Un’opera
filosofica che godeva da noi di grande prestigio qualche decennio fa ma che, a
mio giudizio, è sovrastimata, Dialettica dell’Illuminismo di
Theodor Adorno e Max Horkheimer, è ricca di affermazioni che potremmo trovare divertenti,
se non fossero delle caricature di quella che è la reale pratica scientifica.
Ne cito una per tutte: “La
forma stessa deduttiva della scienza riflette
coazione e gerarchia”1.
Tra le tante perle del volume, ho scelto questa che prende di mira la struttura
matematica delle teorie scientifiche perché sono un
matematico di formazione e mi è più facile andare a leggere sui testi dei
matematici veri, piuttosto che su quelli dei filosofi che orecchiano la Matematica.
Pensare che una teoria assiomatizzata, per esempio la Geometria di Euclide,
possa dare luogo a coazione e gerarchia può essere solo frutto di un cattivo
insegnamento della Matematica. Basta, infatti, dare un’occhiata alla storia
della Geometria per capire che vale proprio il contrario.
La libertà del matematico emerge continuamente nella sua scelta degli strumenti
per risolvere un problema. Quando tali strumenti non esistono già, il
matematico li crea con un atto libero. Lo diceva bene Georg Cantor nell’Ottocento:
“L’essenza della Matematica è la sua libertà”.
Basterebbe vedere le osservazioni che attraversano le opere di matematici come
Hamilton, Clifford, Riemann ecc. per
rendersi conto che la pratica matematica è un’esperienza di libertà e di
creatività immaginativa. Nonostante a prima vista si potrebbe pensare diversamente,
ciò vale anche per la Matematica applicata alla Fisica. Se non ci fosse stata
la capacità di ripensare la costellazione degli strumenti matematici in modo
libero e creativo, non sarebbe mai nata la Meccanica quantistica.
Si leggano in
proposito le osservazioni di uno dei più grandi fisici del Novecento, Paul
Dirac, per rendersi conto di questa profonda libertà – una libertà che,
ovviamente, non è irresponsabile, ma rende conto dei prodotti dell’immaginazione
alla critica razionale, quella che proviene dalle persone strettamente
competenti, ma talvolta anche da fonti diverse e inaspettate. Mi piace sottolineare la libertà della Matematica contro lo stereotipo di
Adorno e di Horkheimer perché, in una forma di sapere (o piuttosto non-sapere) comune,
i pregiudizi nei confronti della Matematica vanno di pari passo con quelli,
diffusissimi, contro la tecnologia. Come a dire che se il mondo va male è colpa
da una parte dei matematici, dall’altra degli ingegneri (tanto peggio per
coloro come Dirac che erano entrambe le cose!).
pERCHè SI HA PAURA DELLA SCIENZA?
Può apparire
paradossale che gli stereotipi antiscientifici siano diffusi in un mondo che ha
avuto dalla ricerca scientifica un’enorme serie di benefici, storicamente e
statisticamente accertati. Come mai si produce questa “ritirata dalla scienza”,
come mai, nonostante tutto, si ha ancora paura degli scienziati, per riprendere
il titolo di un bel libro di Gilberto Corbellini?2
Come mai ancora oggi si temono scienza e tecnica come
macchine che distruggono la libertà dell’essere umano? Non si ha il coraggio,
che almeno aveva Martin Heidegger, di dire che “la
scienza non pensa” (affermazione del tutto infondata ma
perlomeno coraggiosa), ma si compie invece la mossa retorica di prendersela
con lo “scientismo”, dichiarando di essere per la scienza e contro lo
scientismo. Peccato che non si capisca bene che cosa intendano per “scientismo”
coloro i quali dicono di combatterlo: più semplicemente, mostrano di essere di
fatto contro la scienza.
Viene in mente la “banda dei quattro” di cui parla
Corbellini: bioeticisti, intellettuali umanisti, religiosi fondamentalisti e molti
politicanti. A questo proposito, è significativa la deformazione del termine “bioetica”
che all’inizio si riferiva alle possibilità che l’impresa scientifica poteva
offrire per un’etica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma è poi venuto
a indicare una sorta di retorica in cui ciascuno tira fuori i propri valori “non
negoziabili”.
