fbpx Scienziati e guerra, una relazione complicata | Scienza in rete

Scienziati e guerra, una relazione complicata

Primary tabs

Read time: 9 mins

 La miccia siriana: l’impegno degli scienziati per la pace non si ferma

 Mara Magistroni

It is five minutes to midnight. Mancano 5 minuti a mezzanotte. È l’avviso dell’orologio del Bulletin of the Atomic Scientists che simboleggia la distanza dell’umanità dall’autodistruzione, dalla sua mezzanotte. Dalla loro creazione nel 1947 a oggi le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse sono state spostate 20 volte: ogni movimento testimonia un passo avanti o indietro verso un mondo senza armi di distruzione di massa. Non esiste alcun dubbio sulla direzione che prenderebbero le lancette se gli USA decidessero per l’intervento armato in Siria, con Assad che si dichiara pronto all’ennesimo conflitto mondiale. Il Cremlino si è subito schierato a favore del regime di Damasco con le parole del ministro degli esteri Sergej Lavrov : “le conseguenze sarebbero gravissime”. Impossibile non pensare alle dinamiche della guerra fredda e, soprattutto, agli arsenali nucleari delle potenze del pianeta.

Oggi i Paesi che dichiarano di possedere armi atomiche sono USA, Russia, Francia, UK, Cina, India, Pakistan e Corea del Nord. Autorevoli analisti dei servizi segreti ritengono che sia probabile che anche Israele ne sia in possesso; ufficialmente però non ha mai ammesso l’esistenza di un programma nucleare a scopo bellico. Si ritiene che l’Iran, invece, non abbia ancora prodotto un ordigno, ma non si esclude che possa svilupparlo. Per motivi strategici e di sicurezza i programmi nucleari di ogni nazione sono segreti; tuttavia secondo le stime - fornite dai rapporti di organizzazioni indipendenti non-profit come la Federation of American Scientist - esistono oltre 17000 testate, dislocate sia nei Paesi che le hanno prodotte e ne detengono il controllo sia negli stati alleati (come prevede il programma di Condivisione Nucleare della Nato).

Il rifiuto della guerra e l’eliminazione delle armi di distruzione di massa sono anche obiettivi del Pugwash, movimento che raccoglie numerose organizzazioni di scienziati (tra cui l’italiana USPID, v. Intervista a Diego Latella) che ancora oggi sentono le stesse responsabilità morali espresse da Einstein e Russell nel Manifesto del 1955. Il ruolo giocato nell’informare l’opinione pubblica sulla situazione del nucleare nel mondo e nello spingere i governi a sostenere una politica di non proliferazione è valso al Pugwash il premio Nobel per la Pace nel 1995.

È anche grazie all’impegno degli scienziati, infatti, che sono stati firmati diversi trattati per il disarmo. Il Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP) del 1968, per esempio, vincola gli stati aderenti ad attuare politiche di non proliferazione e disarmo, ribadendo il diritto all’uso pacifico della tecnologia nucleare.

Dalla fine della Guerra Fredda, denunciano gli esponenti del Pugwash, il pericolo delle armi atomiche è stato poco percepito dall’opinione pubblica e trascurato dai mass media, salvo in occasione di episodi eclatanti. Non per questo gli scienziati per la pace hanno diminuito il proprio impegno: con il documento del 29 agosto scorso, a conclusione delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il movimento Pugwash riafferma con forza di aborrire il possesso e l’utilizzo di armi chimiche, come di ogni altra arma di distruzione di massa, di confidare nell’operato dell’ Onu perché un’azione militare unilaterale (con obiettivi poco chiari) in Siria scatenerebbe un nuovo conflitto in Medio Oriente e complicherebbe la ricerca di una soluzione politica.

La stasi delle politiche di disarmo non è tuttavia da imputare solo alle situazioni di tensione internazionale. Già da tempo le potenze nucleari stentano ad aderire alle politiche di disarmo, puntando invece il dito sui rischi della proliferazione nucleare nel mondo e distogliendo l’attenzione dalle loro responsabilità. L’atteggiamento degli USA è emblematico: la mancata firma del Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty per l’abolizione dei test nucleari è indice della volontà del Paese di non abbandonare lo sviluppo di nuove armi atomiche. La promessa di non dislocare più armi in Europa fatta da Obama nel 2010 sembrava poter aprire una nuova fase verso il disarmo. Ma, come denunciato dal Guardian, è prevista una spesa di 10 miliardi di dollari per “allungare la vita” a 200 bombe B61 conservate nelle basi europee.

