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Un Nobel… microscopico

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Premio Nobel per la Chimica 2014 all’americano William E. Moerner, 61 anni, all’americano Eric Betzig, 54 anni, e al rumeno residente in Germania Stefan W. Hell, 52 anni, per lo sviluppo della microscopia a fluorescenza super-resolved, ovvero una microscopia ottica ad altissima risoluzione, capace di farci vedere oggetti alla scala dei nanometri e, anche per questo, definita nanoscopia.
Il comitato del Nobel ha premiato una performance recente (meno di 15 anni) che non ha solo un prezioso carattere di natura tecnica e applicativa. Ma contiene in sé anche qualcosa di più profondo.

 (foto di fibroblasto con la miscopia a fluorescenza

La super-resolved fluorescence microscopy di Moerner, Betzig e Hell elude, infatti, un “criterio di impossibilità” e non solo ci consente di vedere coi nostri occhi cose mai viste prima, ma ci consente di vedere cose che coi nostri occhi in linea di principio appunto non potremmo vedere: cellule del sangue come cellule di lievito, batteri come spermatozoi. (foto di un fibroblasto con la miscopia a fluorescenza)
Non entriamo nei tecnicismi. Chi vuole può facilmente capire come i tre neolaureati abbiano eluso quel “criterio di impossibilità” con due metodologie diverse e spiegate con grande chiarezza sia in termini divulgativi sia in maniera più approfondita sul sito ufficiale della Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma.
Limitiamoci a ricostruire la storia all’interno della quale le loro tecnologie si sono sviluppate e il grande problema che hanno risolto.
Come si sa, nel luglio 1609 Galileo Galilei si ritrovò per le mani un giocattolo, un cannocchiale, messo a punto da alcuni artigiani olandesi. Consentiva di vedere, con un minimo di definizione, oggetti lontani un po’ ingranditi.
Il toscano, professore di matematica a Padova, passò tutto il mese di luglio a migliorare l’oggetto finché non lo trasformò in uno strumento scientifico. Con una capacità di ingrandire gli oggetti e con una definizione che, nei mesi a cavallo tra il 1609 e il 1610, gli consentirono di puntarlo verso il cielo e di vedere, letteralmente, cose mai viste prima: la Luna, della stessa specie della Terra; quattro satelliti di Giove, i primi oggetti celesti che chiaramente non ruotavano intorno alla Terra e, ultimo ma non ultimo, innumerevoli stelle fisse invisibili a occhio nudo.

Tutto ciò che vide allora (e dopo) erano sì cose mai viste prima. Ma nulla, in linea di principio, impediva fino ad allora di vederle. Non c’era alcun “principio di impossibilità”. Tant’è che Giovanni Battista Della Porta definì (salvo poi ricredersi) “coglionerie” i cannocchiali di Galileo, salvo poi ricredersi. Il pesante aggettivo aveva una ragione: il napoletano aveva messo a punto una teoria di fisica ottica che, in linea di principio, consentiva di costruire cannocchiali ben più potenti e di vedere le cose effettivamente viste per primo da Galileo.
Quanto a quest’ultimo, trasferitosi a Firenze e divenuto primario filosofo e matematico del Granducato di Toscana, qualche anno più tardi iniziò a cambiare la disposizione delle lenti e mise a punto uno strumento capace di “vedere le cose minime”: un microscopio ottico.

L’Europa restò senza fiato quando due fedeli amici di galileo, Federico Cesi e Francesco Stelluti,  riportarono in un libro, l’Apiarium, le immagini (mirabilmente disegnate) di particolari di api mai visti prima.
Anche in questo caso i due lincei e poi una costellazione di altri naturalisti non violavano alcun “principio di impossibilità”: le leggi dell’ottica consentivano in linea potenziale di vedere quello che Cesi e Stelluti e altri vedevano in linea attuale. 

Nel corso degli anni e dei decenni, il microscopio ottico (così come il telescopio), ha subito continui miglioramenti. Cosicché le “cose mai viste prima” sono cresciute in maniera sistematica e hanno segnato quello che molti chiamano il “progresso della scienza”. Sembrava che non ci fosse limite alle possibilità di vedere “cose sempre più minime”. Finché, come ci ricordano gli esperti della Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma, nel 1873 un microscopista tedesco di Eisenach, Ernst Abbe, fisico abile tanto nell’osservare che nel teorizzare, non butto giù l’equazione di un “principio di impossibilità”. Nessuno avrebbe mai potuto costruire un microscopio capace di farci vedere cose minime al livello del decimo di micron (un decimilionesimo di metro).
Le leggi dell’ottica, infatti, impediscono di ottenere una definizione superiore alla meta della lunghezza d’onda della luce visibile (all’incirca a 0,2 micron). Dunque il più potente dei microscopi ottici poteva consentire di vedere cellule del corpo umano (circa 60-70 micron), batteri (circa 5 micron), persino organelli intracellulari come i mitocondri (0,8 micron circa), ma poi basta. Mai sarebbe stato possibile vedere con un microscopio ottico oggetti piccoli a livello dei miliardesimi di metro (Nanometri), come virus (70-80 nanometri), proteine (10 nanometri) o addirittura piccole molecole.

Questo era un “criterio di impossibilità” considerato insuperabile. Per vedere quelle cose minime i fisici e gli ingegneri hanno inventato nuove tecnologie (come i microscopi atomici o a effetto tunnel).
Che, tuttavia hanno il piccolo difetto di disturbare, talvolta fino a distruggere, gli oggetti minimi che vogliono osservare.
Bene, mettendo a punto due tecniche fondate sulla fluorescenza, un secolo e un quarto dopo l’equazione di Abbe i tre premiati hanno eluso il “criterio di impossibilità”. E oggi ci permettono di vedere (e anche di studiare nel loro ambiente) oggetti che non solo non erano mai stati visti prima (non con la luce visibile), ma che non potevano essere visti.

Un bel risultato, non trovate?, che merita ampiamente il Nobel.   

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