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Alcune note sul progetto Gelmini di riforma dell'università

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Per capire da un lato lo spirito e dall’altro i limiti dell’attuale progetto governativo di riforma dell’Università (ddl Gelmini), è necessario superare un vizio storico del dibattito politico e accademico italiano: quello del provincialismo. Negli ultimi 30 anni, tutti i sistemi universitari dell’Europa continentale si sono trovati esposti a problemi simili e a sfide largamente comuni, a cui governi di qualunque colore hanno fornito risposte analoghe, anche se con modalità e con gradi di efficacia differenti. Se non si ha presente questo quadro, soluzioni quali lo spostamento di funzioni da organi di rappresentanza collegiale come il senato accademico a organi in cui sono rappresentati interessi esterni, o il rafforzamento del potere dei rettori, o ancora l’insistenza sulla valorizzazione del merito sia nel reclutamento sia nel valutare le performance degli atenei, possono sembrare una bizzarria istituzionale, una prevaricazione di poteri forti, una rinuncia all’idea stessa di università.

I governi italiani hanno seguito in ritardo, con notevoli contraddizioni e soprattutto in modo non organico i processi che hanno caratterizzato tutta l’Europa continentale. Un esempio eclatante è quello dell’autonomia, concessa alle università già dal 1990 ma non accompagnata – caso forse unico in Europa – da adeguati meccanismi di valutazione. L’autonomia senza valutazione ha prodotto notevoli guasti, su cui si sono scatenati la polemica e lo scandalismo nutriti dai e attraverso i media. E, in qualche misura, si può dire che sono proprio questi guasti, insieme ai processi avvenuti in tutta Europa, a ispirare la riforma proposta dal governo.

Nelle sue parti migliori e più coraggiose, il ddl mostra chiaramente il proposito di inserirsi nel solco dei mutamenti avvenuti nel resto d’Europa e di colmare i ritardi nella modernizzazione dell’università italiana. L’apertura alla domanda sociale, l’enfasi sull’efficienza delle strutture di governo e sul superamento del dualismo sia a livello centrale sia a quello di base, gli obiettivi di valorizzazione del merito, l’accentuazione del controllo ex-post e della valutazione sulle prestazioni delle università, sono scelte pienamente congruenti con le tendenze che interessano tutti i sistemi universitari europei. Si tratta di obiettivi certamente condivisibili, rispetto ai quali occorre solo discutere la congruità degli strumenti indicati, evidenziando alcuni aspetti problematici.

Al tempo stesso, i guasti provocati negli ultimi anni da un’autonomia non affiancata dalla valutazione – guasti che peraltro sono stati indebitamente attribuiti a tutto il sistema e talvolta appaiono francamente esagerati se visti in un’ottica comparata – sembrano aver lasciato il segno. Si traducono in una percepibile mancanza di fiducia del governo nella capacità degli atenei di gestire la propria autonomia in modo responsabile, e sembrano talvolta lasciar affiorare un intento punitivo verso il mondo universitario.

Questo è l’aspetto meno condivisibile di una riforma che dovrebbe basarsi su un patto esplicito e trasparente di modernizzazione e che si traduce invece in soluzioni istituzionali non sempre congruenti con gli obiettivi di fondo a cui si ispira. Ad esempio, l’equilibrio di poteri fra senato accademico e consiglio di amministrazione (CdA) appare troppo sbilanciato a favore del secondo. Al primo – costituito interamente su base elettiva e quindi senza la presenza di chi svolge ruoli intermedi di gestione e di aggregazione del consenso, come erano i presidi e come saranno i direttori di dipartimento – compete solo “formulare proposte e pareri in materia di didattica e di ricerca”. Mentre al secondo – composto per il 40% da esterni all’ateneo e presieduto da un componente che può essere diverso dal Rettore – vengono attribuite non soltanto, come ovvio, competenze gestionali e funzioni di indirizzo, ma anche poteri in materia di organizzazione dell’offerta didattica, quali la “competenza a deliberare l’attivazione o la soppressione di corsi e sedi”. Da notare che ai componenti del CdA vengono richieste una “comprovata competenza in campo gestionale e un’esperienza professionale di alto livello”, ma non una conoscenza approfondita, e possibilmente maturata dall’interno, dell’ambiente universitario, dei modi in cui si organizza l’offerta formativa e si conduce la ricerca.

Questo evidente squilibrio nei poteri dei due organi di governo centrali e nella loro composizione è stato oggetto di osservazioni critiche da parte della CRUI, che in un recente documento propone un rafforzamento delle competenze del Senato. Probabilmente sarebbe opportuna una correzione assai più radicale, che assegni al Rettore e al Senato Aaccademico la responsabilità della formulazione dei piani scientifici e didattici e quindi l’allocazione delle risorse ai dipartimenti, e che affidi al CdA funzioni non di governo ma di verifica, controllo e sanzione.

