Quali sono i costi che
società e agricoltori pagano a causa della rinuncia alla coltivazione, ma non
al consumo, delle piante transgeniche? Questa scelta migliora o peggiora la
sostenibilità dell'agricoltura dal punto di vista colturale, ambientale o
economico?
Queste sono state alcune
delle domande al centro del convegno “Il costo della non scienza in agricoltura”,
che si è tenuto il 12 giugno 2014, presso la facoltà di Agraria dell’Università
di Milano.
L’aula magna gremita di
studenti, qualche giovane giornalista e qualche curioso, per l’incontro
organizzato da Daniele Bassi e Piero Morandini dell’Università di Milano che
hanno invitato due economisti - Graham Brookes, presidente della società di
consulenza agraria PgEconomics, e Justus Wesseler, professore di economia
agraria dell’Università olandese di Wageningen - per presentare una panoramica
dei costi del rifiuto europeo alle biotecnologie alimentari.
Tra le relazioni
c’è stata anche quella del giurista Paolo Borghi, dell’Università di Ferrara,
che ha cercato di delineare le molteplici contraddizioni in ambito normativo e
burocratico a dispetto delle quali si è concretizzato in ambito europeo un
bando di fatto delle colture transgeniche, con poche eccezioni, tra cui prevale
la Spagna per entità delle superfici coltivate.
Ha iniziato Brookes a
mostrare i risultati delle proprie ricerche
sull’impatto globale dell’utilizzo delle biotecnologie nell’arco di 16 anni
a partire dal 1996, con dati chiari: l’adozione crescente - che nel 2012 ha
raggiunto i 160 milioni di ettari coltivati da 17.3 milioni di agricoltori - ha
portato un incremento del fatturato pari a 116.6 miliardi di dollari
accompagnato da una riduzione nell’uso dei pesticidi pari a 503 milioni di kg.
Analizzando i soli dati del 2012, la
riduzione delle emissioni di anidride carbonica è pari a quelle emesse da 12
milioni di automobili. Tali benefici sono dovuti principalmente all’adozione di
piante transgeniche resistenti agli insetti e/o agli erbicidi, che hanno un
vantaggio diretto nell’aumento delle rese e uno indiretto nel risparmio di
fitofarmaci o di costi di coltivazione.
Brookes ha sottolineato come anche nel
caso dell’aumento di utilizzo di erbicidi dovuto alla resistenza di alcune
piante infestanti comunque l’impatto ambientale è stato ridotto rispetto a
quello che sarebbe stato se si fossero utilizzate colture convenzionali,
concludendo che l’agricoltura europea sta soffrendo un progressivo distacco
rispetto ai competitor internazionali con scenari futuri tutt’altro che
incoraggianti.
L'ingegneria genetica nelle colture Ue
Wesseler ha invece approcciato il problema dal punto di vista
decisionale, proponendo un
modello matematico per valutare la soglia massima di costi socialmente
tollerabili nell’ipotesi di adozione immediata di mais transgenico
resistente agli insetti e agli erbicidi e quali viceversa sarebbero i costi e
gli eventuali benefici di una adozione posticipata nel tempo, mostrando così
come i Paesi europei che rifiutano l’adozione immediata di queste piante che si
sono dimostrate migliori della controparte convenzionale stiano eliminando dal
processo decisionale una parte consistente di costi (ambientali ed economici).
E’ stato dunque il turno di
Paolo Borghi, che ha mostrato come la seconda direttiva europea (2001/18),
sebbene si proponesse esplicitamente di rendere “più efficace e trasparente” il
processo decisionale riguardo all’introduzione di prodotti e coltivazioni
transgenici, nei fatti è andata addirittura a peggiorare il già farraginoso e a
volte insensato approccio della prima direttiva (90/220/CEE).
Borghi ha criticato le
direttive mostrando le contraddizioni presenti tanto nelle norme stesse,
quanto nell’applicazione burocratica e indifferente a qualsiasi sensata
tempistica decisionale. Nel merito, ad esempio, è prevista una individuazione e
un conseguente processo di valutazione particolarmente lungo, ripetitivo e
costoso, delle piante in base al processo produttivo e non in base alle
caratteristiche della pianta che si vuole introdurre, indipendentemente da come
sia stata ottenuta - cosa che invece avrebbe senso volendo applicare un
ragionevole principio di precauzione che non consideri pregiudizialmente le
piante ottenute con le tecniche del DNA ricombinante come a priori più soggette
a rischi.
Ma anche prescindendo dal piano della norma - ha continuato Borghi - il caso
del richiamo del WTO del 2006, in cui non erano in discussione le norme, ma la
loro ragionevole applicazione, ha
portato alla luce come la burocrazia europea in tale materia porti a uno stato
di non-decisione de facto.
Il costo della non scienza in agricoltura
L’ultima relazione è stata
quella di Piero
Morandini, il quale ha ribadito l’insensatezza, dal punto di vista
scientifico, della definizione stessa di “pianta GM”: così come si trova nella
normativa europea, la definizione è del tutto arbitraria e anche fuorviante per
l’opinione pubblica, che viene portata a credere che le piante etichettate come
GM siano le uniche ad avere DNA mutato, mentre in commercio sono presenti da
sempre piante il cui DNA è stato modificato attraverso ibridazioni e mutagenesi
chimica o fisica, processi che certamente producono mutazioni genetiche ben più
estese e meno controllabili di quelle ottenute con le tecniche di transgenesi.
Morandini ha infine messo a nudo tutte le contraddizioni dell’opposizione,
esplicitando come tutte le possibili critiche che si possono avanzare contro le
piante transgeniche valgono a maggior ragione per le piante convenzionali,
oltre a palesare l’ipocrisia che permette di importare ogni anno 4 milioni di
tonnellate di soia transgenica per l’alimentazione del bestiame - che serve tra
l’altro a produrre prodotti tipici come il parmigiano reggiano - negando al
contempo la possibilità di coltivarla.
Il convegno si è chiuso con
alcuni interventi da parte degli studenti: alcuni hanno sottolineato come un
rinsavimento del mercato europeo potrebbe permettere, incidentalmente, anche un
miglioramento delle possibilità dei giovani ricercatori.
Altri hanno posto
l’accento con sgomento sull’impossibilità ad oggi di trovare un referente
politico che abbia il coraggio di andare contro lo zoccolo duro del pregiudizio
dell’opinione pubblica.
I relatori - compresi gli ospiti d’oltralpe - non hanno
potuto che confermare come tutti gli esponenti politici si siano mostrati, sia
in sede nazionale che internazionale e indipendentemente dall’orientamento di
partito, finora più inclini a seguire i sondaggi piuttosto che a guidare i
propri elettori oltre le nebbie della disinformazione.
I giovani non si sono
perduti d’animo e hanno invece accolto l’invito dei relatori a moltiplicare le
occasioni di confronto con l’opinione pubblica per costruire insieme una via
d’uscita, e forse parte della speranza è stata incoraggiata anche dalla presenza,
tra il pubblico, della Senatrice Elena Cattaneo.