fbpx Per un rilancio della carta del rischio | Scienza in rete

Per un rilancio della carta del rischio

Primary tabs

Read time: 5 mins

Nella Costituzione italiana (art. 117), proprio come avviene concretamente nel territorio, la "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali" costituisce una macro-tematica unitaria, anche se nei governi le responsabilità normative e le gestioni vengono tenute nettamente distinte.

La nozione complessa di ambiente, anche etimologicamente, evoca proprio la realtà nella quale tutti siamo immersi, pur con le singolarità irripetibili di ogni persona; e in Italia, più che altrove, l'ambiente appare con evidenza connotato dal paesaggio agrario, dalla disseminazione di centri abitati e città di antica formazione, da concentrazioni di opere d'arte e cimeli storici nelle chiese, nei musei, in archivi e biblioteche, in dimore private antiche e moderne. Un insieme che è anche tecnicamente inscindibile nel suo essere sintesi meravigliosa della creatività delle comunità italiane e della capacità di tante persone, singole o associate, di rischiare innovazione in ogni generazione, di investire in cultura. Così inscindibile, che quasi quaranta anni or sono Giovanni Urbani (allora direttore dell'Istituto Centrale del Restauro) si impegnò magistralmente, con un gruppo di colleghi e di esperti, a dimostrare come proprio dal contesto ambientale provengono i fattori di rischio più minacciosi per la conservazione ed il godimento del patrimonio culturale, nella consegna che ogni generazione ne fa alle successive. Venne allora riconosciuto che il patrimonio artistico, storico, paesaggistico compone una "risorsa non rinnovabile", perché, almeno nella cultura italiana, esso è andato definendosi come entità complessa, dai molteplici valori e sensi, non riducibile dunque soltanto ad una superficie preziosa, ad un'immagine "bella" che le moderne tecnologie ci consentano persino di clonare o, addirittura, pretendere di migliorare, rispetto all'effigie, offesa dalle cosiddette ingiurie del tempo, che ci è pervenuta dal passato, dalla storia.

E dell'eredità ricevuta merita prendersi cura in modo condiviso, proprio perché il patrimonio culturale, a partire da quello pubblico, chiamato ad essere goduto da ciascuno, ha un'appartenenza che trascende persino la proprietà.

Se dunque l'autorità di tutela resta pubblica (in Italia è statale o regionale), il continuo lavorio di riconoscimento del bene comune che ci riguarda, tutti e ciascuno, nell'amministrazione del patrimonio culturale e del territorio non può non essere responsabilità da condividere tendenzialmente con tutte le persone e le comunità che compongono il nostro popolo. Ce lo ricorda, con la vita professionale e gli scritti, Hugues de Varine (1935), l'ideatore degli ecomusei: pensiamo al sui libro "Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale", pubblicato in Italia nel 2005; ma ce lo ricorda anche l'esperienza del nostro ambiente di vita quotidiana, se appena siamo attenti alle interdipendenze fra tutte le componenti della realtà in cui siamo immersi.

L'idea che la tutela dell'ambiente sia una leva fondamentale dello sviluppo, davvero essenziale nel presente momento economico, è stata riproposta più volte nel 2012 in particolare dal Ministro Corrado Clini: dal monitoraggio sistematico dei fattori di pericolosità territoriale ad una manutenzione davvero continuativa e pervasiva, anche in un'orizzonte di "vicinato", ad azioni integrate di prevenzione, Clini appare persuaso che questa sia la prospettiva di base per rilanciare in Italia lavoro e sviluppo. Né va ignorato che un approccio simile sia stato espresso anche dal Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, che, in un'intervista al Direttore del Corriere della Sera del 7 luglio scorso ha così enunciato la sua ricetta per la crescita: "Un ampio progetto di manutenzione immobiliare dell’Italia, di cura del territorio, una terapia contro il dissesto idrogeologico. I soldi, mi creda, si trovano. Si diano gli incentivi giusti, soprattutto a chi ha cura della messa in sicurezza dell’ambiente e della sua estetica".