Vorrei
accennare brevemente a due questioni (dovrei dire due pseudoquestioni) in
qualche modo collegate all’argomento di questo articolo. La prima è il “Croce
revival”, il fatto che periodicamente viene fatta un’apologia dell’erudito e
poligrafo nativo di Pescasseroli. Questo fenomeno è molto italiano, molto
locale e, per molti aspetti, folkloristico. Liquiderei la faccenda a livello
teorico con quattro parole: “Popper sì, Croce no”. Se pensiamo a quella tradizione
di pensiero che abbina la democrazia a un costituzionalismo liberale, la
filosofia di Croce ci dice varie cose ma non la cosa più importante, ovvero la
rilevanza dell’impresa scientifica.
Un liberalismo che non tenga conto degli sviluppi potenti dell’impresa
tecnico-scientifica è un liberalismo zoppo. Non
sto a discutere se Croce fosse davvero più o meno aperto alla scienza, se sia
stato lui la causa dell’arretratezza italiana in campo scientifico. Sarei portato a dire di no, semplicemente perché penso (e qui arriva il problema
reale) che ci sia stato nel nostro Paese un ritardo politico nei confronti della
scienza, i cui effetti più deleteri sono stati efficacemente denunciati in
alcuni recenti libri3.
Può un cristiano essere darwiniano?
Un’altra
questione che a livello intellettuale ritengo sia uno pseudo-problema è quella
del conflitto tra scienza e religione. Può un darwiniano essere cristiano, o,
viceversa, può un cristiano essere darwiniano? La mia risposta è semplice: un
cristiano faccia quel che vuole e lo stesso faccia un darwiniano che sente
bisogno di trascendenza. Non è questo il punto. Se esiste un effettivo contrasto
tra una forma linguistica legata alla scienza e altre forme linguistiche legate
a tradizioni secolari e millenarie come le religioni storiche, il problema
non è degli scienziati, ma dei religiosi.
Basterebbe leggere il Bertrand Russell
di Science and Religion (1935) per
capire che quello del conflitto tra scienza e
religione è un falso problema. È la copertura di un problema reale che è di
natura politica: l’invadenza nella vita pubblica di una qualsiasi “chiesa”
istituzionalizzata (uso qui la parola “chiesa” in maniera assolutamente generale).
Questa presenza è particolarmente pesante nel nostro Paese, dove l’istituzione
religiosa cattolica è una potenza mondana, che pretende di dettare legge anche
nel campo della politica scientifica.
Ma
riprendiamo il filo principale del nostro discorso. Avendo detto della libertà
nella scienza – la libertà dell’immaginazione della ricerca scientifica –,
affrontiamo ora un altro problema estremamente delicato, quello del rapporto tra
scienza e democrazia. Prima di risolvere la questione dicendo che scienza e
democrazia vanno a braccetto insieme, è importante sottolineare che l’impresa
scientifica in certe situazioni è
prosperata anche in Paesi poco democratici e distanti dal costituzionalismo liberale.
La scienza è stata esaltata, per esempio, in modo retorico da Benito Mussolini
durante il fascismo. Guglielmo Marconi era per i fascisti il simbolo del genio
italiano.
Peccato che per fare la radio fosse dovuto andare in
Inghilterra. Pensiamo anche all’esaltazione della scienza nel periodo eroico
della costruzione dell’Unione Sovietica (fra gli ultimi anni di Lenin e il
1933-34, quando Stalin è già saldo al potere).
Nell’URSS le scienze erano viste
come grandi forze produttive e dunque il regime sottolineava l’importanza
dell’impresa scientifica e assegnava posizioni di privilegio ai rappresentanti
dell’élite dei ricercatori. Anche se dopo il 1934 le cose cambiarono, questa
era una delle ragioni del fascino esercitato dall’URSS su scienziati
occidentali, come Dirac. Ci sono anche oggi Paesi che sono democrazie autoritarie,
forme miste di elementi liberali e strutture dispotiche, nazioni totalitarie o
in mano a fondamentalisti di svariati colori in cui si sviluppa, pur in assenza
di una tradizione liberaldemocratica, una buona ricerca scientifica e gli
scienziati godono magari di privilegi economici e sociali.
