Pensatore singolare e controverso Paul Karl Feyerabend lo è sempre stato, nella stessa miscela della sua vita di fisico, filosofo, uomo di teatro. Grazia Borrini racconta che per intervistarlo, nel 1984, usò domande provocatorie, a partire dalla prima – Com’è che sei «contro il metodo»? – ed ebbe con lui lunghe discussioni tra Berkeley e Zurigo. L’intervista, ripubblicata in questo libro, è molto efficace, e fu felice anche il rapporto tra Feyerabend e Borrini, che lo sposò nel 1989. Ma cosa intendeva Feyerabend quando scrisse Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975)? Sosteneva che la ricerca del «Giusto Comportamento Scientifico», ritenuta fondamentale sia nell’empirismo logico che nella logica della scoperta scientifica di Karl Popper – ovvero nelle due tendenze prevalenti della filosofia della scienza del Novecento – è inutile e dannosa. Essa non tiene conto della varietà inclassificabile dei comportamenti individuali e storici degli scienziati, sostenuti da espedienti retorici ed efficaci forme di convinzione dell’opinione pubblica. Di conseguenza l’unica ‘legge’ che si possa proporre, con una provocazione dadaista, per la scienza come per ogni altra forma di cultura è «anything goes», «tutto va bene». Il procedere della scienza è simile a quello dell’arte, anzi arti e scienze «si sovrappongono in molti casi», al punto che «non puoi delineare alcuna demarcazione sensata fra le due», ma mentre gli epistemologi si ostinano a cercare il Metodo della scienza, peraltro unificando le scienze e le loro storie nell’unico quadro preminente della fisica e della Big Science, nessun pretende di imporre agli artisti un metodo univoco, al più possono prevalere, in epoche storiche differenti, canoni diversi.
La radice di questa visione della cultura si ritrova in un libro che unisce l’intervista di Borrini allo scritto di Feyerabend Sul miglioramento delle scienze e delle arti, e su una possibile identità delle due (1967). Antonio Sparzani non ha soltanto il merito di aver proposto per la prima volta in italiano, con una cura attenta, lo scritto di Feyerabend, ma anche di aver indicato con la scelta del titolo l’orizzonte della sua attualità: il riconoscimento che «il cammino comune delle scienze e delle arti» dovrebbe contrastare «la pratica della formazione media e universitaria» che tende a «consolidare e articolare ulteriormente la deprecata separazione». Feyerabend critica la rivendicazione dell’autonomia della scienza, perché essa non consente di far scienza usando criteri ritenuti non scientifici – ipotesi, intuizioni, fantasie – e di giudicare il valore complessivo delle teorie scientifiche. Si tratta di due motivazioni che mantengono un’intatta rilevanza teorica e pratica. Sul piano del metodo basterebbe richiamare la frase di Einstein scelta quest’anno dal Festival della Scienza di Genova: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, mentre l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso e facendo nascere l’evoluzione”. Per l’aspetto pratico si pensi a quanto i media condizionino i giudizi sulle teorie scientifiche, alle forme di comunicazione legate ai progetti del CERN di Ginevra o al conflitto tra competenze e comunicazione esploso con il processo dell’Aquila ai sismologhi della Commissione Grandi Rischi: si tratta di pensare La scienza in una società libera, per ricordare il titolo di un altro suo libro del 1978.
Feyerabend mette in atto il suo approccio anarchico-dadaista in tre settori a prima vista molto distanti: il protestantesimo, l’empirismo e il teatro classico (il suo amore per il teatro risale al 1946 e fu arricchito dall’amicizia con Brecht). La riflessione sull’empirismo è la più interessante per la filosofia della scienza, in quanto solleva i problemi dell’empirismo (titolo di un suo saggio del 1965). La «regola di fede empirica», come la regola di fede protestante, è appunto una regola di fede, non una pregiudiziale scientifica. Ed è la visuale critica e aperta lo scopo principale della riflessione di Feyerabend: «Scopo primario è far sì che tutti gli uomini abbiano una visuale aperta, e che tutti abbiano un’opportunità, materiale e spirituale, di sviluppare le proprie idee in modo tale da mantenere quell’elasticità, quell’inventiva e quella capacità fantastica che rendono davvero deliziosa la compagnia di giovani intelligenti (e per lo specialista perfino imbarazzante)». Torna in definitiva il problema, oggi cruciale, della formazione dei giovani, da indirizzare verso una visione unitaria della cultura umana, insieme scientifica e artistica, e verso l’esercizio di una mente aperta e critica.