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Antropofonia, il peso dell’inquinamento acustico in mare

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Sott’acqua, dove gli animali possono affidarsi poco alla vista, il panorama acustico è particolarmente importante per percepire l’ambiente. Una review recentemente pubblicata su Science ripercorre l’impatto che i rumori generati dalle attività umane hanno sulla fauna marina: danni diretti, per esempio all’udito, ma anche danni indiretti che si ripercuotono sulla comunicazione, sulla riproduzione e sul foraggiamento. Ne parliamo con Gianni Pavan, direttore del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali dell’Università di Pavia, Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente.

Crediti immagine: Will Turner/Unsplash

A meno di non essere habitués delle immersioni, potremmo pensare che la vita subacquea sia molto più silenziosa di quella sulla terraferma: un mondo ovattato in cui i suoni si percepiscono appena. Ma il panorama acustico del mare non è affatto povero; soprattutto, non è privo di un ruolo ecologico, perché ciascuno dei suoni che si propaga sotto le onde serve agli animali, vuoi per il corteggiamento, vuoi per individuare un predatore in arrivo o, viceversa, per individuare le prede.

Il problema, come ben spiega una review recentemente pubblicata su Science, è che adesso di rumore ce n’è fin troppo – e si parla di “rumore” in senso biologico, cioè segnali acustici indesiderati e innaturali che disturbano o addirittura danneggiano gli animali. Nell’era dell’Antropocene, il paesaggio acustico del mare è dominato dall’antropofonia, che ha effetti profondamente negativi su una moltitudine di specie.

Suoni sottomarini

Moltissimi animali marini producono suoni di varia natura e per varie ragioni. Le vocalizzazioni dei cetacei, metodo privilegiato di comunicazione per questo gruppo, sono forse tra le più famose: vanno dal fischio dei delfini al “click” dei capodogli, fino ai complessi canti delle megattere, in grado di propagarsi per oltre 100 chilometri. Anche se sono i più conosciuti, i suoni prodotti dai cetacei non sono gli unici ad arricchire la biofonia (cioè l’insieme dei suoni di origine biologica) marina: per esempio, alcuni pesci come il merluzzo e la cernia usano i suoni per aggregarsi e coordinare la deposizione delle uova. E anche chi non vocalizza produce diversi suoni, per esempio legati all’attività di foraggiamento: come spiega un articolo su Il Bo Live, per esempio, il crepitio che si può a volte avvertire nuotando sott’acqua in prossimità di una scogliera è prodotto dai gamberi pistola (delle famiglie Alpheidae e Palaemonidae), che aprono e chiudono rapidamente le chele per alimentarsi e per difendere il territorio.

A questo complesso panorama acustico si aggiunge l’insieme dei suoni prodotti dai fenomeni naturali, definito geofonia: il vento e la pioggia sulla superficie dell’acqua, o anche, nelle regioni polari, il ghiaccio che si forma e si spezza.

Sono tutti suoni importanti per gli animali che vivono sotto la superficie del mare, dove è difficile affidarsi al senso della vista e l’udito assume un ruolo rilevante per comprendere l’ambiente circostante. I suoni permettono la comunicazione tra gli individui e nel gruppo, per la riproduzione e il foraggiamento; forniscono indicazioni su ciò che avviene nell’ambiente circostante, permettendo per esempio di avvertire l’approssimarsi di un possibile predatore e magari anche di intuirne le dimensioni. Possono perfino aiutare alcune specie della barriera corallina, nello stadio larvale o giovanile, a individuare l’habitat adatto in cui insediarsi.

Un mare troppo rumoroso

Ma tutti questi suoni stanno cambiando. “Le attività umane hanno alterato biofonia e geofonia e, direttamente o come sotto-prodotto di altre attività, hanno aggiunto una terza e prevalente componente, l’antropofonia”, scrivono gli autori della review su Science. Nel paesaggio acustico del mare, insomma, si aggiungono i rumori derivati dalle nostre attività. Alcuni, come riporta il white paper Controllo e riduzione del rumore antropogenico nei mari italiani e riduzione dei suoi effetti del 2017, sono il prodotto diretto di determinate attività, soprattutto quelle industriali (per esempio le esplorazioni minerarie, o la costruzione di campi eolici, o ancora i lavori sulla costa) e militari (per esempio l’utilizzo dei sonar e le esplosioni). Ma un’altra parte dell’antropofonia, definita “rumore diffuso”, è invece il prodotto indiretto del traffico navale, dalle centinaia di migliaia di imbarcazioni sempre in navigazione in ogni parte del globo.