Non bisogna
tornare indietro alla scienza di Archimede, fiorita a Siracusa, città retta da
tiranni, per capire che la scienza si può sviluppare anche al di fuori del
sistema liberaldemocratico.
Il mio non vuole essere un attacco alla tesi
riassunta da Gilberto Corbellini nel titolo stesso di un altro suo recente libro,
Scienza, quindi democrazia4, ma semmai un argomento a favore. La prima tesi che ho esposto era relativa alla libertà nella pratica
scientifica. La seconda, invece, riguarda quella che chiamerei la “clausola di
assenza di tirannia virtuale”. L’assenza di tirannia virtuale è uno dei temi
politici del repubblicanesimo classico (da Machiavelli in poi, passando da
Montaigne, Milton e una serie di altri pensatori, tra cui Spinoza con i suoi
due trattati di natura politica) che potrebbe essere esemplificato da un
pensiero di Blaise Pascal: “Ti trovi bene col tuo padrone, sei
schiavo felice ma stai attento perché
egli potrebbe cambiare idea e allora ti prenderebbe a botte”.
Il rischio che la scienza corre in Paesi che non rientrano nella tradizione
liberaldemocratica è che a un certo punto le cose cambino drammaticamente per gli
scienziati e che il tiranno locale (o il gruppo di tirannelli o di funzionari, la
cappa dei burocrati, ecc.) inizi a “prenderli a botte”. Si pensi alla vicenda di
figure come Kapitza o Landau, per citare due grandi protagonisti della Fisica
sovietica. Kapitza tentò di restare il più possibile all’estero, ma quando rientrò
in patria subì i “panegirici” di Stalin e non poté più muoversi. Landau invece, che
aveva intenzione di insegnare ai funzionari del partito come si dovesse essere
comunisti in modo più libertario, sperimentò per un certo periodo le galere
sovietiche. E si potrebbero ricordare molti altri casi, anche senza
focalizzarsi sul destino terribile dei biologi sovietici durante lo sciagu rato
caso Lysenko, anch’esso esemplare di come la tirannide, magari in nome di una
certa retorica pseudoscientifica, possa a un certo punto distruggere la scienza
stessa.
Conta allora
quell’elemento fondamentale che è la tolleranza delle opinioni diverse dalle
proprie, anzi il bisogno di opinioni diverse dalle proprie. Galileo nella sua
pratica e nelle sue liti così umorali con i propri avversari lo aveva ben
capito: una disputa scientifica non è una maledizione, ma un’occasione per
crescere. Lo teorizza apertamente nella prima giornata del suo Dialogo
sopra i due massimi sistemi e riprende un tema che era già presente nel
Saggiatore quando diceva pressappoco così: “Signori,
se voi seguirete esperimenti
e Matematica, non vi farete mai servi dell’intelletto altrui”.
Queste parole
di Galileo che mi piace sempre citare sono state definite dallo storico della
Matematica Morris Kline la prima dichiarazione di indipendenza: politica, non
solo intellettuale. La seconda
grande dichiarazione di indipendenza politica della storia è quella americana,
e coloro che la scrissero sapevano benissimo come erano andate le cose con
Galileo. Basta leggere quel gioiello che sono Le note
sullo stato della Virginia vergato da Thomas Jefferson nel momento
conclusivo della lotta di liberazione delle colonie
dal padrone britannico e modellato come grande manifesto di una virtuosa
politica che si nutrisse di impresa scientifica.
Al tema dell’assenza
di tirannide virtuale, peraltro, sono indirizzati alcuni degli emendamenti
della costituzione americana, compreso
quello riguardante a libertà di portare armi. Questa però per un cittadino americano non è evidentemente la libertà di
sparare in una coda di persone che stanno aspettando di entrare in un cinema; è
un diritto permanente di insurrezione, nel momento in cui il governo
dovesse spegnere quelle libertà, di cui la libertà scientifica è uno degli esempi
fondamentali. Per questo nel liberalismo è importante la tradizione di pensiero
che fa continuamente i conti con la scienza e vede nel modello della libera
discussione dentro la comunità scientifica un modello più generale per la società
politica.