Cura del patrimonio culturale e della bellezza dell'ambiente sembrano dunque meritare un sintonico approccio di governo tra chi ha la responsabilità dell’ambiente e chi ha quella del patrimonio culturale, così da essere non solo metodo per la salvezza del bel paese, del suo aspetto esteriore, ma anche cura profonda del disagio sociale, morale ed economico: siamo troppo legati al destino del nostro territorio per pensare di separarcene. Clini ha ricordato che la manutenzione del territorio e i processi partecipati di cura dell'ambiente, ad esempio la raccolta differenziata dei rifiuti, sono un antitodo potente contro l'infiltrazione della malavita organizzata, che preferisce la gestione delle discariche tradizionali per rifiuti maleodoranti e infetti. C'è allora da chiedersi perché non sia stato dato sviluppo alla "Carta del rischio del patrimonio culturale", varata nel 1997 dal Ministero per i Beni e le Attività culturali - seguendo l’impostazione di Giovanni Urbani - e poi lasciata alla deriva, senza fondi, mentre avrebbe potuto divenire, con gli opportuni adattamenti ed aggiornamenti, proprio la base per l'integrazione delle politiche di conoscenza, monitoraggio, manutenzione e pianificazione urbanistica del territorio italiano. Il suo rilancio oggi potrebbe essere una priorità nella collaborazione fra Stato, Regioni, imprese, Università e centri di ricerca, associazioni di volontariato, supportando sia la gestione locale del territorio sia la programmazione strategica nazionale per il risanamento ambientale, sulla base di un approccio conoscitivo condiviso, nel quale lo stato di rischio dei monumenti sia riconosciuto come un significativo "elemento tracciante" di tutto lo stato del costruito storico italiano, anche quello di interesse non culturale; e, di pari passo, dovrebbe svilupparsi una radicale semplificazione procedurale nella tutela dei beni culturali, paesaggistici ed ambientali che renda davvero possibili il rigore ed il controllo, sulla base di regolamenti tecnici chiari (oggi è in vigore ancora il regolamento del 1913!), ben diversi da quelle norme farraginose che di fatto agevolano pratiche elusive ed abusive e che, alla fine, consentono la gestione di troppe autorizzazioni in base alla pura discrezionalità.

Per intraprendere tutto questo, ci assicura la Banca d'Italia, i soldi si possono trovare. Le competenze tecnico-scientifiche invece già ci sono, in particolare nell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che ha tenuto in vita il sistema informativo nazionale della Carta del Rischio, nella speranza che possa venirne finalmente rilanciata l’implementazione. Sentiti gli esperti, basterebbe un finanziamento di appena un paio di milioni di euro ripartiti in due o tre annualità finanziarie.

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

30 all'ora per la vita: mettiamolo nel Codice della strada

limite di velocità

Il limite a 30km/h non è una fissazione antiautomobilistica da fricchettoni, scrive Silvia Bencivelli: a mostrarlo sono i numeri. Eppure, mentre l’Europa rallenta in nome della vivibilità e della sicurezza, sulle strade italiane il Codice della Strada permette di continuare a correre - non appena il traffico lo consente. Insomma, con il nuovo Codice, ora all'esame del Senato, abbiamo perso un'occasione per avere strade più sicure.

Crediti immagine: Markus Winkler/Unsplash

Le associazioni per la sicurezza stradale hanno tutte il nome di qualcuno. Lorenzo, Michele, Sonia, Matteo: persone che avrebbero preferito intestarsi altro, semmai, e invece sono morte sulla strada. Morte, perché qualcuno alla guida di un mezzo a motore le ha investite e uccise. Eppure noi quell’evento continuiamo a chiamarlo “incidente”, come se fosse inatteso, sorprendente: come se non fosse evidente che tra un pedone e un automobilista la responsabilità dello scontro è quasi sempre dell’automobilista e a morire è quasi sempre il pedone.