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Cosa ci insegna l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale

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Solo ai primi di agosto del 2014, quasi cinque mesi dopo il riconoscimento che si trattava di un’epidemia di Ebola, il WHO ha lanciato l’allarme della “emergenza internazionale”. Più di un mese dopo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dichiarato che si trattava di una “minaccia per la pace e la sicurezza”. Queste espressioni, nei modi e nei tempi, hanno condizionato le finalità, le caratteristiche e l’efficacia degli interventi internazionali per contenere l’epidemia.
L’opinione pubblica è stata indotta a temere che il virus potesse, non solo arrivare in occidente e trasmettersi sporadicamente come è avvenuto, ma dilagare come in Africa.

Il report prodotto nel marzo 2015 da Medecins sans frontières denuncia con crudezza la “global coalition of inaction” e il “vacuum of leadership” vissuti da chi si trovava sul campo a fronteggiare una spaventosa emergenza ormai fuori controllo, senza le risorse necessarie. E ne elenca le cause: mancanza di volontà politica, inesperienza e pura e semplice paura.
All’inizio del 2015 il direttore del WHO Margaret Chan ha ammesso che l’agenzia era completamente impreparata per affrontare un’emergenza del genere e ha promesso la più profonda riforma dell’organizzazione da quando è stata fondata nel 1948. Il cambiamento dovrebbe trasformare un’agenzia tecnica e consultiva in un corpo operativo dotato di fondi stabili destinati alle emergenze e di una squadra di medici, infermieri ed epidemiologi pronti per intervenire subito sul campo. Lo si era già detto dopo il flop sull’allarme pandemico del 2009, ma questa potrebbe essere la volta buona per rendersi conto che, in un mondo globalizzato anche per la salute, le istituzioni sovranazionali devono essere rinforzate e rese indipendenti, non indebolite e sottoposte ad altri interessi particolari.

Coerentemente, la leadership del WHO ha riconosciuto le mancanze e gli errori della propria azione in uno statement che elenca con umiltà e in un linguaggio insolitamente schietto otto lezioni apprese perché l’Organizzazione possa in futuro “play its rightful place in disease outbreaks, humanitarian emergencies and in global health security”. E richiama tutti i leader mondiali a fare quello che devono perché il disastro non si ripeta. Anche Bill Gates in un editoriale pubblicato The New England Journal of Medicine sottolinea come mentre l'epidemia di Ebola sfuma dall'attenzione del mondo, si rischia di perdere l'opportunità di imparare da essa.
Due delle “lezioni” apprese (We have learned that…) riguardano specificamente la mobilitazione delle comunità e la comunicazione, e quindi interessano direttamente lo sviluppo delle attività del progetto ASSET [1].

Le popolazioni delle regioni colpite in realtà si sono mobilitate durante l’epidemia, ma lo hanno potuto fare solo in maniera per lo più improvvisata, organizzando gruppi di volontari disponibili a svolgere attività di sorveglianza, di individuazione dei malati e dei contatti, di informazione capillare e persino di check point nei punti di accesso delle comunità. Secondo diversi osservatori queste iniziative spontanee hanno avuto un peso determinante nel contenimento dell’epidemia, assai più degli investimenti miliardari nella costruzione tardiva di centri per i malati. L’esercito americano in Liberia ha allestito 11 centri con centinaia di letti, ma quando attorno a Natale del 2014 sono stati finalmente pronti, il contagio stava ormai scemando: alla fine, solo 28 malati sono stati assistiti in due dei centri di nuova apertura, gli altri sono rimasti completamente vuoti.

La NGO italiana EMERGENCY, già presente in Sierra Leone da oltre un decennio con un ospedale chirurgico e pediatrico, ha gestito anche due centri per il trattamento dei malati, e ha potuto farlo in un contesto di dialogo con le comunità locali grazie alla conoscenza e fiducia costruite in precedenza. Per esempio a Waterloo — ex campo profughi della guerra civile a un paio d’ore dalla capitale — EMERGENCY ha risposto alla domanda d’aiuto dei volonterosi locali, che non trovavano interlocutori, ponendo un avamposto stabile e attrezzato per la formazione, l’informazione, il triage e il trasporto con ambulanza dei casi sospetti.

