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Stabulari e laboratori alla luce del sole

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Oramai non si può più tornare indietro. Qualcuno può pensare che fossero bei tempi quelli in cui gli scienziati, chiusi nella loro proverbiale torre d’avorio, portavano avanti il loro lavoro senza doversi confrontare con la società, senza dover spiegare al grande pubblico le implicazioni delle loro scoperte, senza dover dipendere da un consenso più ampio per reperire le risorse e i fondi necessari per la ricerca. Che piaccia o no, oggi non è più così. Alcuni comuni cittadini arrivano addirittura a essere coinvolti in prima persona nella cosiddetta citizen science, ma i più considerano comunque sempre meno accettabile subire le scelte, ma anche le innovazioni, che piovono dall’alto, senza conoscerne natura e motivazioni.

Anche nell’ambiente della scienza però si sta facendo strada l’idea che la comunicazione sincera al pubblico non debba essere vista come una spiacevole necessità, ma parte integrante del proprio lavoro. E che la trasparenza, invocata all’interno del mondo della ricerca soprattutto in termini di open access al lavoro altrui, possa produrre buoni frutti anche quando si allarga all’esterno del campo ristretto degli addetti ai lavori.

Lo ha dimostrato l’iniziativa britannica Understanding Animal Research che, dalla fine del 2008, si propone di informare attivamente e in maniera chiara e aperta il pubblico su ciò che realmente si fa nei laboratori con gli animali. Ponendosi come punto di incontro tra il pubblico, i media, la politica, l’istruzione e la comunità scientifica, fornisce dati e informazioni corrette e precise, con importanti risultati: per esempio ha ottenuto che più di un centinaio di istituzioni, charities e fondazioni legate alla ricerca firmassero il Concordato sulla trasparenza nella sperimentazione animale, un documento che le impegna ad aiutare la società a conoscere e capire l’importanza e la necessità di queste procedure. Senza nascondere nulla, anzi favorendo le visite di giornalisti e studenti a stabulari e a laboratori, così come gli interventi dei ricercatori nelle scuole. Insieme ad altre iniziative, le si riconosce il merito di aver contribuito a spegnere il clima di violenza da parte degli attivisti animalisti che, a partire dal 2004, aveva messo sotto scacco molte strutture di ricerca del Regno Unito. “La comunicazione aiuta il pubblico a capire e questa migliore comprensione mette al sicuro l’ambiente in cui si fa ricerca” ha spiegato Wendy Jarrett, a capo dell’iniziativa.

Nel resto del mondo c’è ancora molto da fare. Due neuroscienziati statunitensi, Dario Ringach, docente di neurobiologia e psicologia all’Università di California a Los Angeles e Allyson Bennet, professore associato di psicologia all’Università del Wisconsin, hanno quindi recentemente fatto un appello agli scienziati dalle pagine di Neuron, una rivista del gruppo Cell: “Gli attivisti che si oppongono all'uso degli animali nella ricerca scientifica dominano sempre più il discorso pubblico ed esercitano pressioni sui governi per limitarlo fortemente. I sondaggi mostrano che il sostegno pubblico alla ricerca con gli animali è in declino. Gli scienziati devono rispondere impegnandosi attivamente con il pubblico e i politici, per spiegare le loro ricerche e la loro importanza, affrontando obiezioni morali e dettate dalla preoccupazione”.

La questione si inserisce in un contesto più ampio, in cui teorie pseudoscientifiche e complottistiche trovano sempre più spazio nella società, dalla medicina alla politica. È anche vero tuttavia che la gente è sempre affascinata dalle conquiste degli scienziati, quando queste per esempio promettono di migliorare la cura di una malattia. “Quante volte, nel riferire questi risultati, si sottolinea il lavoro che è stato fatto nell’ambito della ricerca di base per arrivare all’obiettivo clinico, quante volte si rappresentano anche visivamente gli animali, invece di pipette o provette, quante volte si sottolinea l’uso di primati non umani che è stato indispensabile prima di passare alla sperimentazione sull’uomo?” si chiedono i due ricercatori, per cui tutte queste sono occasioni perse per spiegare al pubblico l’importanza della sperimentazione animale. “A chi tocca fornire queste informazioni di base e questo contesto più ampio? Gli scienziati stessi sono nella posizione migliore per assicurarsi che questi aspetti non si perdano nella comunicazione al grande pubblico”.

A volte però è la politica a mettere un bavaglio agli scienziati. Nelle ore immediatamente successive al giuramento di Donald Trump, per esempio, hanno destato preoccupazione alcuni episodi che sembrano minacciare la trasparenza necessaria tra scienziati e pubblico: dopo aver fatto cancellare ogni riferimento al riscaldamento globale dai siti governativi, il governo appena insediato avrebbe proibito allo staff dell’Environmental Protection Agency, secondo quanto ha riportato l’Associated press, ogni sorta di comunicazione pubblica, dalla produzione di comunicati stampa alle interviste con i giornalisti. Perfino gli account ufficiali dell’agenzia sui social network sarebbero stati messi a tacere.

Ai primi di febbraio, il giro di vite avrebbe raggiunto anche il Dipartimento dell’agricoltura, che ha tolto la possibilità di accedere liberamente a decine di migliaia di rapporti frutto delle periodiche visite di controllo effettuate dai funzionari governativi ovunque siano tenuti animali: non solo stabulari per la ricerca, ma anche aziende, zoo, circhi, ditte per il trasporto del bestiame. Su 7.813 strutture tenute sott’occhio, circa 1.200 riguardano laboratori che fanno uso di animali come cani e scimpanzé, dal momento che la norma non riguarda i roditori, cioè la stragrande maggioranza degli animali usati per la ricerca.

Da questa banca dati furono tratte le informazioni utilizzate dal Boston Globe per scatenare nel 2012 un caso mediatico sul trattamento dei primati nel New England Primate Research Center dell’Università di Harvard, che secondo gli animalisti portò alla sua chiusura. Sempre qui Nature e New Yorker trovarono le prove per denunciare il maltrattamento delle capre in un’azienda californiana di biotecnologie.

Un gesto di cortesia nei confronti della scienza, quindi, impedire l’accesso a questi dati? Non è detto. Ogni atto che dia l’impressione di voler nascondere qualcosa agisce come un boomerang, rivoltandosi contro chi dovrebbe beneficiarne. E i cittadini hanno diritto di sapere come vengono tenuti gli animali, soprattutto nei laboratori di ricerca finanziati anche con risorse pubbliche. Capire che ci sono norme rigidissime a loro tutela e verificare che siano rispettate.

Il black-out dell’informazione non piace quindi neanche a molti scienziati, che considerano la trasparenza un elemento indispensabile per guadagnarsi e mantenere la fiducia della società: “Per me è un elemento indispensabile in ogni fase della ricerca” commenta Guido Silvestri, uno dei massimi esperti al mondo di AIDS, che studia all’Emory Vaccine center di Atlanta su modelli animali di primati non umani, infettati con il virus dell’immunodeficienza delle scimmie (SIV). “Occorre trasparenza nelle modalità di finanziamento, nella comunicazione delle scoperte, nell’accessibilità dei lavori, ma anche sui metodi con cui si ottengono i risultati, compresi quelli per cui occorre utilizzare gli animali”.

Solo così si potrà contrastare la disinformazione che in questo, così come in molti altri campi della scienza, e non solo, confonde le persone tra “post verità” e “alternative facts”.

Pubblicato anche su Research4Life


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