fbpx Un cromosoma di troppo? mettiamolo knock Down | Page 2 | Scienza in rete

Un cromosoma di troppo? mettiamolo knock Down

Read time: 2 mins

Non è ancora un trattamento capace di far sparire tutti gli effetti provocati da quel cromosoma 21 in più che provoca la sindrome di Down: per ora i ricercatori statunitensi e canadesi che hanno pubblicato i loro risultati su Nature hanno solo corretto il difetto in colture di cellule staminali prelevate a questi pazienti. Ma non è poco come primo passo per la cura di una condizione che finora sembrava difficile trattare, così come le altre in cui l’anomalia non riguarda un solo gene ma un intero cromosoma. «Abbiamo preso spunto da quel che accade normalmente nello sviluppo degli embrioni femminili sani, in cui l’espressione genica di uno dei due cromosomi X viene bloccata» spiega Jeanne B. Lawrence, dell’Università del Massachusetts, che insieme con Fyodor Urnov, della californiana Sangamo BioSciences, ha coordinato la ricerca. Ciò avviene grazie a un singolo gene chiamato XIST, che produce una molecola di RNA non codificante ma capace di rivestire il cromosoma X mettendolo a riposo. «Abbiamo quindi provato a inserire questo stesso gene nel cromosoma 21 di cellule staminali pluripotenti con l’anomalia tipica della sindrome di Down, cioè la trisomia del cromosoma 21» prosegue la ricercatrice, «e abbiamo ottenuto lo stesso risultato: il cromosoma in eccesso è stato per così dire “impacchettato” e messo fuori uso. E, quel che è più interessante, ciò ha provocato subito la scomparsa delle anomalie di crescita delle cellule staminali, e, soprattutto, la loro difficoltà a differenziarsi verso il tessuto nervoso». Roberta Villa

Nature, published online 17 July 2013 

 

Autori: 
Sezioni: 
Genetica

prossimo articolo

Alimentazione sostenibile: imparare dalla preistoria

Dimostrazione cottura preistorica

Il progetto  Onfoods in prehistory ha voluto comprendere e ricostruire l’eredità di una agricoltura sostenibile nata nella preistoria, migliaia di anni, fa e in grado oggi di rappresentare un modello di riferimento. E lo ha fatto con particolare attenzione alla condivisione di questi valori con un pubblico più ampio possibile, sottolineando quanto si può imparare dalla ricerca archeologica e dalle comunità dell’età del Bronzo in termini di alimentazione sostenibile. Ce ne parla il gruppo di ricerca che ha portato avanti il progetto.

Nell'immagine: attività di archeologia sperimentale dimostrativa con cottura di una zuppa di lenticchie e una di roveja, con ceramiche riprodotte sperimentalmente sulla base dei reperti ceramici del villaggio dell’età del Bronzo di Via Ordiere a Solarolo (RA).

Pluridecennali ricerche sul campo, condotte da Maurizio Cattani, docente di Preistoria e Protostoria dell’Università di Bologna, e dal suo team, hanno permesso di riconoscere nell’Età del Bronzo il momento in cui si è definito un profondo legame tra la conoscenza del territorio e la sostenibilità della gestione delle sue risorse. Questa caratteristica ha infatti consentito alle comunità dell’epoca di prosperare, dando vita a villaggi sempre più stabili e duraturi nel corso del tempo.