata, significa che gli investimenti dovranno provenire non solo dagli Stati sviluppati, ma, in generale, da investimenti pubblici e privati.

La concreta attuazione delle iniziative rivolte al perseguimento delle finalità di adattamento non è infatti oggetto dell’Accordo, ma è relegata nella Decisione, un atto allegato all’Accordo e non vincolante per gli Stati. Qui si stabilisce che entro il 2025 sarà quantificato un obiettivo collettivo, assumendo come indicazione di base 100 miliardi di dollari all’anno, e si “sollecitano fortemente” i paesi sviluppati a incrementare i loro precedenti aiuti finanziari in modo da raggiungere congiuntamente il livello di 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 da dedicare a progetti di adattamento e di sviluppo tecnologico.

La finanza dell’adattamento

Manifestazione di Friends of the Earth International ai colloqui delle Nazioni Unite sul Green Climate Fund. Foto di Luka Tomac.

I Fondi internazionali (Global Funds) sono uno strumento recente nel sistema degli aiuti allo sviluppo: sono entità autonome, gestite e amministrate da un organismo che riceve i finanziamenti e li investe finché rimangono nel suo patrimonio, infine li trasferisce al fondo quando debbono essere concretamente impiegati. Dal 2005 le risorse disponibili per le varie Agenzie internazionali che operano nel settore sono in continuo calo, mentre sono in aumento le risorse a disposizione dei Fondi internazionali per lo sviluppo.

Questo successo è dovuto in gran parte all’aumento dei Fondi internazionali destinati a finanziare imprese e progetti connessi con il cambiamento climatico: sono attualmente 26 (senza considerare i numerosi fondi destinati a obiettivi connessi con il cambiamento climatico istituiti e gestiti da Organizzazioni non governative).

I fondi per l’adattamento iniziano concretamente l’attività solo dopo qualche anno, tra il 2008 e il 2009, allorché, nell’ambito della Bali road map del 2007 i paesi industrializzati assumono l’impegno di stanziare le risorse necessarie.

Gli investimenti dei Fondi per l’adattamento comportano la soluzione dei problemi di carattere giuridico, economico e sociale soprattutto nei paesi in via di sviluppo e in quelli particolarmente esposti agli impatti del cambiamento: devono essere infatti affrontati temi di sicurezza e di sanità delle collettività interessate, di sviluppo economico e produttivo delle aree nelle quali saranno effettuati gli interventi, la pianificazione della produzione e la riorganizzazione delle fonti energetiche e la dislocazione delle infrastrutture; infine, problemi di riconversione agricola e in generale della produzione alimentare.

Il Least Developed Countries Fund (LDC) è riservato al gruppo formato dai paesi meno sviluppati, costituito molti anni prima: sono paesi che, sulla base di verifiche condotte periodicamente, hanno un indice di sviluppo inferiore a quello della generalità dei paesi non sviluppati; essi quindi, proprio per la loro situazione economica e per la collocazione geografica, contribuiscono in misura minima al cambiamento climatico, ma ne subiranno in grande misura gli effetti. Erano 47 nel giugno 2017. Il LDC persegue due obiettivi: assistenza ai destinatari nel predisporre e realizzare i programmi nazionali di intervento in materia di adattamento e copertura dei bisogni più urgenti per far fronte a situazioni di emergenza.

Fino a tutto il 2017 Il LCD ha erogato oltre 1,3 miliardi di dollari per finanziare, in tutto o in parte, circa 160 progetti.

Lo Special Climate Change Fund and Adaptation Fund (SCCF) ha una dotazione di circa 350 milioni di dollari e può essere utilizzato da tutti i paesi non sviluppati (non solo quindi dai paesi inclusi nella lista dei paesi meno sviluppati). Segue attualmente 77 progetti di adattamento che interessano 79 paesi. Le necessità sono assai superiori ai fondi disponibili: uno studio del 2009 ha stimato che per soddisfare i più urgenti progetti di adattamento sarebbero stati necessari almeno 2 miliardi di dollari.

L’Adaptation Fund ha caratteristiche diverse dagli altri due Fondi. In particolare, i paesi interessati hanno accesso diretto agli organi del Fondo e non mediato dalle varie Agenzie internazionali come per gli altri fondi. Esso, inoltre, trae le proprie risorse non solo dai contributi dei paesi sviluppati, ma principalmente da una tassa applicata a tutte le transazioni effettuate con i meccanismi di mercato previsti dal Protocollo di Kyoto (i cui importi sono destinati ad esaurirsi essendo assai ridotta la partecipazione degli Stati al secondo periodo di impegno del Protocollo). Infine, il Fondo dedica i finanziamenti specificatamente a iniziative condotte a livello locale: sono quindi finanziati direttamente piccoli progetti, anche con programmi di microfinanziamento. Il Fondo dal 2010 ha investito 462 milioni di dollari in 73 diversi paesi, per sostenere interventi urgenti in paesi particolarmente esposti al cambiamento climatico: somme di gran lunga inferiori ai progetti già approvati. Dal 2015 anche l’Italia partecipa al finanziamento di questo fondo e ha sinora versato 14 milioni di euro.