“I test acustici provocano lo spiaggiamento delle balene?” era la domanda che intitolava una breve lettera pubblicata su Nature nel 1998. Nelle poche righe di testo, Alexandros Frantzis, dell’Università di Atene, riportava il caso di spiaggiamento di ben 12 zifi, nell’arco di due giorni, lungo le coste del Golfo di Kyparissiakos. Le necroscopie eseguite non avevano rivelato particolari anormalità e, alla ricerca di una possibile causa di uno spiaggiamento così significativo, Frantzis aveva indicato il possibile collegamento con la nave da ricerca della NATO Alliance che, proprio in quei giorni, stava testando un sistema di sonar per il rilevamento di sottomarini. Sembrava improbabile, era la conclusione della lettera, che i due eventi fossero scollegati.

«Quella comunicazione ha portato a una commissione d’inchiesta che ha stabilito il probabile nesso causa-effetto tra l’utilizzo dei sonar e i danni agli animali, segnando l’inizio di molte delle ricerche volte a indagare l’impatto dell’inquinamento acustico sulla fauna marina», spiega Gianni Pavan, direttore del Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali dell’Università di Pavia. «Le prime preoccupazioni sono state per i cetacei, sia perché sono animali carismatici sia perché sono molto sofisticati nella loro comunicazione sonora (qui le loro “voci”). Ma negli anni è aumentato anche l’interesse per gli effetti su altri animali marini, perché sappiamo che ciascuna specie ha un suo ruolo nel complesso ecosistema acustico del mare».  Quali sono, dunque, gli effetti dell’antropofonia sulla fauna marina?

Gli impatti dell’antropofonia

L’antropofonia può avere impatti diversi a seconda del tipo di rumore prodotto, della sua localizzazione e della sua durata. E nessuno di questi impatti è da sottovalutare. I rumori di elevata potenza, come quelli degli airgun usati nelle prospezioni geofisiche o dei sonar navali, possono provocare danni diretti, come una sordità temporanea o permanente, ma anche altri tipi di traumi meccanici, embolie ed emorragie. Seppure in modo meno immediato e plateale, anche i rumori più deboli possono avere effetti negativi. «Anche quando il rumore è a un livello che non sembrerebbe fisiologicamente dannoso, se è di lunga durata o continuo può avere un effetto importante sul comportamento degli animali. E questo è particolarmente dannoso in mare, dove il suono è la chiave essenziale di percezione e comprensione dell’ambiente», spiega Pavan. «Il rumore genera stress e impedisce di percepire chiaramente altri suoni, interferendo sia con la comunicazione che con la percezione dell’ambiente. A sua volta, questo può avere effetti negativi sul corteggiamento, e quindi sulla riproduzione, sulla capacità di segnalare pericoli o, nel caso dei cetacei, di individuare le prede con il biosonar. Può anche indurre gli animali ad abbandonare determinate aree o rotte migratorie, con effetti deleteri per la loro sopravvivenza e imprevedibili a livello ecologico».

In mare, più ancora che sulla terraferma, l’inquinamento acustico può avere effetti importanti non solo sul singolo individuo ma sull’intera popolazione. «L’ambiente acustico marino è normalmente più esteso rispetto a quello terrestre. Nel caso dei cetacei, per esempio, sappiamo che la comunicazione può avvenire a centinaia di chilometri di distanza», continua il professore. «E ogni 6 decibel di aumento del rumore dimezza la distanza alla quale si può comunicare. Le balenottere si corteggiano, per potersi riprodurre, a 100 km; basta quindi aumentare il rumore di fondo di 6 decibel e la comunicazione sarà ridotta a 50 chilometri. Altri sei decibel, e per sentirsi dovranno avvicinarsi a 25 chilometri. Per questa ragione, si stima che per molte balene la distanza di comunicazione possibile sia ridotto da 100 a 1 a causa del rumore generale, gran parte del quale è dovuto al traffico navale».

