Promessa di felicità energetica del nuovo millennio, gli shale gas sono l'esempio perfetto dell’insopprimibile conflitto tra tecnofili e tecnofobi. E a ragione. Gli shale gas provengono infatti dallo sfruttamento di giacimenti “shale”, rocce argillose a bassissima permeabilità da cui fino a poco tempo fa era di fatto impossibile estrarre idrocarburi. Nuove tecnologie (il fracking) hanno sì aperto il “vaso di pandora” ma a prezzo di un’alta invasività: rischio di innesco di terremoti, inquinamento delle falde acquifere, emissione in atmosfera di gas inquinanti. Quel che preoccupa l'opinione pubblica e la comunità scientifica è dunque la scala di impatto della “fratturazione idraulica” della roccia. È vero che questa tecnica potrebbe indurre scosse sismiche di alta intensità? È vero che queste speciali trivellazioni possono mettere in collegamento la zona produttiva con le falde acquifere circostanti esponendole a inquinamento di metalli pesanti e particelle radioattive usate come traccianti?
Fracking "brutto, sporco e cattivo"
A rincarare (se ce ne fosse bisogno) il diffuso tasso di allarmismo che sistematicamente nutre ogni tic antisviluppista ci si mettono le compagnie di estrazione. Negli Usa, patria di questa nuova fonte di energia (dal 2008 al 2013 la produzione di gas da shale è più che quintuplicata, e oggi rappresenta circa il 25% del totale di idrocarburi estratti negli States), in quindici anni di attività ci sono state solo una decina di pubblicazioni scientifiche sugli impatti di estrazione, e per giunta con dati contraddittori. Una manna dal cielo per chiunque, a torto o a ragione, non ama andare troppo per il sottile se c'è da distinguere tra “industria” e inevitabili quanto dolosi danni per popolazioni e pianeta, come puntualmente denunciato dalla coscienza critica hollywoodiana in Promised Land, dove Gus Vas Sant affida a Matt Damon il compito di squadernare il volto del fracking “brutto, sporco e cattivo”.
Europa in ordine sparso
Se insomma è certo che questi gas fanno bene alla tasca, non è affatto certo che facciano bene alla salute. E fino a prova contraria a decidere se sia meglio rischiare di diventare ricchi o di rimetterci le penne dovrebbero essere le popolazioni che con i giacimenti di shale gas sono destinate a conviverci. Ecco, a questo serve il progetto europeo “Sheer”: Shale Gas Exploration and Exploitation Induced Risks (Rischi indotti dall’Esplorazione e dallo Sfruttamento di Shale Gas): a mettere da parte gli istinti e fornire all’opinione pubblica dei criteri “trasparenti” (“sheer” in inglese) di scelta. “Di fronte all'incertezza dei dati sull'impatto delle attività estrattive – spiega Paolo Gasparini, tra i più autorevoli esperti internazionali di fisica terrestre e responsabile di Sheer - l'Ue ha deciso avere un quadro preciso di rischi e benefici, la nostra ricerca serve a fornire le basi per definire delle linee guida. Le prime al mondo in materia”. Ora, a detta della stessa Unione Europea il gas scisto è il “combustibile fossile non convenzionale con il maggior potenziale di sviluppo in Europa”. In particolare, secondo una stima dell'European Commission's Joint Research Centre, il potenziale tecnicamente recuperabile di shale gas ammonterebbe a 16 miliardi di metri cubi. Per renderci conto di cosa stiamo parlando basti pensare che il consumo annuale di gas dell’Italia si aggira sugli 80 miliardi di metri cubi. Con queste riserve l'Ue potrebbe ridurre la propria dipendenza energetica dalla Russia e, non è un caso, che siano proprio i paesi dell’ex blocco sovietico, Polonia in testa, a spingere per lo sviluppo di quest’opzione energetica essendo i più dipendenti dalle importazioni di gas russo (in Bulgaria e Romania tale dipendenza oltrepassa il 90%).
Quanto alle politiche di estrazione, non c'è ancora una regola comune. Anzi. Polonia e l’Ucraina (rispettivamente 1ª e 3ª nazione in Europa per riserve di gas non convenzionale) sono impegnate nello sviluppo dello shale gas; la Francia (2ª per riserve) ha vietato le esplorazioni, mentre Germania e Gran Bretagna sono orientate a regolamentare le attività di estrazione. In Italia, invece, è “tecnicamente” vietato, ma senza una legge vera e propria.
Progetto Sheer, obiettivo “trasparenza”
Gasparini è amministratore delegato di Amra, centro di competenza campano nel settore dell'Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale, una realtà che negli anni, progetti su progetti (se ne contano 16 solo tra quelli finanziati dall'Unione Europea) è diventata un punto di riferimento sul piano internazionale. Tant'è che, nonostante l'Italia sia praticamente priva di giacimenti, a guidare Sheer sia proprio il centro di ricerca napoletano. “Una grande soddisfazione, visto che a sceglierci sono stati i nostri colleghi”, osserva con misurata soddisfazione Gasparini. Oltre ad Amra, Sheer include esperti dall’Istituto di geofisica dell’Accademia delle scienze polacca, dell’Università di Keele, nel Regno Unito, del Centro di ricerca tedesco per le geoscienze dell’Helmholtz Centre di Potsdam, in Germania, del Reale istituto meteorologico olandese, dell’Università di Glasgow, dell’Università del Wyoming e della società di consulenza britannica Rskw Ltd.
Partito ufficialmente il 4 maggio 2015, il progetto punta in particolare a sviluppare una metodologia probabilistica per la valutazione e la mitigazione dei rischi a breve e lungo termine associati al ciclo di vita del gas scisto. Tale metodologia permetterà, in particolare, di valutare gli impatti anche sul costruito circostante gli impianti (danni agli edifici e alle infrastrutture per sismicità indotta) nonché di quantificare l’impatto socio-economico che lo sfruttamento di shale gas determina sulle comunità locali e su tutti i soggetti coinvolti nel sito di produzione. Una parte importante del progetto sarà dedicata al monitoraggio di un sito di shale gas in Polonia, dove sarà possibile studiare in dettaglio il modello di permeabilità del sottosuolo e lo sviluppo del processo di fratturazione nello spazio e nel tempo attraverso un’attività continua di monitoraggio di attività sismica, composizione chimica delle acque di superficie e inquinamento dell’aria.
"Non c'è sorgente energetica immune da rischi. Il problema – conclude il ricercatore - è confrontare questi rischi, tra l'altro diversi tra regione e regione. Il nostro scopo è consentire una comparazione tra diverse forme di rischio connesse a diverse fonti di energia”. Il che equivale a rendere effettivamente e finalmente libero il dibattito dalle tifoserie e aprire la strada a quella che con un certa dose di ottimismo si potrebbe chiamare cittadinanza scientifica.