Infine, il Green Climate Fund (GCF), faticosamente istituito allo scopo di finanziare progetti nei paesi in via di sviluppo finalizzati sia all’adattamento che alla mitigazione, è stato individuato dall’Accordo di Parigi come lo strumento principale per raccogliere i finanziamenti previsti e per raggiungere l’obiettivo di accumulare 100 miliardi di dollari entro il 2020. Lo scopo del GCF è catalizzare il flusso della finanza sul clima, utilizzando gli investimenti pubblici per stimolare anche la finanza privata a investire in questo settore. La ripartizione degli investimenti tra mitigazione e adattamento non è un compito facile: infatti i paesi in via di sviluppo spingono per aumentare la quota destinata ad azioni di adattamento (come, per esempio, sistemi di protezione o prevenzione delle inondazioni). I paesi sviluppati invece caldeggiano gli interventi destinati ad azioni di mitigazione (come, per esempio, progetti di installazione di impianti di energia rinnovabile). Nel 2014, alla conferenza dei donatori del GCF, l’Italia si è impegnata a contribuire alla prima capitalizzazione del Fondo con 250 milioni di euro.

Considerazioni conclusive: quali sono le prospettive delle strategie di adattamento?

Siccità in Etiopia. Foto di Emily Holland/IRC.

L’adattamento è passato da presenza sospetta e indesiderata nella politica climatica a una componente essenziale del contrasto al cambiamento climatico sia a livello internazionale, sia nell’ambito dei singoli Stati.

Due sono tuttavia i problemi che dovranno essere affrontati nei prossimi anni.

Il primo è finanziario e organizzativo. Riguarda la provvista di mezzi necessari per attuare le strategie di adattamento, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Le somme che l’Accordo di Parigi e l’annessa Decisione propongono di destinare all’adattamento, quand’anche siano effettivamente raccolte, sono certamente insufficienti a soddisfare le necessità dei paesi poveri e più esposti al cambiamento climatico. La Banca mondiale, in uno studio del 2009, ha calcolato che, in aggiunta ai finanziamenti necessari per attuare le strategie di mitigazione (dal costo stimato tra 140 e 175 miliardi di dollari per almeno 20 anni), i costi per gli interventi di adattamento ammontano a un importo annuo tra i 70 e 100 miliardi di dollari per i prossimi 40 anni, se viene rispettato l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro I 2 °C.

Attualmente i fondi raccolti si aggirano sul 5% di quanto stimato necessario dalla Banca Mondiale. Dipende dalla scarsa propensione dei paesi più sviluppati a dedicare consistenti fondi per aiutare i paesi più poveri a fronteggiare il cambiamento climatico (anche se inevitabilmente l’effetto sarà quello di dover sopportare i costi economici e sociali delle ondate di “migranti climatici” che si prospettano all’orizzonte (secondo una ricerca pubblicata dalla rivista inglese The Lancet, i migranti climatici potrebbero essere più di un miliardo entro il 2050). Ma dipende anche da un limite più generale, secondo Robert Meyer e Howard Kunreuther, due noti esperti di economia comportamentale: l’inadeguatezza degli esseri umani ad affrontare il rischio, nonostante si sia enormemente accresciuta negli ultimi decenni la capacità di prevederlo.

Il secondo, ancor più grave, problema attiene alle modalità con cui le politiche di adattamento saranno concepite e realizzate.

Come abbiamo visto dalle varie definizioni più utilizzate, l’adattamento è concepito come un processo che muove dalle condizioni ambientali attuali e introduce modifiche o assestamenti per far fronte agli eventi futuri portati dal mutamento del clima.

Ebbene, questo modo di procedere potrebbe portare non vantaggi e maggiore sicurezza, ma addirittura incrementare la vulnerabilità. L’errore starebbe nell’assumere come punto di riferimento i sistemi naturali così come oggi si presentano, mentre potrebbero perdere validità le regole dalle quali per decenni sono stati governati per la scomparsa di un principio dal quale sinora i sistemi naturali, e quindi le scienze, la politica e il diritto dell’ambiente sono stati retti: il principio di stazionarietà.