Se attività di questo genere — che fanno tesoro della capacità di mobilitazione spontanea, prevengono rassegnazione e disperazione, e costruiscono fiducia — fossero state meno trascurate dai responsabili dell’intervento internazionale, non solo si sarebbero risparmiati molti lutti, ma si sarebbero poste le basi per una “ricostruzione” più rapida della regione.
Una lezione che il documento del WHO non mette bene a fuoco riguarda la cura dei malati.

Tutti ovviamente riconoscono che non ci si può limitare a isolarli, per evitare che contagino altri, ma per molti mesi i centri di trattamento non hanno fatto molto di più. All’inizio per necessità, sopraffatti dal numero degli infetti e dalla scarsezza dei mezzi. Poi però, quando gli aiuti sono cominciati ad arrivare, la limitazione dell’assistenza a un’idratazione orale, evitando qualsiasi intervento invasivo, è diventata una scelta “giustificata” solo dalla paura di esporre gli operatori a rischi eccessivi. All’estremo opposto, con l’aiuto della cooperazione britannica, EMERGENCY ha allestito e gestito nel pieno dell’epidemia una vera terapia intensiva, nella quale i malati hanno ricevuto una terapia di supporto compresa la ventilazione meccanica e la dialisi paragonabile a quella offerta ai malati di Ebola rimpatriati in occidente. La lezione è che si può fare, senza rischi eccessivi per il personale, e che la scelta richiede solo il riconoscimento dell’uguaglianza del diritto a essere assistiti.
Cure specifiche non ce ne sono, ed è stata anche questa un’occasione sprecata. Ad agosto il WHO aveva riconosciuto che, data l’eccezionalità della situazione, poteva essere eticamente giustificato offrire farmaci sperimentali anche solo sulla base di dati preliminari in laboratorio o negli animali. Ed era giusto, perché la dimostrazione di efficacia di un possibile rimedio contro Ebola (o altri agenti infettivi simili) si può ottenere solo in corso di epidemia, con tutte le difficoltà del caso, compresa la necessità di fare in fretta.
Sono partiti investimenti ingenti per la ricerca sui vaccini e sugli interventi curativi, grazie soprattutto a fondazioni private come l’americana Bill Gates o la britannica Wellcome Trust, ma di risultati trasferibili nella pratica se ne sono ottenuti pochi. I vaccini sono probabilmente molto efficaci e sicuri, in base ai dati sui primati e alle prime fasi nell’uomo, per cui in mancanza di meglio li si potrebbe anche utilizzare per impedire un’epidemia futura, costo permettendo. Ma sui trattamenti curativi non si sono fatti passi avanti utilizzabili in pratica.

Due gli errori principali. Primo, avere rinunciato in alcuni dei pochi studi avviati al confronto randomizzato, ritenuto non etico, quando nell’incertezza è vero il contrario. I trial senza un confronto comparabile raccolgono dati da cui non è possibile trarre alcuna conclusione, e sono quindi uno spreco da tutti i punti di vista, anche morale. Secondo, non aver colto l’opportunità di dare la precedenza alla sperimentazione di farmaci già in uso da tempo per altre indicazioni e attivi contro Ebola, con due vantaggi: non si fanno correre ai malati rischi ignoti e sono accessibili da subito nelle quantità necessarie e a costi infinitesimi rispetto ai nuovi.
Una delle obiezioni avanzate contro gli studi randomizzati era l’impossibilità di ottenere un consenso realmente informato. La difficoltà è reale, anche in contesti meno drammatici e più sviluppati, ma non riguarda solo gli studi clinici. Qualsiasi intervento, sperimentale e non, individuale o collettivo, nel corso di un evento tragico come l’epidemia di Ebola richiederebbe uno sforzo straordinario di informazione e coinvolgimento. Ancora una volta il dialogo, l’ascolto, la comunicazione, la mobilitazione delle persone e delle comunità sono la chiave di volta non solo del successo pratico, ma del più generale dovere di essere umani.

L’autore è stato in Sierra Leone nel novembre 2014 presso la sede di Emergency e ha coordinato gli sforzi per avviare uno studio clinico con amiodarone contro EVD



[1] “We have learned lessons of community and culture. A significant obstacle to an effective response has been the inadequate engagement with affected communities and families. This is not simply about getting the right messages across; we must learn to listen if we want to be heard. We have learned the importance of respect for culture in promoting safe and respectful funeral and burial practices. Empowering communities must be an action, not a cliché.”

“We have learned the importance of communication – of communicating risks early, of communicating more clearly what is needed, and of involving communities and their leaders in the messaging”.

 

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