Intanto mancano 5 minuti a mezzanotte… per ora.

I trattati internazionali di pace

Timeline

(clicca qui per visuallizare la timeline)

 Who’ll stop the rain? *

Sulla soglia dell’attacco in Siria, la Convenzione sulle armi chimiche

Rita Occhipinti

È il 1937 quando, dopo il bombardamento di Guernica, appare per la prima volta sul Times l’espressione armi di distruzione di massa (WMD, weapon of mass distruction). Da allora la lista delle armi che rientrano nella categoria si è evoluta: dalle armi NBC (nucleari, biologiche e chimiche) alle CBRN in cui sono comprese anche le armi radiologiche. Le armi chimiche sono annoverate tra le WDM e messe al bando dal 1993 con la Convenzione sulle armi chimiche. È il primo trattato internazionale sul disarmo da armi di questo tipo, e il più rapido nella storia a raccogliere adesioni (oggi conta 188 paesi firmatari). La convenzione stabilisce un sistema di controllo internazionale che consiste in dichiarazioni e verifiche periodiche, e sanzioni stabilite dalla comunità internazionale in caso di violazione. Stati Uniti e Russia aderiscono ma sono tra i paesi che dichiarano di possedere armi chimiche o impianti per la loro produzione. Il fosforo bianco, usato da Stati Uniti, Israele e Russia, distrugge per combustione violenta i tessuti organici, eppure non compare nell’elenco delle sostanze proibite. La partita è ancora aperta, l’aria odora di acido fosforico e domande sfortunatamente attuali premono per una risposta. Punire l’uso di un’arma di distruzione di massa può giustificare il rischio che se ne usi un’altra? Morire di sarin è davvero così diverso dal morire di tritolo?

*JohnFogerty, Creedence Clearwater revival, 1970. 

ORGANISATION FOR THE PROHIBITION OF CHEMICAL WEAPONS

 

Scienziati e Guerre: breve cronistoria di una relazione complicata

Rita Occhipinti

Archimede è stato il primo. O forse è solo il primo di cui abbiamo notizia, grazie a Plutarco. Lo scienziato aiutò il tiranno di Siracusa a difendere la città dai Romani, nel 212 a.C. Nel corso della storia, in caso di guerra , la scienza ha schierato molti suoi uomini, e non tutti sullo stesso fronte. Scienziati pacifisti o collaborazionisti non sono mancati, in nessun’epoca.

Saper condurre una guerra con mezzi scientifici era un titolo preferenziale per essere protetti e finanziati dai potenti, e perfino Leonardo scrisse al Granduca di Milano d’essere esperto in fortificazioni. Aggiunse solo alla fine della lettera che sapeva “un po’ dipingere”. E Galileo scrisse al Granduca di Toscana che sapeva studiare le traiettorie delle palle di cannone. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), Faraday si rifiutò di fornire una consulenza sui gas asfissianti. La stessa richiesta non scandalizzò più tardi, durante la prima guerra mondiale, il chimico tedesco Otto Hahn, che andò sui campi di battaglia per controllare l’efficacia dei gas letali. Erano efficaci abbastanza da far guadagnare, al primo conflitto mondiale, il nome di “guerra dei chimici”. E il fisico Max Plank, nel 1914 firmava, insieme ad altri 93 scienziati e intellettuali tedeschi, l’infame “Manifesto al mondo civilizzato” in cui si sponsorizzava l’azione militare tedesca.

Ma prima della seconda guerra mondiale, la scienza non aveva il potere di determinare l’esito di un conflitto. Nella storia delle relazioni scienza-guerra, c’è una discontinuità non solo di mezzi, ma di potere. Per dirla con il filosofo Bertrand Russell:“un solo fisico nucleare valeva più di parecchie divisioni di fanteria”. Il progetto Manhattan nasce per costruire una bomba, ma con il solo scopo di deterrenza. Poi lo scenario cambia. Lo sbarco americano in Europa rivela che non esiste una bomba nazista. Scongiurata la missione originaria, molti scienziati prefigurano la destinazione del loro lavoro ed entrano in crisi: come fermare il progetto Manhattan? Ai militari americani non basta che la bomba venga esibita nel pacifico alla presenza di giornalisti. Sappiamo come andò a finire: Hiroshima e Nagasaki ne conservano la memoria. Il Manifesto Einstein-Russell del 1955 è l’espressione più alta della consapevolezza e dell’orrore che ne seguirono. Il ruolo degli scienziati nella società moderna viene lì definito: comunicare con la società, perché possa scegliere in modo consapevole. Il manifesto del ‘55, il movimento Pugwash e la Big science diventano la linfa della “Science Diplomacy”. La cooperazione scientifica è oggi uno strumento potente per la pacificazione. Ne sono testimonianza la stazione spaziale internazionale durante la guerra fredda e LHC, l’acceleratore di particelle più grande al mondo, oggi. Make science not war.