Oltre che ai
padri fondatori della nazione americana, penso al capitolo secondo del Saggio
sulla libertà di John Stuart Mill e in particolare a
uno dei suoi passi più famosi: “Se si vietasse di dubitare della
Filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua
verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su
altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle
infondate”5.
Era il 1859 e
si dibatteva attorno a quel gioiello matematico che è la teoria delle
perturbazioni dei pianeti, uno dei pezzi forti della Meccanica celeste newtoniana.
Guardando alle cose col senno di poi, per fortuna ci sono stati coloro che
hanno dubitato della Fisica newtoniana perché altrimenti non avremmo mai avuto
né le prime teorie quantistiche e la relatività ristretta nel 1905, né nel
1915-16 la teoria della relatività generale. Per fortuna sono venuti fuori
uomini che hanno osato criticare Newton: uomini come Mach, come Planck, come
Einstein e molti altri. Certo, la loro è una critica costruttiva nel senso che
(per dirla con una battuta cara a Giordano Bruno) “del
buon vecchio antico non si caccia via niente”. Se andiamo
a vedere anche le posizioni dei più radicali innovatori di quella che è stata
la maggior sfida al senso comune nella scienza del Novecento, la Meccanica
quantistica (e subito dopo l’Elettrodinamica quantistica), si vede che anche
qui si è sempre cercato di capire, alla luce del nuovo punto di vista, quello
che c’era di buono nel vecchio e perché il vecchio in qualche contesto
funzionava e poteva, in una certa misura, sopravvivere.
Questa è una
delle ragioni per cui io penso che, se dovessi fare una lista di grandi
filosofi del Novecento (scherzavamo sempre su questo punto io e l’amico Enrico
Bellone), metterei dei signori che si chiamano Max Planck, Albert Einstein,
Paul Dirac, Niels Bohr e, last but not least,
il nostro grandissimo Enrico Fermi, che non è solo il prototipo del grande
fisico sperimentale ma anche il geniale autore di teorie di grande rilevanza
concettuale.
Le conseguenze inaspettate del metodo sperimentale
Detto questo, vorrei riprendere il tema trattato da Corbellini in Scienza,
quindi democrazia e introdurre un piccolo elemento di
dissenso. Sono d’accordo sul fatto che, insieme all’economia di mercato e alla
democrazia, la scienza abbia dato vita a un sistema che produce benessere e
libertà e riduce le diseguaglianze. È un capitolo della storia del nostro
Occidente di cui dovremmo andare orgogliosi.
L’unico punto
che mi lascia perplesso quando si parla, per esempio, del ruolo “del
metodo scientifico nella
creazione delle condizioni che hanno favorito l’emergere dei moderni sistemi di
governo democratico”6 è proprio l’espressione “metodo
scientifico” perché, per dirla con Popper, sono
portato a credere che il metodo scientifico non esista. Non esiste nel senso
che si era proposto René Descartes nel
suo Discours de la méthode del 1637: non
esiste un insieme di direttive che ci portino più o meno automaticamente alle
idee giuste. In questo senso dico che non c’è un metodo,
ma sostengo che ci siano più metodi,
perché ogni area di ricerca ha la sua euristica che è molto importante: è l’indicazione
delle cose che si vogliono trovare, dei
problemi da risolvere e di alcuni dei mezzi possibili per risolverli. Ogni
impresa nella scienza ha il suo metodo e i vari metodi possono essere molto
diversi l’uno dall’altro. Il metodo che insiste sulla chiarezza e la
distinzione della Geometria poi chiamata “analitica” è un metodo di grande
forza ed efficacia nella costruzione filosofica generale di Descartes.
Ma non
funziona se si ha a che fare, per esempio, con le forze attrattive a distanza,
come pochi decenni dopo è successo a Isaac Newton. Qual è dunque il vero metodo
scientifico, quello di Cartesio o quello di Newton? Personalmente, sono per un
forte pluralismo metodologico.