Si tratterebbe di una sostanziale ridefinizione delle competenze fra comunità accademica e organi di rappresentanza degli stakeholders, che a parere di chi scrive meriterebbe di essere presa in seria considerazione. Non è qui in discussione l’esigenza che l’università si apra alla domanda sociale e che dunque nei suoi organismi di governo abbiano un peso i rappresentanti di questa domanda, per assicurare una gestione efficiente e controbilanciare il peso delle comunità accademiche che possono essere preda di logiche corporative e auto-referenziali. Ciò su cui si dovrebbe riflettere è invece la natura molto particolare dei beni pubblici “prodotti” dalle università: capitale umano a elevata qualificazione e risultati della ricerca scientifica. Si tratta di beni molto particolari perché le loro caratteristiche non possono essere determinate dalla burocrazia né dal mercato, ma solo dai loro “produttori”. Quali siano le direzioni più promettenti della ricerca, da chi e in quali modi sia più probabile attendersi risultati, quali conoscenze sia più utile trasmettere nel processo formativo e con quali metodi: queste sono tutte scelte sulle quali sono competenti solo le comunità scientifiche di riferimento, alle quali gli organi di governo dell’università non possono che rivolgersi. Questi ultimi incontrano dunque limiti strutturali all’efficacia della loro azione se non coinvolgono le comunità accademiche nelle decisioni.

Si tratta di un punto di equilibrio assai delicato, su cui la riflessione è aperta anche nei paesi anglosassoni. Diversi protagonisti del mondo universitario inglese lamentano ad esempio che difficilmente i “membri laici” entrano nel merito delle questioni più propriamente accademiche come la didattica o la ricerca, per mancanza di competenze o di interesse. Eppure, per diventare componenti del Board di una università inglese solitamente non bastano competenze in campo gestionale ed esperienze professionali, come richiesto dal ddl del governo italiano. Molto spesso tali componenti sono “alumni”, cioè ex-studenti di quell’università e dunque ne conoscono almeno in parte il funzionamento dall’interno: ma ciò sembra in molti casi non bastare. E’ probabile che su questo tema si sviluppi una riflessione più approfondita durante il dibattito parlamentare sul ddl e che possano essere trovati correttivi e punti di equilibrio più adeguati alla situazione italiana.

Per rimanere al tema della governance, un secondo aspetto problematico del ddl Gelmini risiede nello scarso approfondimento del problema del riassetto delle strutture di base. L’attuale quadro organizzativo delle università italiane (ex DPR 382/80) è basato su una forte differenziazione funzionale tra le strutture di base (dipartimenti e facoltà) e su una scarsa integrazione fra loro e con il centro dell’ateneo. In realtà, in molti atenei si è sedimentata la prassi che ha visto superare la dicotomia organizzativa tra ricerca e didattica, con il diretto coinvolgimento dei dipartimenti nell’organizzazione e nella gestione di attività didattiche istituzionali. Ma questo processo non ha intaccato le difficoltà di integrazione sia a livello orizzontale (tra facoltà e dipartimenti) sia a livello verticale (tra il governo centrale degli atenei e le strutture di base). Il testo del ddl prospetta un totale riassetto delle strutture di base e delle loro relazioni, anche se, correttamente, non propone un format omogeneo ed obbligatorio. Saranno quindi le università che, nella loro autonomia statutaria, decideranno come organizzare dipartimenti, facoltà o schools e, soprattutto, quali relazioni disegnare tra esse e quale ruolo dare alle strutture di base nei processi decisionali di ateneo. Proprio questo rinvio all’autonomia statutaria degli atenei, tuttavia, richiede uno sforzo ulteriore di elaborazione di linee guida su questi problemi.

L’esperienza europea, contrariamente a quanto spesso si assume, non offre indicazioni univoche a favore di una ricomposizione delle funzioni di ricerca e didattiche nel dipartimento. In Inghilterra, nel corso dell’ultimo decennio, in molte università la dinamica di riorganizzazione interna ha notevolmente modificato gli equilibri storicamente consolidati: sono stati operati profondi accorpamenti tra le strutture di base, e le Schools sono state caricate di maggiori oneri organizzativi, gestionali e di indirizzo politico. In Olanda, con la riforma del 1997 si è cominciato ad attuare un modello uniforme che prevede un’unica struttura stabile, la facoltà, composta poi, flessibilmente, da diverse unità e centri di ricerca che ad essa fanno capo. Le università francesi si caratterizzano per una struttura di base (l’UFR, unité de formation et de recherche) che può essere paragonabile, nell’esperienza italiana, alle facoltà. La Germania ha mantenuto la struttura organizzativa di tipo confederativo per facoltà (che possono associare, a seconda dei casi, istituti oppure dipartimenti che, comunque, sono tutti basati sull’istituto della cattedra di tradizionale memoria ). Vi sono però stati tentativi di verticalizzazione, e in molti atenei il centro decisionale si è spostato dai consigli di facoltà a consigli ristretti composti, oltre che da una rappresentanza di studenti e docenti, dai direttori degli istituti o dei dipartimenti.