Sul quale, comunque, si sommano tutti gli altri rumori. Questo anche perché una delle principali differenze tra l’inquinamento acustico marino e quello terrestre è nella capacità di propagazione del suono che, soprattutto se a basse frequenze, può propagarsi molto più velocemente e influenzare un’area molto più estesa. Quindi, per esempio, una campagna sismica non solo produrrà un rumore di fortissimo disturbo nell’area in cui si svolge ma si percepirà anche a centinaia di chilometri di distanza, per esempio mascherando completamente i suoni delle balenottere.

Inoltre, come specifica la review di Science, pur essendo preponderante, l’antropofonia non è l’unico elemento ad alterare il panorama acustico del mare. I suoni prodotti dalle nostre attività sono infatti accompagnati da un’alterazione di biofonia e geofonia, alterazione anch’essa antropogenica: per esempio, la caccia ai grandi animali marini (soprattutto balene e pinnipedi) e la degradazione di ecosistemi come le barriere coralline e le foreste di kelp e piante marine ha ridotto la popolazione di diversi animali, e di conseguenza la relativa biofonia. Mentre la crisi climatica ha il duplice effetto di alterare la biofonia modificando la composizione delle specie in determinati ecosistemi (come, di nuovo, le barriere coralline) o modificando la distribuzione delle specie, e di influenzare la geofonia, alterando le precipitazioni, i venti, la formazione del ghiaccio. Questi elementi contribuiscono l’un l’altro nel produrre effetti sugli animali e sugli ecosistemi marini.

Verso acque più silenziose

Se sulla terraferma si può e si cerca di contenere il rumore con diverse strategie, anche a causa degli effetti negativi ampiamente riconosciuti per nostra specie (la European Environment Agency stima che l’inquinamento acustico contribuisca ogni anno a 48.000 nuovi casi d’ischemia cardiaca e 12.000 morti premature in Europa), in mare le cose sono un po’ più complicate, perché è difficile immaginare, per esempio, barriere anti-rumore come si può fare con un’autostrada. Trovare soluzioni per limitare l’inquinamento acustico marino è però fondamentale, anche perché le attività umane in mare sono in aumento. Per esempio, secondo uno studio pubblicato su Nature Sustainability, il traffico marittimo può aumentare dal 240% a oltre il 1.000% entro il 2050. E, come riporta un articolo su Il Venerdì di Repubblica, aumenta l’interessa per l’estrazione di minerali dai fondali marini, perché molti materiali saranno sempre più ricercati per le energie alternative.

«In generale, abbiamo ormai piena consapevolezza del problema anche per gli ecosistemi marini», spiega Pavan. Il rumore è riconosciuto come un inquinante marino nella European Marine Framework Strategy del 2008, e l’International Maritime Organization ha approvato nel 2014 specifiche linee guida per la riduzione dell’inquinamento acustico da parte delle imbarcazioni. «In generale, il fronte su cui si lavora maggiormente per arginare il problema è la riduzione del rumore prodotto da navi o altre strutture basandosi su nuove tecnologie. In alcuni stati, per esempio in alcuni porti del Canada, le navi più silenziose sono anche incentivate con sconti sulle tasse portuali», continua il ricercatore. «La riduzione del rumore può anche essere attuata, in alcuni habitat critici, con la riduzione della velocità, per cui si stanno anche studiando normative per la riduzione della velocità in alcune zone, che contribuirebbe anche a ridurre anche il problema delle collisioni, importante soprattutto per specie prossime all’estinzione».

«Per quanto riguarda altre fonti di rumore, come airgun, sonar e trivellazioni, ci sono delle normative ormai accettate quasi in tutti i Paesi per controllare i livelli di emissione ed evitare che si superino soglie di pericolo. Normative e raccomandazioni molto variabili da un paese all’altro prevedono poi di valutare quanto rumore sarà prodotto da una determinata attività e il suo impatto ambientale, per poi predisporre sistemi di mitigazione, che possono essere cambiamenti tecnologici o di approccio (per esempio avvitare invece di piantare un palo) o basate sull’ispezione per controllare che non ci siano cetacei nell’area interessata da un rumore eccessivo», spiega ancora Pavan. Insomma, ci sono diverse strategie a disposizione. Ora, concludono gli autori della review su Science, si tratta di incorporarle in convenzioni internazionali vincolanti per supportare, con un’economia sostenibile, ecosistemi marini più sani.

 


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