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Sinisgalli, ovvero la matematica poetica

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Come si chiama la Persia
nella lingua di Sirio?
E l'Arabia?
Parole, parole: i nomi!
Basta che spicchino il volo
e dalle ali fanno cadere i millenni. 

Prorompe dalle pagine di questo libretto, il Furor Mathematicus di Leonardo Sinisgalli, lo slancio di un pensiero laterale, l'empito di uno scarto creativo che sorprende e costruisce imprevedibili sentieri da percorrere con l'anatrare goffo del genio oppure con il passo elastico dell'idiota, mescolandosi la matematica (ma è una matematica narrata, come si narrerebbe una statua o una donna) e la storia della matematica con un aìre poetico, ricercato di aggettivi e di sostantivi curiosi, nuovi, espressivi, talentuosi. Ne deriva un senso di spaesamento e di estraneità familiare che si misura nelle note che sanno di un'autobiografia più esistenziale che mentale: "non ci sentiamo mai così vivi come in questi giorni che acqua e vento restringono intorno al nostro corpo, come intorno a una sepoltura": durante un inverno, stagione "minerale" e incorruttibile come tutte le cose fredde: come la matematica, dunque, perfette imitazioni di un vivere e morire inimitabili, in cui la negazione stessa della vita ne consente il prolungamento indefinito. Ed è forse per questo che gli uomini preferirono le macchine e la matematica ai loro compagni, anche se non bisogna farsi eccessive illusioni, perché dalla matematica, come «da certi inverni si esce irreparabilmente invecchiati, forse a causa di questo digiuno a cui teniamo costretti gli organi più vivi... La nostra solitudine si restringe.»

Così, nel volger della stagione verso la sua inevitabile uscita dal  freddo, ci accostiamo al fuoco, fuggendo la precisione mortifera predicata da Laplace. Ci rendiamo conto che il suo sogno di un universo perfetto si è infranto per il battito d'ali di una farfalla. Non più stregati dal formalismo, dalla contemplazione platonica di questi oggetti della mente, sottratti al fascino malioso e severo delle matematiche, ci siamo resi conto che non "possono avere senso tanti insulti alla Bellezza a difesa della Verità". Sinisgalli vorrebbe

«mettere in guardia, me stesso e i miei amici, dai troppi disperati tabù, dai Mostri che l'inquietudine nostra vorrebbe sostituire agli Idoli, agli Dèi... Certo  è che noi sentiamo il bisogno di espressioni “volgari”... Non vogliamo paradisi artificiali ma l'inferno qui in terra.»

Un progressivo allontanamento dalle regioni astratte del pensiero puro, scarso d'ossigeno, pericoloso per la vita, e un cauto avvicinamento a discipline meno rarefatte: l'ingegneria, l'architettura, e di qui alla Casa, che simboleggia la vita:

«Ma una Casa, signor mio, non è una fortezza, o una cabina, è un nido, fatto di piume, di fuscelli, di fango. La Casa deve sapere di fumo, di capelli, di cane... V'immaginate una casa senza gatti? Lo so, voi avete fatto tutto per abolirli. V'immaginate una casa senza mosche?»

E' il trapasso dall'utopia della vita esatta, della ricostruzione razionale del mondo, al riconoscimento che disordine e incertezza e approssimazione sono ingredienti ineliminabili, anzi, vitali, del mondo. E di qui si giunge a quella straordinaria pagina sulle case vuote:

«un soffio tetro, un grido lontano, che non tanto deriva dallo stato di abbandono di quasi tutti gli edifici, e da quell'aria defunta che spira tra le camere vuote e i cortili, ma da una loro strana facoltà acustica, da un certo odore di cava che sprigionano i sassi e l'intonaco, dai molteplici imbuti d'ombra, da un che di gelido, di onirico...»

Pagina che, per fratellanza, ardisco accostare a una mia:

«Potrebbe descrivere le case di Pest dal punto di vista di qualcuno che stia per fare un trasloco in una giornata d'inverno?
Le case sono umide e oscure, gli appartamenti raccolti intorno a uno o più cortili pieni di ringhiere. Le pareti degli appartamenti sono leggermente sghembe e i pavimenti inclinati, i soffitti sono spesso chiazzati d'umidità. I mobili sono poveri e debbono essere inchiodati ai muri per evitare che cadano. Stando sdraiati sul letto e guardando la vecchia tappezzeria scolorita e consunta, si prova una sensazione di tristezza e di lontananza, l'imminente trasloco assume proporzioni grandiose e un carattere definitivo, come se oltre le nubi grigie e uniformi che coprono il cielo si scorgesse il volto spettrale del destino.»
(La gerarchia di Ackermann, cap. VI)

Così, insomma, queste mie note disordinate e confuse, ma partecipi e commosse, su un libro che si sarebbe potuto intitolare Furor poeticus oppure Poesia mathematica o Mathematica poetica, senza nulla togliere, aggiungere o cambiare: e mi accomiato da Leonardo Sinisgalli in punta di piedi, uscendo da quella stanza in cui «aspettavo in quegli anni la sera con trepidazone e nessuno ha saputo mai perché io fossi tanto felice di andare a dormire così di buon'ora.»


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