Scienziati per il disarmo

Intervista a Diego Latella, Segretario Nazionale dell’USPID 

Micaela Ranieri

La voce calda e gentile di Diego Latella ben si addice al Segretario Nazionale di un movimento pacifista, come l’Unione degli Scienziati Per Il Disarmo (USPID) ONLUS. «L’obiettivo principale dell’USPID», racconta, «è far crescere la consapevolezza del problema del disarmo, sia nella comunità scientifica che nell’opinione pubblica. Per questo forniamo informazioni e analisi sul controllo degli armamenti e sul disarmo, ma anche sull’impatto ambientale e sui costi degli armamenti».

Credete che il problema delle armi nucleari sia sentito dall’opinione pubblica?

D.L.: No, molti credono che fosse legato all’antagonismo della guerra fredda e che adesso gli armamenti non ci siano più. Purtroppo, il problema del disarmo è poco trattato anche dai media italiani sia per la situazione contingente della crisi sia per una scarsa attenzione nei confronti dell’estero, e tuttavia non c’è altro modo per sperare di cambiare le cose che parlarne e ricordare. Tutti dovrebbero essere consapevoli della gravità della questione.

Quante persone fanno parte dell’USPID e in che modo vi impegnate per il disarmo?

Siamo circa 60 studiosi e ricercatori in tutta Italia e, da scienziati, il nostro lavoro ha i meccanismi della ricerca: studi, seminari, conferenze e documenti che sintetizzano il lavoro di ricerca e le nostre posizioni, ad esempio, sull’Iran. Inoltre, dal 1985, organizziamo il Convegno Biennale Internazionale di Castiglioncello, a cui partecipano personalità della scienza mondiale, e nell’occasione cerchiamo di coinvolgere anche la cittadinanza con attività pubbliche, cineforum o mostre. E poi l’USPID non è figlia unica: c’è un’organizzazione “sorella”, l’ISODARCO, che organizza corsi di alta formazione su questioni di sicurezza internazionale e disarmo.

Perché gli scienziati hanno delle responsabilità peculiari?

Innanzitutto perché la conoscenza permette di comprendere meglio le questioni e di mettere gli ideali in pratica, studiando anche concretamente, ad esempio, come smantellare un arsenale o qual è l’impatto ambientale di un’arma nucleare. In secondo luogo, perché la scienza, per sua natura internazionale, consente di valicare i limiti politici e creare un canale di comunicazione privilegiato. Durante la guerra fredda, per esempio, le conferenze erano il luogo del dialogo tra scienziati russi e americani che spesso trovavano accordi da riferire ai rispettivi governi.

Che gli scienziati, uniti, influenzassero la politica per un mondo di pace. Questo era l’auspicio del Manifesto Einstein – Russell. Oggi è ancora attuale?

Sì, ancora oggi è di estrema attualità. Molti membri dell’USPID partecipano alle conferenze Pugwash, che rappresentano l’implementazione concreta del Manifesto. Vorremmo che il disarmo fosse un obiettivo non solo auspicabile, ma davvero realizzabile.

È vero che, come scritto nel Manifesto, le armi nucleari potrebbero causare la fine dell’intera umanità?

Assolutamente sì. Questa frase oggi è più attuale che mai, perché la quantità di arsenali nucleari presenti sulla Terra potrebbe distruggerla non una sola, ma innumerevoli volte.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Solo il 3,5% delle città europee monitorate ha una buona qualità dell’aria

Inquinamento atmosferico cittadino

Solo 13 città europee tra quelle monitorate su 370 circa rispettano il limite OMS di 5 microgrammi per metro cubo annui di PM2,5. La svedese Uppsala è la prima. Nessuna di queste è italiana. Nonostante la qualità dell'aria e le morti associate sono in continuo calo in Europa, serve fare di più.

Immagine: Uppsala, Lithography by Alexander Nay

La maggior parte delle città europee monitorate non rispetta il nuovo limite dell’OMS del 2021 di 5 microgrammi per metro cubo all’anno di concentrazione di PM2,5. L’esposizione a particolato atmosferico causa accresce il rischio di malattie cardiovascolari, respiratorie, sviluppo di tumori, effetti sul sistema nervoso, effetti sulla gravidanza.