Negli
ultimi anni ho avuto la possibilità di osservare da vicino il fare scienza in
un laboratorio leader in Italia (e sul piano internazionale) che opera nel
campo della biologia cellulare e molecolare, con particolare riferimento a una
malattia neurodegenerativa. Lo stesso laboratorio da anni porta avanti, anche
in collaborazione con altri laboratori europei e americani, progetti di ricerca
legati all’uso delle staminali per la produzione dei neuroni che si ammalano
nella malattia. Mi sono occupata di questi temi come sociologa della scienza e
dell’apprendimento, indagando come si produce e condivide la conoscenza
scientifica nel lavoro quotidiano di un laboratorio.
Gli studi sociali sulla
scienza e la tecnologia indagano come si producono, consolidano, stabilizzano e
standardizzano le conoscenze scientifiche, come questi processi richiedano
prove e verifiche estenuanti, come la scienza procede per controversie, come il
dibattito sulle diverse posizioni viene condotto tramite la competizione che
passa anche nella lotta per il primato nel campo delle pubblicazioni sulle
principali riviste scientifiche internazionali. Fare scienza è una faticosa e
inesauribile pratica collettiva volta allo sviluppo della conoscenza, che dal
laboratorio deve poi transitare nel tempo -
e dopo prove, verifiche e lunghe sperimentazioni - fino alle cure e ai
malati. La distanza tra il banco e le cure negli ultimi anni si è di molto
accorciata, oggi si parla di ricerca traslazionale che ha tra i suoi obiettivi la
più rapida trasformazione dei risultati ottenuti dalla ricerca di base in
applicazioni cliniche al fine di migliorare metodi di prevenzione, diagnosi e
terapia. Tale ricerca rafforza e consolida i rapporti tra laboratori, pre-clinica
e clinica e richiede competenze ancora più accurate e specializzate.
Altra cosa però è certa pratica sperimentale e certo dibattito pubblico che si appropriano e traducono, anche attraverso i media, esiti sperimentali discutibili in affrettati scenari di cura. Cosa accade quando si scivola dalla necessaria standardizzazione della conoscenza scientifica alla mediatizzazione di risultati e sperimentazioni che suscitano forti perplessità nella comunità scientifica internazionale? Cosa accade quando di risultati scientifici incerti, non consolidati, non riconosciuti e fortemente messi in questione sul piano scientifico si appropriano solo i media, la politica e la cultura popolare? Molti i casi di questo tipo nella storia della scienza e credo che anche il caso Stamina ne sia un esempio: risultati ritenuti incerti, affatto verificati sul piano sperimentale e delle pubblicazioni internazionali, poco trasparenti e non condivisi nella comunità scientifica sono forzatamente portati in uso come “cure”, supportate peraltro anche da decisioni e risorse pubbliche. Di queste cosiddette “cure” si beneficerebbero piccoli pazienti con malattie gravi ritenute non curabili. Ma che il beneficio esista, o che esistano anche i presupposti di ciò, non vi è evidenza e la presunta rapida trasformazione clinica di questi eventuali risultati si trasforma piuttosto in una questione sociale. Questa scienza fatta in casa non fa alcuna fatica a divenire un fenomeno popolare in cui a rischiare sono le famiglie dei malati (che proiettano in scenari di cura non sicuri speranze e disperati desideri risolutivi), i tanti laboratori che stanno da anni cercando strade teoriche e pratiche per studiare l’uso delle staminali nelle malattie ancor prima che nelle terapie, le autorità pubbliche e la pubblica opinione che usano risultati scientifici non stabili e li traducono – senza le necessarie verifiche - in troppo facili promesse di guarigione. La scienza, nella strada dal laboratorio al letto del paziente, deve fare tanti articolati passi che spesso non possono trasformare in tempi brevi le angosciose attese dei pazienti in risposte risolutive. Il cosiddetto “caso Stamina” è analizzabile come un’azione mediatica che mostra bene i limiti del rapporto tra Scienza e Società propri del nostro paese, il quale troppo spesso lascia spazio solo ad urlati clamori popolari.