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Se la somma non fa il totale

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La scienza ha sempre cercato di individuare leggi universali che rendessero trattabili i fenomeni naturali e sociali, riducendone la complessità. Ma talvolta questo approccio può portare alla perdita delle specificità dei fenomeni stessi che si intendono descrivere. Di questo tema si dibatterà durante il convegno “Se la somma non fa il totale – Riduzionismo e Scienza”, in programma giovedì 16 maggio presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, organizzato dal MaCSIS, Master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione Sostenibile (www.macsis.unimib.it), in collaborazione con Scienza in rete.
Il tema si concentrerà su quattro aree disciplinari, in cui il riduzionismo trova applicazione: educazione, immunologia, linguaggio e informatica.
Qui sotto riportiamo un estratto dell’intervento che terrà il relatore dell’area “educazione” Salvatore Soresi, già professore del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell’Università degli Studi di Padova


I problemi dell’educazione, dell’inclusione, della scelta e della progettazione professionale necessitano di nuovi modelli interpretativi e del coraggio di abbandonare, considerando queste complessità, visioni obsolete e abitudini prettamente semplicistiche, riduzioniste ed essenzialmente lineari, che si sono già dimostrate impotenti nei confronti della necessità di promuovere il bene comune.

Nel corso dell’intervento, ricorderò che il bubbone della necessità e opportunità di proporre buone relazioni tra domanda e offerta tramite semplicistiche e lineari misurazioni e valutazioni è ancora massicciamente presente nei contesti formativi, nelle cosiddette esperienze di alternanza scuola-lavoro, e in pressoché tutti quei servizi che ritengono ancora di poter aiutare le persone, impacchettandole in bilanci di competenze. A mio avviso, è ciò che di fatto stanno suggerendo molti servizi universitari di orientamento, - anche sulla scia delle sollecitazioni di Alma Laurea -, è ciò che sta continuando a proporre (o imporre?) l’INVALSI nelle nostre scuole ed è ciò che stanno praticando anche i più acclamati servizi per l’impiego in Italia e in Europa.

(…) Questa centralità e neutralità dell’orientamento è stata di fatto ossequiata e riconfermata anche da altri e più recenti modelli di orientamento, da quelli sociocognitivi a quelli enfatizzanti il ruolo centrale variamente attribuito, di volta in volta, ad altri costrutti come quelli dell’autostima, delle motivazioni, della resilienza, degli interessi e di altri psychological capital.

(…) Dobbiamo ammettere che da tempo sono presenti, in letteratura, gli inviti a denunciare la debolezza scientifica di molte misurazioni psicologiche e a considerare come mistificanti da un punto di vista etico-sociale quelle operazioni di valutazione e classificazione delle persone che desiderano inserirsi nel mondo della formazione e del lavoro, accettando di farsi profilizzare in termini di idoneità, di impiegabilità, di affidabilità e di adattabilità.

Nel far questo, pur avvalendosi di sofisticate e innovative tecnologie informatiche e comunicative, si continua a processare e a porre in relazione, con operazioni essenzialmente lineari, alcune caratteristiche delle persone (di coloro che domandano, che chiedono, che pregano… di essere scelti o di essere almeno messi alla prova) e altre, poco numerose e poco misurate generalmente, che riguardano per lo più le aspettative di prestazione ma quasi mai la qualità e la decenza dei posti di lavoro, di studio e formazione che vengono offerte.

(…) Farò riferimento ad alcune sperimentazioni in materia di orientamento, di career education che si ispirano direttamente alle teorie della complessità, alle cosiddette teorie del caos vocazionale, e alla necessità di valorizzare le relazioni, di considerare con attenzione le caratteriste dei contesti di provenienza delle persone, le interdipendenze, e anche ciò che deriva da sconfinamenti e confusioni.

È a mio avviso necessario che l’orientamento e la progettazione professionale pensino in modo meno parsimonioso e si liberino dalla trappola del riduzionismo e della linearità, in quanto mi piacerebbe che venisse loro riconosciuto un accettabile spessore scientifico e una significativa rilevanza sociale.

Potranno aspirare a tutto questo, probabilmente, se riusciranno a dimostrare che si stanno dedicando molto di più e con sensibilità anche di tipo educativo e sociale a ciò che è contessuto, agli aspetti contestuali, a ciò che, anche a proposito dell’apprendimento e della progettazione professionale, non può essere ridotto a misure semplicisticamente individuali e private, in quando frutto di connessioni e reciprocità.

Così l’orientamento, non lasciandosi più sedurre dalle tentazioni riduzioniste, potrà stimolare anche l’apprendimento di come si possano utilizzare e cogliere al balzo occasioni, eventi fortuiti, opportunità non previste e non programmate, di come possa essere possibile fronteggiare e gestire, magari assieme ad altri, sfide impegnative e quelle minacce e quei rischi che si associano spesso all’imprevedibile, all’incerto, al possibile, ma anche allo sviluppo equo e sostenibile e al cambiamento.

Gli orientatori, come gli insegnanti, dovrebbero avere il coraggio di utilizzare la propria conoscenza e i loro strumenti del mestiere per stimolare aperture, a pensare maggiormente e più spesso agli altri, individuando e accettando responsabilità, condivisioni e impegni da intraprendere per il futuro.

 


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