Si tratta di un tema sicuramente da approfondire, ben al di là di quanto disposto dal ddl, che si limita a indicare i dipartimenti come le vere strutture operative che fanno la ricerca e la didattica. Come si è detto, infatti, questa semplificazione non corrisponde ai processi in atto nel resto d’Europa e non risponde in modo adeguato alla tensione crescente fra logica di aggregazione prevalentemente disciplinare dei dipartimenti e logica di risposta multi-disciplinare ai problemi emergenti nell’economia e nella società, che percorsi formativi student-centred e attenti alla domanda dovrebbero avere.

Un terzo aspetto problematico del ddl Gelmini riguarda quella che si potrebbe definire una “concezione monistica” o indifferenziata dell’università. Il testo del governo non tiene conto della – e tantomeno cerca di promuove la – necessaria differenziazione interna agli atenei, oltre che al sistema universitario nel suo complesso. Particolarmente in assenza di un canale vocational nel sistema di istruzione superiore, gli atenei italiani sono chiamati a svolgere una pluralità di funzioni (missions): produzione di conoscenza mediante la ricerca scientifica, formazione di capitale umano a livello variabile di specializzazione (formazione di base, specialistica, dottorale), riqualificazione del capitale umano esistente (formazione permanente), trasferimento dei risultati della ricerca al sistema economico, contributo allo sviluppo territoriale, contributo agli scambi internazionali di capitale umano e di conoscenze. Ma il mix fra queste funzioni non può essere lo stesso in tutte le articolazioni e in tutte le macro-aree disciplinari dell’ateneo, e nessuna area (o struttura che la rappresenta) può essere eccellente in tutte queste funzioni. A maggior ragione questo vale per le diverse università di un sistema territoriale.

Per ciascuna di queste funzioni, merito e qualità vanno diversamente definite, valutate e premiate. Persino la migliore università al mondo secondo tutti i ranking, quella di Harvard, assegna funzioni differenti alle sue strutture. Per fare un solo esempio, gli obiettivi del Department of Government nella Faculty of Arts & Sciences sono diversi da quelli della Kennedy School of Government, e quindi merito e qualità vi sono diversamente definiti e valutati. Occorre dunque un progetto strategico che stabilisca per ciascuna articolazione dell’ateneo e per ciascuna area un mix adeguato fra le diverse funzioni che l’università svolge, e occorre che la valutazione sia compiuta rispetto al raggiungimento degli obiettivi stabiliti.

Infine, vi è un ultimo aspetto problematico della riforma che difficilmente sarà superato dal dibattito parlamentare. Si tratta del tentativo di introdurre nel sistema universitario italiano elementi di differenziazione basati sulla qualità e sul merito, non già mediante incentivi a sostegno di progetti coerenti con una tale strategia come sarebbe auspicabile, ma mediante una diversa allocazione delle risorse già esistenti, e anzi in tendenziale diminuzione. Ma i meccanismi di valorizzazione del merito basati sulle punizioni, sulle sottrazioni anziché sugli incentivi aggiuntivi, come hanno fatto finora i governi italiani, funzionano ovunque male. Basti ricordare come il governo tedesco abbia mobilitato ingenti risorse aggiuntive per avviare una rigorosa selezione delle migliori università tedesche; e come attualmente stia per essere lanciato il secondo round, in cui nuove risorse andranno a premiare le università che presentino i progetti migliori. Così pure il governo francese, che con la loi Pécresse dell’agosto 2007 prefigura una nuova articolazione interna del sistema universitario, prevede un notevole investimento finanziario (5 miliardi di euro in 5 anni) per questo scopo. In queste strategie traspare la piena consapevolezza che cambiamenti di questa portata devono essere sostenuti da misure di incentivazione (premi ai migliori progetti, come in Germania, o a comportamenti considerati virtuosi, come in Francia) e non da interventi punitivi. Altrimenti si dà spazio alla difesa di posizioni corporative o a strategie di trasformazioni “cosmetiche”, nelle quali si rispetta la forma ma non la sostanza del cambiamento necessario per modernizzare l’università italiana.


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