È un principio tratto dalla statistica: senza addentrarci in definizioni complicate, possiamo dire che un processo è qualificato stazionario allorché la media e la varianza dei suoi componenti sono costanti e non dipendono dal tempo. Questo significa che gli elementi che assumono rilievo possono variare a seconda delle circostanze e di molti altri fattori, ma l’entità e la frequenza delle variazioni restano costanti nel tempo. È un concetto che ha assunto primaria importanza nelle scienze ambientali allorché ci si è accorti che i sistemi naturali non sono stabili, ma sono retti da innumerevoli variabili che interagiscono le une con le altre rispettando il principio di stazionarietà, quindi senza modificarsi nel tempo. Le variabili ambientali, in altri termini, costituiscono una sorta di involucro che avvolge ciascun sistema naturale e la natura nel suo complesso e la loro variabilità si mantiene costante nel corso del tempo.

Ebbene, nel 2008 è stato pubblicato su Science uno studio sulla gestione dei sistemi idrici nei paesi sviluppati, i quali possono essere condizionati da numerose variabili (tra queste, la distribuzione e l’intensità delle precipitazioni atmosferiche e la temperatura), ma nel lungo periodo queste variabili restano costanti. I sistemi idrici sono quindi un sistema naturale stazionario. O almeno, lo sono stati sinora. Gli autori dell’articolo – dal significativo titolo Stationarity Is Dead – hanno affermato che a seguito del prodursi degli effetti del cambiamento climatico non sarà più possibile governare i sistemi idrici basandosi sulle variazioni e sui flussi presenti fino a oggi. Il futuro sarà caratterizzato da variabilità sconosciute in passato che imporranno nei sistemi naturali nuove regole. Le implicazioni delle conclusioni raggiunte in questo articolo, che ha avuto vasta risonanza, sono evidenti: è errato elaborare strategie di adattamento per il futuro basandosi sull’assetto climatico attuale, contando che esso subisca solo variazioni e alterazioni, mantenendo intatta l’impalcatura che regge l’equilibrio dei sistemi naturali. Altrettanto errato è costruire strategie di adattamento finalizzate alla protezione e alla conservazione delle risorse naturali e degli habitat oggi esistenti, quando il compito sarà invece quello di adeguare nuovi habitat alla nuova realtà che in modo turbolento si andrà assestando.

In altri termini, l’esplosione dell’involucro delle variabilità che aveva sinora garantito la stazionarietà dei sistemi naturali renderà impossibile costruire una nuova stazionarietà, quantomeno nel breve periodo e fino al raggiungimento di un assestamento e di un nuovo involucro: dobbiamo attenderci un passaggio dalla natura quale oggi la conosciamo alla natura che troveremo dall’altra parte del cambiamento climatico, ed è su quella, ancora non conosciuta, che dovranno essere applicate le politiche di adattamento.

Se questo è vero, le politiche di adattamento dovranno dimenticare le scelte di adeguamento o di conservazione dell’esistente: molti sistemi naturali sono destinati a subire profonde trasformazioni o addirittura a scomparire senza possibilità di rimedio e sarà condannato al fallimento qualsiasi tentativo di preservarli.

Tutto ciò impone compiti giganteschi per gli scienziati che si occupano dell’ambiente, dei sistemi naturali, della flora e della fauna: come dimostra Elizabeth Kolbert nel suo coinvolgente libro, la sesta estinzione è in corso e non può più essere fermata.

Ma altrettanto enormi sono i compiti che attendono i giuristi, gli economisti e gli scienziati sociali. Essi debbono predisporre un insieme coerente e efficace di risposte a cambiamenti imprevedibili e magari irreversibili che lacerano l’involucro della stazionarietà, in modo da garantire sicurezza e eguaglianza: ha osservato J.B.Ruhl, un noto giurista dell’ambiente, che sarà il più grande esercizio di futurismo legale mai in precedenza concepito. I giuristi debbono cominciare a esaminare gli scenari dei futuri impatti del cambiamento climatico e domandarsi quali risposte darà il sistema legale ai problemi di adattamento: come dovrà modificarsi il diritto di proprietà, il diritto delle assicurazioni, i rapporti tra diritto pubblico e diritto privato e come dovranno cambiare gli accordi internazionali che governano oggi le migrazioni.

 

Note:
1. IPCC, Fourth Assessment Report. Climate Change 2007: Impacts, Adaptation and Vulnerability.
2. European Environmental Agency, Vulnerability and adaptation to climate change in Europe, Technical Report 7/2005, 2005
3. Bo Lim - Erika Spanger-Siegfried, Adaptation policy frameworks for climate change: developing strategies, policies and measures, UNDP Cambridge University Press 2004.
4. Richard N.Cooper, cit. alla nota 27.


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