Il metodo scientifico, in senso
esclusivo, semplicemente non c’è. Ci sono i metodi, che localmente via via la
comunità scientifica mette in luce e che talvolta sono strumenti di aggregazione
retorica e possono persino differire da quello che viene praticato caso per
caso. Può capitare che si abbiano delle regole metodiche impeccabili ma poi si
“razzoli male”. Per fortuna, come ha detto Paul Feyerabend ma anche,
tempo prima, Jules-Henri Poincaré, il ricercatore in certi casi è “un
opportunista” – e l’opportunismo è una forte
dimostrazione della libertà dell’immaginazione scientifica.
"La scienza non è democratica"
Uno dei
caratteri fondamentali della scienza è il fatto di essere “non
di senso comune” (uncommon
sense, per citare la bella espressione, titolo di un libro di Alan
Cromer che col consenso dell’autore abbiamo tradotto nell’edizione italiana con
L’eresia della scienza7).
Questo senso non comune è
un elemento che lega il mercato, la democrazia e la scienza. Prendiamo la
democrazia: perché non pensare a società in cui tutto funziona bene perché ci
sono davvero “ordine e gerarchia” (per riprendere in modo diverso la battuta di
Horkheimer e Adorno). In realtà, l’aspetto liberalcostituzionale della
democrazia è, a pensarci bene, piuttosto innaturale. Per esempio, molti pensano
ancora adesso, anche nel nostro Paese, che la democrazia si identifichi con la
regola della maggioranza. Questo è prima di tutto un errore storico.
Proprio i Founding
Fathers della democrazia americana nutrivano il timore
che essa si riducesse a tale regola di maggioranza. Basta leggere il carteggio
tra John Adams e il già citato Thomas Jefferson per rendersene conto. In quella
tradizione, l’accento è posto invece sulla protezione delle minoranze e sul
libero dispiegamento del dissenso. E se il dissenso fosse rappresentato da una
sola persona, tanto meglio, come ebbe a scrivere mirabilmente Karl Popper nella prefazione al suo Poscritto
alla Logica della scoperta scientifica.
Certo, la
scienza non è democratica nel senso della regola di maggioranza, come intuiva
già Galileo: non si decide per alzata di mano se la Terra giri intorno al Sole
o viceversa. Nella gara scientifica, diceva Galileo, contano i “cavalli berberi”
pronti a scattare (l’uncommon sense)
e non i “cavalli frisoni” forti e adatti a tirare le chiatte lungo i canali dei
Paesi Bassi (il common sense).
In questo senso stretto, la scienza non è democratica. Ma lo è, invece, se
consideriamo che la democrazia incorpora l’avversione contro qualsiasi forma di
tirannide. Sotto questo profilo farei una proposta: invece di parlare di metodo
scientifico, parliamo di una sorta di atteggiamento che vede convergere principi,
canoni e metodi diversi. Si tratta di una tendenza umana che risale forse alla
preistoria, comunque al momento in cui abbiamo capito che spiegare significa,
come diceva René Thom, “ridurre l’arbitrario di qualunque morfologia
osservabile”.
A questo
proposito, consideriamo questo argomento: “Chi fa sì
che la Terra si sia formata? Dio. Chi fa sì che sia stata popolata di piante e
animali? Dio. Chi alimenta la nostra intelligenza (se mai c’è)? Dio”.
Bellissima affermazione non di un rappresentante di una religione rivelata,
bensì di Voltaire, nel suo Dictionnaire philosophique.
La tesi di Voltaire è molto pregnante –
Dio, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo – ma non ha niente a che vedere
con la spiegazione scientifica. Se tutto avviene per volontà di Dio, non si
riduce affatto l’arbitrario della descrizione; questa, anzi, diventa più arbitraria.
Abbiamo, al contrario, bisogno di prevedibilità, di ripetibilità degli esperimenti
e laddove gli esperimenti non fossero ripetibili abbiamo bisogno di strumenti
che ci permettano di correggere le ipotesi andando a vedere gli effetti
collaterali. Questa possibilità esiste almeno dai tempi in cui un reverendo scozzese,
Thomas Bayes, inventò un teorema che
permette di fare questi controlli sulle ipotesi, anche su quelle che a prima
vista non sembrano facilmente controllabili. Per esempio, chi di noi potrebbe
sottoporre a controllo diretto il Big Bang? Si può andare a indagare, invece,
la plausibilità del Big Bang sulla base degli effetti collaterali.
Questo è l’atteggiamento
bayesiano abituale che permette, per esempio, di andare a trovare conferme per
le ipotesi darwiniane. Joseph Ratzinger disse nel 2006 di non capire come si
possa controllare la teoria di Darwin perché essa comporta un lasso di tempo troppo
grande rispetto alle nostre modeste capacità. Gli consiglierei la lettura degli
scritti di Bruno de Finetti, che permettono di capire come possiamo controllare
anche ipotesi come quelle sulla nascita dell’universo, sulla genesi del sistema
solare o appunto sull’evoluzione darwiniana. Alla luce di tutto ciò, possiamo dire
oggi con grande sicurezza, come ha affermato Luca Luigi Cavalli Sforza, che la teoria di Darwin non solo è una
grande teoria ma è anche un “fatto” e il suo laboratorio è il mondo intero in
cui troviamo continuamente conferme bayesiane. Se la riduzione dell’arbitrario
è uno degli elementi in cui convergono i metodi e gli approcci più svariati e
più liberi dell’impresa scientifica, il problema del rapporto con la religione
è automaticamente risolto o, meglio, non sussiste. Non abbiamo bisogno di Dio,
degli dei, degli spiriti disincarnati e dei miracoli per spiegare gli eventi
naturali, perché bastano i tentativi di costruire delle ipotesi e di
controllarle sperimentalmente e i vari metodi con cui riusciamo ad affrontare
questo tipo di situazioni.
Ultimo punto: l’Illuminismo ha una sua dialettica, che non è quella di cui
parlavano Horkheimer e Adorno.
È la dialettica fra l’Illuminismo mode rato di
Voltaire e di Kant, che lascia entrare entità non controllabili dentro al gioco
della morale e della politica, e l’Illuminismo radicale oggi descritto da
Jonathan Israel in una bellissima serie di volumi dedicati all’argomento: esso
esclude programmaticamente cause che aumenterebbero l’arbitrarietà invece di
ridurla. Se dovessi scegliere, starei con gli illuministi radicali, con
Spinoza, d’Holbach, Sade, Hume e non con Voltaire o con Kant (che è abbastanza
radicale nella Critica della ragion pura ma
nelle successive Critiche apre
una finestra per far rientrare quegli elementi mitici che potevano avere grande
valenza in passato e che, secondo lui, sarebbero anche utili nella nostra vita
quotidiana). Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara hanno
scritto un bel libro sulla naturalità della religione8 e sul fatto che la scienza, invece, è
innaturale. Il fatto che noi siamo evolutivamente riusciti, sfruttando particolari
circostanze, a fare anche scienza, democrazia e libero mercato (come insiste su
questo punto Scienza, quindi democrazia),
ci fa capire come sia giusta quella battuta che dice che, grazie alla teoria di
Darwin, molte cose che s sembravano misteri inspiegabili sono diventate oggi fortemente
intellegibili.
Bibliografia
1 Horkheimer M., Adorno T., Dialettica dell’illuminismo, tr. it. Einaudi, Torino, 1966, p. 28.
2 Corbellini G., Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi, Milano, 2009.
3 Maccacaro T. (a cura di), La ricerca tradita, Garzanti, Milano, 2007; Pivato M., Il miracolo scippato, Donzelli, Roma, 2011.
4 G. Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino, 2011.
5 Mill J.S., Saggio sulla libertà, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 45.
6 Corbellini G., Scienza, quindi democrazia, cit., p. XIV.
7 Cromer A., L’eresia della scienza, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 1996.
8 Girotto V., Pievani T., Vallortigara G., Nati per credere, Codice, Torino, 2008.
Tratto da Scienza & società - Scienza e Democrazia, Editore Egea